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Da uno Stato pariah allaltro



Domenico Losurdo

"La sinistra italiana e i nuovi Hitler"

l'articolo apparso su Aginform n.14 (ottobre 2000)
URL: http://www.pasti.org/hitler.htm


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http://www.pasti.org/hitler.htm

La sinistra italiana e i nuovi Hitler 

di Domenico Losurdo 

1. Da uno Stato pariah all’altro 

Nelle settimane scorse si è assistito ad uno spettacolo
straordinario, col formarsi di un gigantesco fronte unito
mondiale contro il "nuovo Hitler", rappresentato dal leader di
un partito entrato a far parte del governo austriaco: è il
governatore della Carinzia, Jörg Haider, una sorta di Bossi in
salsa carinziana. 

La formazione politica da lui diretta è un prodotto tipico della
globalizzazione capitalistica; gode dei vantaggi derivanti dalla
possibilità, per i paesi industriali più avanzati, di esportare merci
in tutto il mondo, ma guarda con orrore all’altra faccia della
medaglia del mercato globale, la mobilità della forza-lavoro su
scala planetaria e la conseguente ondata immigratoria di una
massa di disperati che cerca di sfuggire al sottosviluppo e alla
fame. E come sempre in questi casi, assieme alla razzizzazione
dei nuovi venuti o di coloro che premono alle porte, ecco
manifestarsi il revisionismo: è il tentativo di rimettere in
discussione o liquidare la gigantesca ondata rivoluzionaria che,
prendendo le mosse dall’Ottobre bolscevico, ha investito
colonialismo e razzismo, travolgendo fascismo e nazismo, cioè i
regimi impegnati a perpetuare e a radicalizzare per l’appunto il
dominio occidentale, bianco e ariano. Siamo in presenza di
processi ideologici e politici che, con modalità diverse, trovano
la loro espressione in personaggi come Haider, Bossi, Le Pen. 

Né si tratta solo dell’Europa. Ai confini meridionali degli Stati
Uniti un vero e proprio muro impedisce l’accesso agli immigrati
che premono dal Messico, mentre si infittiscono le voci che
lamentano l’effetto di inquinamento e di snaturamento
provocato dal flusso dei latinos ai danni dell’autenticità
americana e anglosassone. In una diffusa ideologia reazionaria, i
latinos tendono a far corpo coi neri, i quali ultimi, da sempre
relegati nei segmenti inferiori del mercato del lavoro, continuano
ad essere bersaglio di pregiudizi e stereotipi: libelli e libri
"autorevoli" si affannano a dimostrare "scientificamente"
l’inferiorità intellettuale dei neri e a riabilitare la Confederazione
secessionista e schiavista, la cui bandiera ancora oggi, nel Sud
degli Usa, viene agitata orgogliosamente dai rampolli degli
ex-proprietari di schiavi a ulteriore umiliazione delle vittime e
dei discendenti delle vittime dell’Olocausto nero. 

S’impongono la vigilanza e la lotta contro questi movimenti e
queste tendenze; e va dato atto ai comunisti austriaci di aver
saputo mettersi alla testa delle manifestazioni popolari di
protesta contro Haider. Ciò significa che dobbiamo
riconoscere all’Unione Europea il diritto di interferire nelle
vicende interne dell’Austria? In quale direzione verrà poi fatto
valere questo precedente? Nell’analizzare gli sviluppi politici in
atto nella repubblica ceca, la stampa statunitense si lascia
sfuggire qualche ammissione: "Mancano ancora due anni per le
prossime elezioni, ma se il Partito Comunista, che ha
raddoppiato i suoi suffragi in questi due anni, dovesse
continuare a crescere", ecco che, dopo l’Austria di Haider, un
altro Stato "pariah" dovrebbe essere fronteggiato dall’Unione
Europea (Finn, 2000 a). 

A questo punto i dubbi dovrebbero accrescersi ulteriormente:
non è sospetta l’attuale campagna che prende di mira un paese,
l’Austria, che ha rifiutato di partecipare, in modo diretto o
indiretto, alla guerra contro la Jugoslavia e che non fa parte né
intende far parte della Nato? Siamo ricondotti alla tragica realtà
della guerra nei Balcani: è qui che è in corso una pulizia etnica,
di cui sono protagonisti proprio quei paesi e quei governanti
che oggi si strappano le vesti per Haider. Senza mai mettere la
sordina in alcun modo alla lotta contro la xenofobia in ogni sua
manifestazione, una sinistra degna di questo nome dovrebbe
stare bene attenta a non mettersi al rimorchio dei carnefici di
Washington e delle diverse capitali europee.
E, invece… 

2. Dalla guerra civile rivoluzionaria
alle guerre di liberazione e di difesa nazionale

Per comprendere l’ennesima manifestazione di subalternità
della sinistra e la sua permanente incapacità di elaborare
un’autonoma strategia, conviene riflettere sulla storia del
movimento comunista internazionale. Essa è accompagnata
come un’ombra da una debolezza di fondo, teorica e politica: è
la tendenza a fare appello all’analogia piuttosto che all’analisi
concreta della situazione concreta. La rivoluzione d’Ottobre
scoppia a partire dalla trasformazione della guerra imperialista
in guerra civile rivoluzionaria: Lenin smaschera il carattere
mistificatorio della parola d’ordine della difesa della patria e fa
appello perché, in ogni realtà nazionale, i comunisti si impegnino
in primo luogo per la disfatta del proprio paese e del proprio
governo. E’ sull’onda di queste gigantesche lotte che scaturisce
la Terza Internazionale. Innegabili e enormi sono i suoi meriti
storici, ma a lungo essa ha ondeggiato e stentato prima di
elaborare una strategia all’altezza della situazione radicalmente
nuova che si era venuta a creare. Diffusa e tenace si è rivelata
la tendenza a pensare la nuova ondata rivoluzionaria che stava
montando sul modello di quella che aveva dato vita alla Russia
sovietica; si scrutava l’orizzonte alla ricerca della nuova guerra
imperialista da trasformare, ancora una volta e secondo un
modello già consolidato, in guerra civile rivoluzionaria. 

Non ci si rendeva conto che, proprio in virtù della loro vittoria,
i bolscevichi avevano reso improbabile o impossibile la
riproposizione meccanica della precedente esperienza. Della
svolta è invece consapevole Lenin: "dall’ottobre 1917 siamo
divenuti tutti difensisti, fautori della difesa della patria" (Lenin
1955 b, p. 64). L’esistenza stessa della Russia sovietica,
risultato della rivoluzione vittoriosa, significava l’irrompere di un
elemento del tutto assente nel primo conflitto mondiale: in ogni
paese i comunisti dovevano tenerne conto se volevano
procedere ad un’analisi concreta della guerra concreta. 

Ma non era solo l’esistenza di un paese impegnato nella
costruzione del socialismo a conferire una natura e un
significato nuovi alle crisi belliche che si andavano addensando.
Non bisogna perdere di vista il fatto che, assieme all’appello
alla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile
rivoluzionaria, i bolscevichi lanciano anche l’appello agli schiavi
delle colonie a spezzare le loro catene e, dunque, a condurre
guerre di liberazione nazionale contro il dominio imperiale delle
grandi potenze. Il nazi-fascismo si presenta come un
movimento di reazione, e di reazione estrema, anche a questo
secondo appello. Alla vigilia dell’inizio ufficiale della seconda
guerra mondiale, prima ancora di aggredire Polonia e URSS, la
Germania nazista smembra la Cecoslovacchia e dichiara in
modo esplicito che la Boemia-Moravia è un "protettorato" del
Terzo Reich: il linguaggio e gli istituti della tradizione coloniale
sono esplicitamente rivendicati e il loro ambito di applicazione
esteso anche all’Europa orientale. E’ qui che Hitler intende
edificare "le Indie tedesche", decimando la popolazione locale,
appropriandosi delle loro terre e trasformando i superstiti in
forza-lavoro servile per la "razza dei signori". 

Ciò significa che sin dall’inizio il secondo conflitto mondiale
presenta caratteristiche radicalmente diverse rispetto al primo:
non si tratta più di trasformare la guerra imperialista in guerra
civile rivoluzionaria; la lotta contro l’imperialismo si intreccia
ora strettamente all’appoggio alle guerre di liberazione
nazionale dei popoli investiti dalla nuova ondata di espansione
coloniale e alla guerra per la difesa dell’Unione Sovietica.
Persino i comunisti e i democratici tedeschi, italiani e giapponesi
lottano sì per la disfatta dei loro rispettivi governi e paesi ma
anche - e questa è una radicale novità rispetto al 1914-18 - per
la vittoria delle guerre di difesa e indipendenza nazionale
dell’URSS, della Jugoslavia, dell’Albania, della Cina: per fare
solo un esempio, si pensi ai soldati italiani inviati nei Balcani dal
governo fascista, che si arruolano nelle file dei partigiani
jugoslavi e albanesi, impegnati in una guerra di liberazione
nazionale. 

Di queste radicali novità il movimento comunista si rende conto
a partire soprattutto dal VII Congresso dell’Internazionale
(1935). E’ un complesso processo di apprendimento che
avviene in condizioni drammatiche, mentre sempre più
minaccioso incombe il pericolo della guerra e del fascismo: alle
difficoltà della situazione oggettiva si aggiungono l’inesperienza,
gli errori e i crimini soggettivi col trasformarsi, per
responsabilità di tutti, di contraddizioni in seno al popolo in
contraddizioni antagonistiche. Resta il fatto che la nuova ondata
rivoluzionaria comincia a svilupparsi quando, abbandonato il
gioco delle analogie, il movimento comunista procede ad
un’analisi concreta della situazione concreta. Quei pochi
(Bordiga, Trotski ecc.) che continuano ad agitare
nostalgicamente la parola d’ordine della trasformazione della
guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria si rivelano in
realtà prigionieri di una "frase" e finiscono col separarsi dal
corpo del movimento comunista. 

La nuova strategia trova la sua espressione più alta in due
avvenimenti epici: la Lunga Marcia dei comunisti cinesi che,
guidati da Mao Zedong, attraversano migliaia di chilometri, in
condizioni assai difficili, per andare a mettersi alla testa della
guerra di difesa nazionale contro l’imperialismo giapponese;
l’appello di Stalin ai popoli dell’Unione Sovietica perché si
uniscano nella Grande Guerra Patriottica contro le bande
hitleriane. E’ così che si sviluppa, dopo la rivoluzione
d’Ottobre, una seconda gigantesca ondata rivoluzionaria: il
campo socialista conosce un’enorme estensione, mentre il
dilagare delle rivoluzioni anticoloniali sembrano far barcollare
l’imperialismo. 

3. Il "nuovo Hitler" e l’Anticristo 

Disgraziatamente, sulla scia di questa grande vittoria fa di
nuovo la sua apparizione il gioco inane delle analogie. Il
movimento comunista segue con appassionata attenzione
l’andamento della borsa a Wall Street nell’attesa di una
riedizione della grande crisi del 1929. Questa crisi aveva
accelerato l’ascesa del fascismo e aggravato le contraddizioni
tra le grandi potenze capitalistiche, sfociate poi nel secondo
conflitto mondiale. Un anno prima della sua morte, nel 1952,
Stalin ribadisce la tesi dell’assoluta inevitabilità della guerra tra i
paesi imperialisti. Questi, come nel 1939, si sarebbero scontrati
sanguinosamente tra di loro, prima di coinvolgere nella guerra
l’Unione Sovietica e il campo socialista. Come si vede, si pensa
l’auspicata terza ondata rivoluzionaria sul modello della
seconda, così come per tanto tempo la seconda ondata
rivoluzionaria era stata pensata sul modello della prima. 

In realtà, proprio la gigantesca estensione del campo socialista
frena lo sviluppo delle contraddizioni tra le diverse potenze
capitalistiche: gli Usa riescono ad unificarle sotto la loro
egemonia e non solo sul piano militare: una serie di organismi
economici internazionali per un verso assicura il controllo di
Washington sui suoi alleati, per un altro verso cerca di
controllare la dinamica che aveva portato alla catastrofe del
’29. 

Il movimento comunista si rivela piuttosto riluttante a
congedarsi dalle sue grandiose memorie storiche e dal gioco
delle analogie ad esse connesso. Anche i gruppi scaturiti dal
’68 non si sono stancati di invocare la "nuova Resistenza" e i
"nuovi partigiani". Era largamente diffusa la visione secondo cui
la crisi spingeva la borghesia a ripercorrere la via del fascismo;
solo che questa volta il movimento di lotta per il recupero della
democrazia sarebbe andato sino in fondo, rovesciando una
volta per sempre il capitalismo. Sia chiaro: non è che siano
mancati i colpi di Stato e i tentativi di colpi di Stato: epperò, la
stessa dittatura militare, da distinguere peraltro dal fascismo
propriamente detto, è stata per lo più pensata come soluzione
provvisoria, come tappa intermedia in vista della realizzazione
del Nuovo Ordine Internazionale che oggi, dileguati il "campo
socialista" e le angosce da esso provocate, si va delineando,
come vedremo, con grande chiarezza. 

Non ha senso, allora, scrutare l’orizzonte alla ricerca delle
avvisaglie che annuncino il nuovo Hitler. Tanto varrebbe
attendere la venuta dell’Anticristo. In un caso e nell’altro si
tratta di una rappresentazione religiosa: la riedizione del Male
assoluto è il presupposto del trionfo totale e definitivo del Bene.
In realtà, le orde hitleriane, bloccate e ignominiosamente
sconfitte a Stalingrado e poi progressivamente ricacciate
indietro dall’eroica Armata Rossa fino alla capitolazione finale
del Terzo Reich, non risorgeranno dalle loro ceneri. Il
movimento comunista ha contribuito in modo decisivo a
liquidare il nazismo anche sul piano ideologico. Ancora negli
anni ’30, il termine "razzismo" aveva una connotazione tutt’altro
che univocamente negativa; a questa presunta "scienza"
facevano riferimento, ben al di là della Germania, non pochi
"scienziati" del mondo capitalistico. Con la disfatta del Terzo
Reich tutto è cambiato. 

E un nuovo radicale mutamento è intervenuto col crollo del
"campo socialista". Se negli anni della guerra fredda erano due
le capitali (Washington e Mosca), in aspra concorrenza l’una
con l’altra, a tentar di bollare questo o quel nemico come un
"nuovo Hitler", ora questo potere di scomunica è rimasto
esclusivamente e saldamente in mano a Washington. E così,
dopo Saddam e Milosevic, è Haider il "nuovo Hitler"! Per sua
fortuna, l’Austria non è ancora stata colpita dalle bombe e dagli
embarghi che hanno devastato e continuano a devastare l’Irak
e la Jugoslavia. Dunque, una sinistra che continua a coltivare il
gioco delle analogie, scrutando l’orizzonte alla ricerca del
nazismo risorto o risorgente, non solo si muove in uno spazio
storico immaginario, ma contribuisce a rafforzare ulteriormente
l’egemonia del Santo Padre…che siede a Washington, il quale
ora si trova a disporre al tempo stesso del potere di scomunica
e della capacità di annientamento nucleare. 

Fa un po’ pena Cossutta quando si atteggia a Dimitrov o
Togliatti redivivo, a leader di un rinato fronte popolare in lotta
contro un imprecisato pericolo fascista. Intanto il suo partito fa
parte di un governo che nei Balcani si è macchiato e continua a
macchiarsi di infamie, che trovano un precedente soltanto
nell’operato di Mussolini. Bisogna però riconoscere che, in
occasione del caso Haider, pur di fronteggiare l’improbabile
Hitler della Carinzia, anche "il manifesto" e persino certi
esponenti del PCF o di Rifondazione Comunista si sono rivelati
inclini a costituire un fronte unito con Jospin e con gli altri
responsabili della guerra nei Balcani e della pulizia etnica a
danno dei serbi tutt’ora in corso nel Kosovo. 

4. Il bel Thaci, Lady Killer e la frase "trotskista"

Se Cossutta in particolare gioca a rappresentare Dimitrov o
Togliatti, certi gruppi "trotskisti" si ostinano invece a
rappresentare Lenin e Trotski: il loro cavallo di battaglia è
dunque l’"autodeterminazione". Epperò nell’agitare questa
parola d’ordine, essi sembrano non volersi neppure interrogare
sui colossali sconvolgimenti nel frattempo intervenuti. A partire
dall’Ottobre, il movimento di emancipazione dei popoli in
condizioni coloniali e semicoloniali ha conosciuto grandi vittorie:
Stati di antica civiltà hanno conquistato un’indipendenza reale,
non più meramente formale (si pensi alla Cina e alla Persia);
nuovi Stati nazionali si sono costituiti scuotendosi di dosso il
giogo delle grande potenze imperiali. Queste continuano a
manifestare la loro natura aggressiva e le ambizioni di dominio
in condizioni nuove: costrette a riconoscere l’indipendenza dei
paesi che si sono sottratti al loro controllo, cercano ora di
disgregarli facendo appello alle rivalità etniche e tribali. E’ una
manovra agevole. I paesi di nuova indipendenza, spesso con
confini incerti, mal disegnati o arbitrari, non hanno una
consolidata storia unitaria alle loro spalle. Già di per sé,
l’eredità coloniale è un terreno fertile per l’emergere di
movimenti separatisti e secessionisti, che sono facilmente
egemonizzati dall’imperialismo. "Donde il ripetuto, e spesso
vano, invito dei capi di questi nuovi Stati a superare il
"tribalismo", il "localismo", o qualsiasi altra forza disgregrante
ritenuta responsabile dell’incapacità dei nuovi abitanti della
Repubblica X di sentirsi, in primo luogo, cittadini della patria X,
invece che appartenenti a questa o quella collettività"
(Hobsbawm, 1991, p. 202). 

Esemplare è la vicenda che si svolge nel Congo tra la fine degli
anni ’50 e gli inizi degli anni ’60. Costretto a concedere
l’indipendenza, il Belgio si impegna subito a promuovere la
secessione del Katanga. Non era in nome
dell’autodeterminazione che il Congo (come tutta l’Africa)
aveva rivendicato e andava rivendicando l’indipendenza?
Ebbene, questo medesimo principio doveva ora esser fatto
valere anche per la ricca regione mineraria controllata
dall’Union minière. Per l’occasione, si trova subito il
"rivoluzionario" pronto ad agitare questa bandiera: è Moise
Ciombe, "figlio del primo milionario negro" del Katanga.
Secessionisti e forze coloniali catturano Lumumba, leader del
Movimento nazionale congolese, che si ispira "a un programma
unitario, progressista, intertribale". E’ dunque colpevole di
opporsi alla secessione e all’"autodeterminazione" della ricca
regione cui i colonialisti non intendono rinunciare; viene
pertanto massacrato (Santarelli, 1982, pp. 511-2). 

Per di più il dominio coloniale ha lasciato i segni: sul piano
economico, accentuata risulta la disuguaglianza dello sviluppo
tra le diverse regioni; mentre la presenza egemone ad ogni
livello delle grandi potenze e la politica di ingegneria etnica
talvolta da esse promossa hanno accentuato la frantumazione
culturale, linguistica e religiosa. Di nuovo sono in agguato
tendenze secessioniste di ogni tipo, regolarmente alimentate
dalle ex - potenze coloniali. Quando ha strappato Hong Kong
alla Cina, la Gran Bretagna non ha certo pensato
all’autodeterminazione, e di questo principio non è si è
ricordata neppure nei lunghi anni in cui ha esercitato il suo
dominio. Ma ecco che alla vigilia del ritono di Hong Kong alla
madrepatria, il governatore inviato da Londra, Chris Patten, un
conservatore, ha una sorta di illuminazione e conversione
improvvisa: fa appello agli abitanti di Hong Kong perché
facciano valere il loro diritto all’"autodeterminazione"… contro
la madrepatria, rimanendo così nell’orbita dell’Impero
britannico. 

Considerazioni analoghe valgono per Taiwan. Quando, agli inizi
del 1947, il Kuomintang, in fuga dalla Cina continentale e dal
vittorioso Esercito Popolare, scatena contro gli abitanti di
Taiwan una terribile repressione che provoca circa 10. 000
morti (Lutzker, 1987, p. 178), gli Stati Uniti si guardano bene
dall’invocare il diritto all’autodeterminazione per gli abitanti
dell’isola; anzi, cercano con ogni mezzo di imporre la tesi
secondo cui il governo di Chiang Kai-shek era il governo
legittimo non solo di Taiwan ma dell’intera Cina: il grande
paese asiatico doveva dunque rimanere unito, sotto il controllo
però di Chiang Kai-shek, ridotto a semplice proconsole
dell’imperiale sovrano di Washington. Man mano che dileguano
i sogni di riconquista del continente e più forte si avverte
l’aspirazione dell’intero popolo cinese a conseguire la piena
integrità territoriale e la piena indipendenza, ponendo fine al
tragico capitolo di storia coloniale, ecco che i presidenti
statunitensi conoscono un’illuminazione e una conversione
simile a quella di Chris Patten: cominciano ad accarezzare
anch’essi l’idea dell’"autodeterminazione". Incoerenza? Nulla di
tutto questo: l’"autodeterminazione" è la continuazione della
politica imperiale con altri mezzi. Se proprio non è possibile
mettere le mani sulla Cina nel suo complesso, intanto conviene
assicurarsi il controllo di Hong Kong o Taiwan. 

Così anche nei Balcani. Il diktat di Rambouillet prevedeva per
la Nato il controllo militare dell’intera Jugoslavia; un’eroica
resistenza ha fatto fallire questo piano; ed ecco ora le manovre
per imporre, oltre a quella del Kosovo, l’"autodeterminazione"
anche del Montenegro e, possibilmente, di altre regioni.
L’imperialismo rivela una ferrea coerenza. Sono invece certi
gruppi "trotskisti" a dar prova di totale distacco dalla realtà:
credono di essere discepoli fedeli e coerenti di Lenin e Trotski
e non si avvedono di trasformare una grande parola d’ordine
rivoluzionaria in una "frase". Avviene dunque che, mentre si
spellano le mani per applaudire il principio
dell’autodeterminazione, gli "eroi della frase" guardano con
freddezza o ostilità alla concrete lotte per l’autodeterminazione
che si svolgono sotto i loro occhi e che vedono protagonisti
paesi come la Jugoslavia e la Cina; anzi questi eroi, pur
prendendo le distanze dai bombardamenti, finiscono col
riecheggiare alcuni motivi dell’ideologia della guerra della Nato,
cioè di un’alleanza che, con la sua nuova dottrina, ha posto in
modo esplicito sulle proprie bandiere la cancellazione della
sovranità nazionale e dello Stato nazionale, e dunque dello
stesso diritto all’autodeterminazione. 

Parlando di gruppi "trotskisti", ho usato a ragion veduta le
virgolette: pur coi gravi errori commessi nel corso di un
complesso e tragico processo di apprendimento che ha
coinvolto l’intero gruppo dirigente scaturito dall’Ottobre e il
movimento comunista nel suo complesso, il grande
rivoluzionario russo non si sarebbe mai sognato di conferire una
legittimazione rivoluzionaria all’Uck e al bel Thaci, il capo
mafioso, beniamino della Nato e, soprattutto, della Albright, la
Lady Killer dell’imperialismo americano. 

E così, pur impegnati a rappresentare, nell’ambito del gioco
delle analogie, personaggi storici tra loro assai diversi, Cossutta
e i suoi involontari imitatori da un lato e i gruppi trotskisti
dall’altro rischiano di mettersi al rimorchio di quello che è oggi il
peggior nemico sia del principio dell’uguaglianza tra popoli e
etnie sia del principio dell’autodeterminazione. 

5. Il Führer e l’aspirante sovrano planetario di
Washington 

In effetti, ben lungi dall’essere dileguati, l’ambizione e il sogno
di dominio planetario hanno assunto ai giorni nostri una
configurazione ancora più netta. In questo senso, se c’è
qualcosa che può far pensare al Terzo Reich, nella visione di
Hitler destinato a durare almeno mille anni, è il Nuovo Ordine
Internazionale egemonizzato dagli USA, titolari, secondo
l’arrogante e visionaria rivendicazione di Clinton, di una
"missione" planetaria addirittura "senza tempo". Si comprende
allora che Washington rifiuti di pronunciare qualsiasi autocritica
per Hiroshima e Nagasaki. Eppure sono autorevoli studiosi
stanunitensi a parlare a tal proposito di "olocausto", messo
esplicitamente a confronto con l’"olocausto" consumato dai
nazisti. Ma gli Usa sono decisi a rivendicare il loro "diritto"
all’annientamento nucleare della popolazione civile dei paesi
nemici con lo sguardo rivolto non solo al passato ma anche al
presente e al futuro. Ecco perché rifiutano ostinatamente di
impegnarsi a non far ricorso per primi all’arma atomica. Tutti i
popoli del mondo devono aver chiaro che Hiroshima e
Nagasaki sono tranquillamente ripetibili ogni volta che
Washington lo riterrà opportuno. 

Assieme alla minaccia dell’olocausto, gli Stati Uniti fanno anche
riemergere la realtà terribile dei campi di concentramento. Cosa
sono infatti gli embarghi se non una versione post-moderna del
campo di concentramento? In epoca di globalizzazione, non c’è
più bisogno di deportare un popolo: basta bloccare l’afflusso di
cibo e medicinali; tanto più poi se, con qualche
bombardamento "intelligente", si riesce a distruggere
acquedotti, fognature e infrastrutture sanitarie, come per
l’appunto è avvenuto in Irak e in Jugoslavia. 

Né le analogie con il Terzo Reich si fermano qui. Ieri come
oggi, gli autoproclamatisi signori dell’universo considerano il
diritto internazionale alla stregua di un pezzo di carta: non
valgono nulla né la sovranità nazionale né le norme che
dovrebbero regolare il conflitto armato. In occasione della
guerra del Golfo, gli Usa non hanno esitato a "sterminare gli
irakeni ormai fuggiaschi e disarmati" (Bocca, 1992); per
l’esattezza, a sterminarli "dopo il cessate il fuoco" ("Corriere
della Sera" del 9 maggio 1991). In modo ancora più sovrano si
è manifestato il disprezzo del diritto internazionale in occasione
della spedizione punitiva contro la Jugoslavia: sono lì a
testimoniarlo i proiettili all’uranio, le bombe a frammentazione,
l’esecuzione, mediante il bombardamento della TV serba, dei
giornalisti considerati politicamente scorretti dalla Nato. 

Gli Usa si riservano il diritto di fare a pezzi, a loro piacimento,
questo o quel paese, ad esempio proclamando in Irak le no fly
zones e bombardando sistematicamente chi dovesse anche solo
osare puntare il radar contro gli aerei invasori. A partire da
Washington, una sorta di mafioso tribunale segreto commina
condanna a morte a carico di questo o quel capo di Stato. Un
articolo dell’"International Herald Tribune" annuncia giubilante:
la Cia ha stanziato somme enormi "per trovare un generale o un
colonnello che conficchi una pallottola nel cervello di Saddam"
(Hoagland, 2000). 

Indipendentemente da questo o quel singolo crimine, siamo
portati a pensare al Terzo Reich per una questione politica
centrale. Il gigantesco processo di emancipazione dei popoli in
condizioni coloniali o semicoloniali, messo in moto dalla
rivoluzione d’Ottobre, si è scontrato con due grandi ondate
controrivoluzionarie: se la prima è rappresentata dal nazismo, la
seconda prende ora forma nella nuova dottrina della Nato.
Ritorna così d’attualità il principio classico di legittimazione
delle guerre coloniali: sinonimo di civiltà, l’Occidente guidato
dagli Usa ha il diritto e il dovere di diffonderla in ogni angolo
del mondo, spazzando via i barbari che dovessero intralciare
questa marcia trionfale. Infine. L’ideologia cara al nazismo, che
celebrava i tedeschi come il "popolo dei signori", destinata dalla
natura o dalla provvidenza ad esercitare l’egemonia mondiale,
tale ideologia continua a mostrarsi vitale nell’imperialismo Usa:
per fare solo un esempio, Kissinger non esita a dichiarare che
"la leadership mondiale è inerente al potere e ai valori
americani". 

Non c’è dubbio: se proprio si vuol far ricorso al gioco delle
analogie, a rassomigliare al Führer è l’aspirante sovrano
planetario che siede a Washington. E, tuttavia, sarebbe
fuorviante vedere in Clinton il "nuovo Hitler. Non si tratta tanto
di stabilire una gerarchia dell’orrore. Certamente, nell’ambito di
questa gerarchia un posto eminente dev’essere riservato a un
individuo che, mediante embargo, condanna un intero popolo
alla decimazione, e lo condanna non già nel corso di un conflitto
per la vita o per la morte, ma in tutta tranquillità, senza correre
alcun pericolo né per sé né per il paese che rappresenta, a
freddo, anzi in modo giulivo, tra una scorribanda sessuale e
l’altra. 

6. "Filantropia più 5% più politica delle
cannoniere" 

Se, tenendo conto del diverso contesto storico e geopolitico,
Clinton non risulta meno repugnante di Hitler sul piano morale,
resta comunque il fatto che profondamente diversi risultano la
tradizione politica e ideologica alle spalle dei due personaggi, il
contesto storico in cui essi agiscono, le tattiche e le parole
d’ordine cui fanno ricorso. Al contrario di quello nazista,
l’imperialismo americano non aspira oggi al controllo politico
diretto delle sue colonie o semicolonie. Esso mira piuttosto a
trasformare il mondo intero in un "libero mercato" e in una
"democrazia" intesa come "libero mercato politico", aperto alle
merci e ai "valori" made in USA. Alla realizzazione di tale
obiettivo mirano in modo convergente da un lato la promozione
delle rivalità etniche e dei movimenti separatisti dall’altra le
campagne per i "diritti dell’uomo". Agli occhi di Washington un
partito politico fortemente organizzato è altrettanto intollerabile
di una fiorente e autonoma economia e tecnologia nazionale (la
Cina Popolare costituisce un pugno nell’occhio da entrambi i
punti di vista). I paesi che possono costituire un ostacolo alla
marcia verso l’egemonia mondiale devono essere smembrati e
spalancarsi alla strapotenza economica, multimediale, culturale
e politica dell’imperialismo americano. Nell’ombra è pronto a
intervenire in modo diretto, scatenando "guerre umanitarie", un
mostruoso apparato militare di distruzione e di morte. 

Più che a quello nazista, l’odierno imperialismo americano fa
pensare all’imperialimo britannico che, con la sua espansione, si
sentiva impegnato a "rendere le guerre impossibili e
promuovere i migliori interessi dell’umanità". Ad esprimersi in
tal modo è Cecil Rhodes, il quale così sintetizza la filosofia
dell’Impero britannico: "filantropia + 5%" (Williams, 1921, pp.
50-1); dove "filantropia" è sinonimo di "diritti umani" e la
percentuale del 5% sta ad indicare i profitti che la borghesia
capitalistica inglese realizzava o si proponeva di realizzare
mediante le conquiste coloniali e l’agitazione della bandiera dei
"diritti umani". Vediamo ora in che modo un giornalista
statunitense descrive e celebra la globalizzazione: questa serve
ad esportare in primo luogo "i prodotti, le tecnologie, le idee, i
valori e lo stile del capitalismo americano". Gli Usa possono
quindi consolidare ed estendere la loro egemonia "sia
stabilizzando il mondo militarmente sia democratizzandolo
economicamente e politicamente"; in particolare, "per smuovere
la Cina", essi devono saper combinare "cannoniere, commercio
e investimenti Internet", oltre, naturalmente, alla parola d’ordine
della "democratizzazione" economica e politica (Friedman,
2000). La formula cara a Rhodes, il cantore dell’imperialismo
britannico, può quindi essere riformulata con maggiore
precisione e franchezza: "filantropia (ovvero diritti dell’uomo) +
5% + politica delle cannoniere". Le cannoniere sono essenziali
già per stimolare il processo di globalizzazione: il giornalista già
citato invita Israele a non fare nessuna concessione sul Golan
"sino a quando non vede la Siria entrare nel mondo" e
cominciare a "privatizzare e deregolamentare" (Friedman,
1999). D’altro canto, è stato notato che, agli occhi della Nato,
uno dei crimini più gravi di Belgrado è nel suo rifiuto di
"adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione"
(Ramonet, 1999). 

C’è dunque una ferrea unità in questa formula: "filantropia +
5% + politica delle cannoniere". E’ la sinistra che non riesce a
comprenderlo. Condanna le "guerre umanitarie" ma appoggia
l’opposizione a Milosevic; epperò, se andasse al potere, questa
"opposizione" profumatamente pagata da Washington e
dall’Occidente nel suo complesso, spalancherebbe il paese alle
merci e all’egemonia culturale e politica degli Usa e della Nato,
la quale finirebbe con l’allargarsi ancora di più, inglobando la
stessa Serbia; e così la "guerra umanitaria" conseguirebbe tutti
gli obiettivi per i quali è stata scatenata. Sulla stampa americana
è possibile leggere delle denunce che parlano degli Usa come
di un paese in cui domina la "plutocrazia", nell’ambito delle
quale le istituzioni sono controllate dalla ricchezza, mentre "il
resto del popolo è lasciato fuori" da ogni possibilità di influire
sulle scelte politiche (Pfaff, 2000). Eppure una certa sinistra
guarda sì con sgomento all’avanzare del mercato globale e allo
smantellamento dei diritti economici e sociali, ma poi si accoda
alle campagne per la "democrazia" come se la plutocrazia di
Washington non giocasse alcun ruolo in queste campagne e
come se il trionfo del mercato politico non andasse di pari
passo col trionfo del mercato economico. 

La confusione è totale: quanti articoli sono apparsi e appaiono
sul "manifesto" che invitano l’Occidente ad essere ancora più
intransigente nella sua campagna per i "diritti dell’uomo" in
Cina? Assistiamo così al singolare spettacolo di un "quotidiano
comunista" che fa appello alle potenze capitalistische perché
scatenino una guerra, per ora solo "fredda", contro la
Repubblica fondata da Mao Zedong e tuttora diretta dal Partito
Comunista. 

Nella strategia dell’imperialismo, la crociata "filantropica" per i
"diritti dell’uomo" è il primo passo di una scalata che, attraverso
le rappresaglie commerciali e poi l’embargo più o meno totale,
conduce all’aggressione militare vera e propria; ma un certa
sinistra sale per un pezzo su questa scala infernale e si dimena
scompostamente per scendere, solo quando comincia ad
avvertire il puzzo del bruciato e il fragore delle bombe. 

7. Il pericolo principale 

In mancanza di un’analisi concreta della situazione concreta, la
sinistra si rivela incapace di elaborare un’autonoma strategia.
Perde di vista il nemico principale. Ad Haider viene
giustamente rimproverato il tentativo di parziale riabilitazione
delle Waffen SS (anche al loro interno c’erano persone
"rispettabili"!); ma non bisogna dimenticare che nel 1985 è
stato lo stesso presidente Usa, Reagan, a rendere omaggio, nel
cimitero di Bitburg, assieme a Kohl, a questi corpi militari, che,
se anche non vanno confuse con le SS vere e proprie,
costituivano comunque uno strumento essenziale dell’infame
politica del Terzo Reich. E dunque sono stati Washington e
Bonn ad impegnarsi per primi in questa spregiudicata
operazione revisionistica. 

Ma veniamo al presente. Mentre si strappavano le vesti per il
caso Haider, gli Usa, d’accordo coi loro alleati europei,
conducevano nel Kosovo un’orribile pulizia etnica. Già
nell’agosto dello scorso anno l’Human Rights Watch di New
York calcolava che "dall’arrivo delle truppe Nato a metà
giugno più di 164. 000 serbi sono fuggiti dal Kosovo"; altri 200
circa non hanno avuto questa possibilità: sono rimasti vittima di
attentati o massacri (Fraser, 1999). Chiunque ha osato parlare
in pubblico in serbo si è attirato o ha rischiato di attirarsi "una
sommaria sentenza di morte" (Finn, 2000 b) 

L’Uck non è la sola responsabile. Facendo ricorso ad un
grazioso eufemismo, sempre insospettabili fonti americane
riconoscono che "la protezione dei civili serbi e dei luoghi santi
non era in posizione eminente nella scala di priorità" delle
truppe di occupazione; anzi, il generale Jackson riteneva che il
suo compito sarebbe stato più agevole "se fossero rimasti meno
serbi" (Erlanger, 2000 a). Contemporaneamente, nel Kosovo
le porte sono state "spalancate ai nuovi immigrati dall’Albania"
(Nava, 2000). Dunque, una pulizia etnica in piena regola. Visto
il successo dell’operazione, perché bloccarla alle frontiere della
regione ora controllata dalla Nato? E in effetti l’Uck si spinge al
di là, nel Presevo: ha ora un nuovo nome e nuove uniformi, "un
misto tra quelle tedesche e quelle americane", e "si esercita"
anche con armi pesanti, in territorio serbo, sotto gli occhi
benevoli delle truppe Usa (Erlanger, 2000 b). Ci sono già le
premesse per un rilancio in grande stile della "guerra
umanitaria". 

Inane e ridicola è l’attesa di un "nuovo Hitler"; ma la
permanente barbarie dell’imperialismo esige sin d’ora una
strategia coerente e una risposta all’altezza della situazione. 

Domenico Losurdo