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Notizie Est #284 - Kosovo
- To: "Notizie Est" <est@ecn.org>
- Subject: Notizie Est #284 - Kosovo
- From: "Est" <est@ecn.org>
- Date: Sat, 27 Nov 1999 19:33:20 +0100
- Posted-Date: Sat, 27 Nov 1999 19:44:48 +0100
- Priority: normal
"I Balcani" - http://www.ecn.org/est/balcani
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NOTIZIE EST #284 - KOSOVO
27 novembre 1999
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DOSSIER: LE SPECULAZIONI SULLE VITTIME IN KOSOVO
/ 3
a cura di Andrea Ferrario
IL CONTESTO DELLA CAMPAGNA DI DISINFORMAZIONE
SULLE VITTIME IN KOSOVO
E' sempre difficile interpretare in tempo reale
le "grandi manovre" politiche che si svolgono
intorno alla situazione assolutamente caotica
del dopoguerra in Kosovo. Cercheremo qui di
riassumere gli eventi salienti che si sono
prodotti in coincidenza con i principali momenti
della campagna di disinformazione e di
abbozzarne qualche interpretazione.
L'articolo di "El Pais" riportante le
dichiarazioni di Pujol e Palafox e' stato
pubblicato il 23 settembre, negli stessi giorni
in cui si chiudeva il processo di disarmo e
scioglimento dell'UCK e del suo parziale
confluire in una forza di protezione civile
controllata dalla NATO e pressoche' disarmata,
ma allo stesso tempo inglobante la catenda di
comando della forza albanese. Si e' trattato
della conclusione, senza particolari intralci
per l'alleanza occidentale, di uno dei momenti
politici piu' delicati del dopoguerra. La
chiusura di tale capitolo ha consentito di
concentrarsi maggiormente su un altro aspetto
cruciale, rimasto pericolosamente aperto e
indefinito gia' da tempo. In quei medesimi
giorni sono infatti emerse con chiarezza, in
seno ai paesi NATO, divergenze riguardo ai
futuri destini del Kosovo, evidenziatesi in
particolare con le dichiarazioni di anonimi
funzionari USA, riportate dal "Washington Post"
il 24 settembre (il giorno dopo l'uscita
dell'articolo di "El Pais"), secondo i quali
l'indipendenza del Kosovo sarebbe indesiderata,
ma inevitabile a medio termine (si veda "Notizie
Est" #264, 25 settembre 1999). A tali
dichiarazioni ha fatto seguito immediatamente
una grande quantita' di altre dichiarazioni da
parte di esponenti USA ed europei che si sono
pronunciati chiaramente contro una tale ipotesi
(si veda "Notizie Est" #269, 18 ottobre 1999).
E' chiaro che i circoli che vedono un Kosovo
indipendente come inevitabile rimangono ancora
minoritari, anche in seno alla sola
amministrazione USA, ma in realta' le loro
argomentazioni sono particolarmente "pericolose"
perche' le voci contrarie a tale ipotesi,
seppure in maggioranza, non sembrano sapere
offrire alternative concrete e infatti tutti
coloro, americani o europei, che hanno reagito
opponendosi ogni ipotesi di indipendenza del
Kosovo, si sono ben guardati dallo specificare
in concreto come arrivare ad altre soluzioni.
Tra fine settembre e i primi di ottobre ci sono
stati due altri sviluppi di grande importanza.
Il primo e' stato il drastico calo di
partecipazione media alle manifestazioni
organizzate dall'opposizione serba a Belgrado e
in altre citta' (piu' nutrite la' dove invece
non erano egemonizzate dai principali partiti di
opposizione), rendendo cosi' sempre piu'
evidente l'impossibilita', a breve termine, di
un cambio di regime in Serbia su pressioni di
una piazza "controllata" da forze politiche
fidate. L'altro e' stato il passaggio da un
impegno generico a tenere in Kosovo elezioni in
primavera, a quello di tenere elezioni
unicamente locali al fine esplicito di evitare
ogni dibattito riguardo al futuro status del
Kosovo. Successivamente, nel corso di ottobre si
e' passati dal termine previsto della primavera
a un vago "non prima dell'estate", diventato poi
a meta' novembre un "nell'autunno 2000"
("Danas", 2 novembre 1999). Contro la fissazione
immediata di qualsiasi termine per le elezioni
si sono pronunciati in ottobre i vertici
dell'OSCE, che e' poi l'organizzazione alla
quale l'ONU ha conferito in Kosovo le competenze
per la "democrazia" e per l'organizzazione delle
elezioni. Secondo l'OSCE, l'amministrazione ONU
deve prima procedere a un censimento della
popolazione (compito necessariamente molto lungo
da eseguire, nella situazione attuale) e solo
dopo di cio' fissare un termine per le elezioni.
Abbiamo visto, nelle parti precedenti, che a
fine settembre le dichiarazioni rese da Pujol e
Palafox a "El Pais" sono state riprese cosi'
come erano da numerose fonti, senza tuttavia
dare luogo a ulteriori sviluppi. Una vera e
propria campagna e' cominciata invece solo a
partire dal 17 ottobre, con l'articolo della
"Stratfor", molto piu' lungo di quello di "El
Pais", ma che non aggiungeva nulla, a livello di
fatti, rispetto al primo. Alla luce di cio' e'
difficile spiegarsi perche' proprio nella
seconda meta' di ottobre, e non subito dopo il
pezzo di "El Pais", questa campagna abbia
trovato tra le grandi testate di tutto il mondo
una tale eco (che tra l'altro dura ancora oggi).
Se si ripercorrono gli eventi di quei giorni,
tuttavia, se ne possono intuire in qualche modo
i motivi. Lo stesso giorno in cui veniva
pubblicato il pezzo della "Stratfor" (17
ottobre), il "Washington Post" pubblicava un
lungo articolo di Peter Finn sulla perdita di
consensi da parte di Thaci in Kosovo, sostenendo
un ritorno "alla grande" di Rugova. L'articolo
si basa in massima parte su fonti anonime e su
dichiarazioni di esponenti del partito di Rugova
e contiene affermazioni che francamente e'
difficile non definire grottesche ("Un'indagine
di opinione scientifica commissionata da
un'organizzazione occidentale e non pubblicata
ha trovato un sostegno di 4-1 per Rugova
rispetto a Thaci. Una recente indagine non
scientifica condotta su 2.500 elettori da
un'organizzazione informativa indipendente [a
giudicare dai dati, si dovrebbe trattare
dell'"indagine" condotta dal KIC, controllato
dal partito di Rugova, appena prima
dell'operazione di fuga di Rugova in Italia -
a.f.] in una competizione a due tra Thaci e
Rugova il secondo vincerebbe con il 92% dei
voti" [sic!]. E' il solito modello: dati
anonimi, privi di riscontro e quindi non
smentibili da nessuno. Attraverso il "Washington
Post" passano tuttavia spesso le posizioni o gli
esorcismi dei vertici USA. In questo caso e'
chiaro che il timore non e' certo un
difficilmente ipotizzabile massiccio ritorno di
popolarita' per Rugova (come invece sostiene
Joseph Halevi nel "Manifesto" del 18 novembre
scorso), che provocherebbe gli entusiasmi di
tutti gli occidentali, vista la sua provata
affidabilita', quanto piuttosto il fatto che
ANCHE Thaci e i suoi stiano perdendo
credibilita', una cosa piu' che probabile viste
le sciagurate politiche che stanno conducendo.
L'articolo e' cioe' un sintomo dei timori delle
cancellerie occidentali per la perdita di
controllo sugli sviluppi in Kosovo, timori
strettamente legati ai futuri destini del Kosovo
e alle richieste univoche di indipendenza degli
albanesi del Kosovo, "radicali" o "moderati" che
siano.
A meta' ottobre si sapeva gia' che era imminente
la comunicazione da parte del Tribunale dell'Aja
di dati riguardanti le vittime ritrovate, visto
che gia' dall'estate era stato affermato che con
la fine di ottobre sarebbe finita la prima fase
delle ricerche, prima della loro prevista
interruzione invernale. Quando e' uscito il
pezzo della "Stratfor", ci si trovava inoltre
alla vigilia di molti appuntamenti cruciali per
il futuro assetto dei Balcani, appuntamenti che
erano tutti gia' in programma almeno fin da
settembre e che rientrano anch'essi nel quadro
generale dei timori per i futuri assetti
balcanici, che dovranno necessariamente avere al
loro centro Kosovo e Serbia. Per i giorni
successivi al via della campagna (piu'
esattamente, per il 25 ottobre) era previsto
l'avvio dei cruciali incontri tra partiti
montenegrini e partiti serbi, i cui esiti sono
di importanza cruciale per tali assetti. Gli
incontri si sono svolti in un'atmosfera molto
"diplomatica", senza scontri o scambi di accuse,
terminando con l'impegno a proseguire il
dialogo. Negli stessi giorni, il vice-primo
ministro serbo Nikolic dichiarava che Belgrado
non si opporra' a un eventuale secessione del
Montenegro, con un linguaggio moderato ben
diverso dai toni roventi dei mesi precedenti.
Alcuni giorni dopo il termine dei colloqui serbo-
montenegrini, il capo dell'esercito jugoslavo,
Ojdanic (fedele di Milosevic e tra l'altro
ricercato dal Tribunale dell'Aja, di fronte al
quale il Montenegro si era impegnato a
consegnare ogni accusato di crimini di guerra),
si e' recato in visita in Montenegro e ha avuto
un colloquio "su aspetti politici e della
sicurezza" con il primo ministro Vujanovic, uomo
di Djukanovic. Alcuni giorni prima avevano
cominciato a circolare voci sulle imminenti
dimissioni da primo ministro federale del
montenegrino Bulatovic, uomo di Milosevic e
acerrimo nemico di Djukanovic, e sull'offerta
del suo posto a Djukanovic. Bulatovic ha
dichiarato di essere disponibile a mettere a
disposizione la sua carica "se gli interessi del
paese lo richiedono" (si vedano in merito i
numerosi articoli comparsi su "Monitor", "Vreme"
e "Danas" tra fine ottobre e inizio novembre).
Immediatamente dopo gli incontri tra partiti
serbi e montenegrini, vi e' stata l'introduzione
ufficiale del marco tedesco come valuta
parallela in Montenegro. La mossa e' stata
preceduta da svariati incontri bilaterali, in
cui USA, Gran Bretagna e Germania hanno
categoricamente ammonito Djukanovic che la
"comunita' internazionale" non e' favorevole a
un'indipendenza del Kosovo, ma allo stesso tempo
hanno mostrato un aperto entusiasmo per
l'adozione ufficiale del marco tedesco come
valuta parallela, condannata invece dal governo
federale. Dalle modalita' e dal contesto
dell'introduzione del marco come valuta
parallela in Montenegro si puo' intuire (ma e'
solo una nostra ipotesi), che tale mossa venga
considerata dagli occidentali come un test per
le future politiche economiche previste dal
Patto di Stabilita' per i Balcani (consigli
valutari e "euroizzazione" delle monete locali),
condotto a partire dal cuore del problema, la
Federazione Jugoslava. Non a caso, la mossa del
governo di Podgorica e' stata accolta con
particolare fervore dall'opposizione serba e, in
particolare, Draskovic ha chiesto l'adozione
ufficiale del marco come valuta parallela anche
in Serbia (di fatto, il marco e' gia' da anni in
Serbia una valuta parallela, ma non ufficiale).
I vertici del potere montenegrino, tuttavia, non
sono uniti nelle loro politiche - tra i piu'
moderati l'introduzione del marco non viene
vista come un passo verso l'indipendenza, mentre
i piu' radicali la considerano apertamente un
passo in tale direzione.
In un altro paese vicino al Kosovo, la
Macedonia, si sono svolte elezioni presidenziali
che hanno una grande importanza per la regione e
per i futuri del Kosovo in particolare e sono
state attese con ansia dalle grandi potenze.
Dopo una "preoccupante" vittoria al primo turno
di Tito Petkovski, che aveva basato la sua
campagna sui sentimenti patriottici macedoni e
antialbanesi, al secondo turno ha vinto il
candidato del fidato premier Georgievski, ma,
soprattutto, il partito albanese guidato da
Arben Xhaferri (DPA), che fa parte della
coalizione di governo, ha dimostrato grande
disciplina nel mobilitare gli elettori di
nazionalita' albanese a dare il loro voto al
candidato di un partito macedone fino a ieri
radicalmente antialbanese (e, come sembra ormai
certo, nell'arrotondare in maniera decisiva il
voto a suo favore organizzando ampi brogli). La
situazione in Macedonia rimane instabilissima,
ma la totale obbedienza e disciplina di cui ha
dato prova il maggiore partito della minoranza
albanese ha dato un sospiro di sollievo agli
strateghi della NATO. Per Xhaferri, si tratta di
un'ulteriore conferma della propria
"affidabilita'", dopo che durante i
bombardamenti aveva evitato di criticare nel
governo le politiche inumane verso i profughi
dal Kosovo e, soprattutto, aveva operato di
concerto con il governo macedone e la NATO per
soffocare ogni tentativo di creare cellule
dell'UCK nei campi profughi in Macedonia (si
vedano le dichiarazioni rilasciate a riguardo
dal ministro degli interni macedone Trajanov, in
AIM Skopje, 4 novembre 1999).
Accanto a questi sviluppi, ve ne sono stati
altri successivi di minore rilievo, ma che
completano in maniera eloquente un quadro di
generale rimescolamento delle carte che trova le
sue radici proprio tra settembre e ottobre. Per
esempio, del tutto a sorpresa, la settimana
scorsa sono stati aperti in Serbia processi
contro alcuni riservisti per crimini commessi in
Kosovo (sei accusati in tutto, uno in un
processo isolato e altri cinque in un processo
collettivo in cui comunque il principale capo di
accusa e' quello di avere lavorato come spie
della NATO). Sono stati liberati senza preavviso
anche alcuni prigionieri politici albanesi
deportati nelle prigioni serbe. Si tratta di due
fatti davvero piccoli, ma che vanno nella
direzione di un "rifarsi il trucco". C'e' stato
poi il vertice OSCE dei giorni scorsi, per il
quale era previsto da settimane un tentativo
della Albright di portare all'"unificazione
politica" dei principali leader jugoslavi che si
oppongono a Milosevic, cioe' Djukanovic,
Draskovic, Djindjic e Avramovic, tentativo poi
riuscito solo in parte. Prima del vertice, a
fine ottobre, si erano fatte sempre piu'
insistenti, all'interno dell'UE, le pressioni
per una parziale cancellazione delle sanzioni
contro la Serbia, per ora rimandata. Ma e'
rilevante che tali pressioni abbiano trovato per
la prima volta un'apertura da parte del "falco"
USA Albright che, ricevendo i leader
dell'opposizione serba il 3 novembre, ha
dissociato la cancellazione delle sanzioni dalla
rimozione di Milosevic, legandola a una piu'
vaga "tenuta in Serbia di elezioni libere e
democratiche" (esponendosi al sarcasmo dei
giornalisti quando, alla domanda scontata su
cosa avrebbe fatto se Milosevic avesse vinto le
elezioni, ha risposto: "se mia nonna avesse le
ruote sarebbe una bicicletta" - Associated
Press, 3 novembre 1999). Tutto questo in un
momento in cui politici ed economisti continuano
a osservare che non e' possibile alcuna
stabilita' dei Balcani tenendo fuori la Serbia.
Altri due fatti poco chiari si sono verificati
sempre tra ottobre e novembre: il misterioso
incidente subito il 3 ottobre dall'autovettura
di Draskovic, nel quale sono rimasti uccisi
quattro suoi collaboratori, mentre il leader del
SPO e' rimasto miracolosamente illeso, e
l'attentato dalle dinamiche poco chiare compiuto
il 31 ottobre contro il leader del Movimento di
Resistenza Serba del Kosovo, Momcilo Trajkovic
(si veda AIM Pristina, 11 novembre 1999).
Riguardo a quest'ultimo attentato, va segnalato
che i giornali del regime di Belgrado
("Politika" e "Borba") hanno esplicitamente
attaccato il loro ex alleato Trajkovic,
accusandolo di essersi inflitto la ferita da
solo - un'accusa davvero poco credibile, ma che
e' indice delle tensioni esistenti riguardo alla
funzione politica di quello che rimane della
comunita' serba in Kosovo. La storia degli
ultimi anni insegna che spesso i momenti di
"svolta interna" negli assetti dellapolitica
serba sono stati contrassegnati da aggressioni e
atti di violenza. Ai casi poco chiari di
Draskovic e Trajkovic va aggiunto l'attentato
compiuto il 22 ottobre contro il giornalista
serbo-bosniaco Zeljko Kopanja, vicino a Milorad
Dodik, scampato per miracolo a una bomba (ha
avuto le gambe amputate) dopo essersi "esposto"
di recente con la pubblicazione di una serie di
materiali sui legami tra Belgrado e i criminali
serbi responsabili di stragi in Bosnia. Anche in
campo albanese vi sono stati episodi poco
chiari, come l'uccisione di uno stretto
collaboratore di Rugova e lo strano incidente
all'ex comandante dell'UCK Remi, che ai tempi si
era opposto alla firma di Rambouillet ed era
rimasto su posizioni contrarie a Thaci, in
particolare per quanto riguarda la
smilitarizzazione dell'UCK (AFP, 26 novembre
1999).
L'ultimo evento da segnalare e' quello
dell'incidente all'aereo Atr-42 in volo da Roma
a Pristina, avvenuto il 12 novembre. Non vi e'
alcun elemento concreto che consenta di mettere
in dubbio la versione dell'incidente. Le
lentezze nel comunicarne l'avvenimento, o le
spiegazioni contraddittorie, possono essere
semplicemente il frutto del caos totale della
doppia amministrazione NATO/ONU o degli eccessi
di prudenza di fronte a un caso cosi' delicato
in una situazione di protettorato e di immediato
dopoguerra. Quello che invece e' sorprendente e'
che il 17 novembre, a ben cinque giorni di
distanza dall'incidente, l'inviato jugoslavo
all'ONU, Jovanovic, si sia sentito in dovere di
esprimere, senza esserne sollecitato, le proprie
condoglianze per l'incidente, aggiungendo la
sibillina frase: "putroppo ["regrettably"], i
voli diretti in Kosovo vengono operati in
violazione della sovranita' e dell'integrita'
della Repubblica Federale di Jugoslavia",
aggiungendo che "i voli verso il Kosovo violano
'le norme e le norme e i regolamenti di
traffico, la cui implementazione' e' di
responsabilita' della Jugoslavia" e "chiedendo
che i suoi diritti sovrani vengano rispettati
nel suo intero spazio aereo" (Reuters, 17
novembre 1999). Tre giorni dopo l'aeroporto di
Pristina e' stato chiuso ai voli civili per
motivi tecnici (ai quali viene attribuita per
ora l'origine del disastro), con conseguenze
disastrose per la consegna degli aiuti in questo
cruciale inizio d'inverno. Il governo jugoslavo
non ha esitato a utilizzare la tragedia dell'Atr-
42 per mandare uno dei tipici avvertimenti
trasversali che emergono nei momenti di
riassetto della scena balcanica, pure al prezzo
di esporsi a pesanti sospetti.
Per completare il quadro generale, vanno
segnalate le dichiarazioni fatte di recente da
Clinton a Firenze in occasione del suo incontro
con D'Alema. Il presidente USA, secondo quanto
riferisce "La Stampa" del 21 novembre, ha
concordato con D'Alema che e' necessario
"affrontare la sfida della stabilita' nei
Balcani mettendo alle strette Milosevic, ma
evitando l'indipendenza del Kosovo",
sottolineando la necessita' di "rafforzare il
Patto di Stabilita' ed i progetti di
ricostruzione". Clinton ha poi affermato: "sono
a favore di un'immediata revisione delle
sanzioni se ci saranno libere elezioni in
Serbia. [...] Non bisogna lasciare alcuna carta
in mano a Milosevic", dicendosi poi
"profondamente preoccupato" per il rischio della
proliferazione di Stati indipendenti nei
Balcani, "a cominciare dal Kosovo". Anche a
Sofia, in Bulgaria, il presidente USA ha
precisato il 22 novembre che "il Kosovo non puo'
configurarsi come stato indipendente" ("Corriere
della Sera", 24 novembre 1999).
Non esistono elementi per stabilire nessi
diretti tra la pubblicazione dei pezzi di "El
Pais" e "Stratfor" e tutti questi fatti che
trovano origine nelle spinte interne ai Balcani
e negli obiettivi che si pongono in merito le
grandi potenze. L'enorme fortuna che hanno avuto
i due pezzi (e forse la loro stessa origine) e'
tuttavia attribuibile a questo clima generale di
incertezza, di timori e di conseguenti lotte
interne alle leadership occidentali, un clima
confermato anche dalle numerose
reinterpretazioni divergenti delle strategie
militari applicate durante la guerra e dai
saltuari scambi di accuse in merito. Cosi' come
nel maggio scorso avevamo notato che, al di la'
delle dichiarazioni di facciata,
l'incriminazione di Milosevic alla vigilia degli
accordi era probabilmente frutto delle pressioni
di solo alcune lobby occidentali ed era
risultata sgradita ad altre importanti lobby
(con ogni probabilita', alla Casa Bianca, per
fare solo un esempio - si vedano "Washington
Post", 28 maggio 1999 e "New York Times", 28
maggio 1999, nonche' "Notizie Est" #235, 28
maggio 1999), in questo momento sembrano essere
passate all'attacco altre lobby che si
preoccupano soprattutto di restituire un ruolo
alla Serbia nei Balcani e di evitare mosse come
l'indipendenza del Kosovo che potrebbero avere
ripercussioni disastrose sulla "stabilita'"
(quella che interessa alla NATO) nell'intera
penisola. Le opzioni cui mirano queste lobby
sono, a quanto si puo' intuire, di diverso segno
e coprono una gamma di soluzione che va da una
parziale reintegrazione del Kosovo nella Serbia
(che evidentemente qualcuno ha in testa, ma che
dal punto di vista pratico sembra difficilmente
realizzabile e probabilmente e' poco gradita
perfino a governo e opposizione a Belgrado),
alla creazione di una Repubblica del Kosovo
interna a una Federazione Jugoslava piu'
elastica (progetto propugnato, seppure non
esplicitamente, da Carl Bildt, inviato speciale
dell'ONU per il Kosovo - "Blic", 23 ottobre
1999). Una soluzione che eviti possibilmente
l'indipendenza del Kosovo e' comunque urgente,
per i paesi NATO. Infatti, la situazione
generale dei Balcani ha subito una forte
accelerazione verso la "destabilizzazione",
prodottasi tra ottobre e i primi di novembre, ma
chiaramente nell'aria gia' a fine settembre: al
quadro perennemente irrisolto in Bosnia si sono
aggiunti l'accentuarsi, con la malattia di
Tudjman, dell'incertezza sui futuri sviluppi in
Croazia, gia' in piena crisi economica e
politica; la ripresa delle rivolte operaie in
una Romania sempre piu' in un vicolo cieco
economico; la caduta del fidato Majko in Albania
e le faide interne al Partito Socialista di Nano
e al Partito Democratico di Berisha, con la
sconfitta dei rispettivi "moderati"; le gia'
menzionate elezioni macedoni, che hanno
dimostrato l'assenza di una base sufficiente di
consenso popolare per l'attuale governo
Georgievski, salvato poi all'ultimo dal partito
di Xhaferri; la parallela fragilita' del governo
in Bulgaria, evidenziatasi alle ultime
amministrative, e l'emergere del fatto che anche
in questo finora tranquillo paese covano
tensioni nazionali.
Una campagna mirata a negare, o a
"ridimensionare", i crimini compiuti in Kosovo,
costituisce un'arma politica rilevante nei
conflitti all'interno della NATO per quelle
lobby che intendono ottenere, tra le e'lite,
maggiori consensi a qualche nuova forma di
distensione con la Serbia o a nuove
"architetture" balcaniche delle quali la Serbia
deve necessariamente essere il centro
geografico. Al limite estremo, negando il
"genocidio", mirano al ritiro
dell'incriminazione degli indagati dal Tribunale
dell'Aja, che costituisce un ostacolo non
indifferente. Tale ritiro non interessa tanto
per quanto riguarda Milosevic (o al massimo
interessa solo nella misura in cui permetterebbe
a quest'ultimo di andare in un dorato esilio),
con il quale ormai i ponti sembrano
definitivamente rotti e per la riabilitazione
del quale ci vorrebbe un voltafaccia colossale,
quanto piuttosto per "sdoganare" tutto il folto
sottobosco di personaggi medio-alti che
potrebbero minare le basi del regime passando
all'opposizione (quelli che lo hanno gia' fatto
prima della guerra sono una schiera, ma i veri
detentori del potere politico ed economico sono
ancora con Milosevic). Ma un ritiro delle
incriminazioni non ci sempra probabile visto
che, come abbiamo esposto, ne mancano le basi.
La campagna, piu' verosimilmente, e' sostenuta
da quei soggetti che vogliono in generale creare
il clima piu' adatto per le nuove architetture
di cui sopra, approfittando tra le altre cose
dei prossimi cinque mesi in cui gli operatori
del Tribunale Internazionale non lavoreranno
alla ricerca delle fosse comuni e quindi non ci
sara' l'impaccio di macabre scoperte a turbare
il loro agire. Vista la contraddittorieta' dei
loro obiettivi e le difficolta' del dovere fare
i conti con una realta' estremamente complessa,
i loro piani non dovranno necessariamente avere
un pieno successo.
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