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Riva vuole Usinor e Jospin pensa a Edf
Fonte: "La Repubblica" - inserto affari e finanza - 18 giugno 2001
Riva vuole Usinor e Jospin pensa a Edf
La famiglia smentisce ma gli analisti concordano : gestito dagli italiani
il gigante transalpino si rimetterebbe rapidamente in sesto. Lo stop di
Parigi in cerca di una soluzione sul caso Montedison. La Riva Acciai
fattura 9 mila miliardi con utili superiori ai 500
GIORGIO LONARDI
"Si, per un certo periodo ci abbiamo pensato. Ma poi abbiamo deciso di
accantonare l’affare Usinor". Claudio Riva, consigliere delegato dell’Ilva,
figlio di Emilio Riva il re dell’acciaio made in Italy, è un signore sobrio
che ci riceve negli uffici milanesi di un gruppo nato a Milano per poi
diventare il numero uno della siderurgia italiana. Nel 2000 la Riva
Acciaio, la holding di famiglia, ha fatturato oltre 9 mila miliardi
guadagnando discretamente, certamente di più dei 500 miliardi (263 milioni
di euro) di utili messi in cascina nel 1999. Se aggiungiamo che la società
dà lavoro a circa 23 mila persone e che controlla gli unici altoforni
italiani (Taranto e Cornigliano) possiamo cominciare a prendere le misure
di una fra le maggiori aziende italiane.
Insomma, Riva è un colosso e a tutti gli esperti del settore è apparso
normale che l’azienda volesse crescere ancora. Ad esempio comprando il
gigante francese Usinor che per dimensioni è almeno il doppio della società
italiana. Ma anche una società gestita meno bene delle aziende della
famiglia milanese. "Ci abbiamo pensato", conferma Claudio Riva, "ma poi ci
abbiamo messo una pietra sopra. Oggi il settore siderurgico sta vivendo un
periodo molto difficile. Bush, ad esempio, sta chiudendo le porte ai
prodotti stranieri. E questo vuol dire che da una parte non sarà più
possibile vendere negli Stati Uniti e dall’altra che milioni di tonnellate
di prodotti asiatici cercheranno di arrivare in Europa".
La morale del discorso di Claudio Riva è molto semplice. In un periodo di
vacche magre non ci si espone troppo. E quindi dopo aver aperto rapidamente
il dossier Usinor altrettanto velocemente lo si chiude. Eppure, attorno a
questa storia circola un’altra versione che Riva, occorre precisare, ci ha
smentito fermamente. Secondo alcune fonti finanziarie, dunque, il discorso
con i francesi non sarebbe interrotto bensì congelato. Cerchiamo di capirne
il motivo.
Oggi in Borsa il gruppo Usinor è a buon prezzo: circa 6 mila miliardi e le
quotazioni continuano a calare. Su una cosa poi tutti gli osservatori sono
d’accordo: affidate Usinor alla macchina da guerra manageriale messa in
piedi dalla famiglia Riva e sicuramente i conti del gruppo transalpino
miglioreranno. Insomma, anche se oggi il momento è difficile mettere le
mani su Usinor non sarebbe un errore. E allora?
I motivi di questo "congelamento" sarebbero due. Il primo va ricercato
nella ritrosia del vertice Usinor a dare il suo assenso all’operazione. E
in un paese nazionalista come la Francia questa obiezione, forse dettata da
motivi di potere e forse superabile, non va però sottovalutata. L’altro
motivo, invece, sarebbe ben più pesante. E cioè la contrarietà manifestata
dal governo di Parigi all’ingresso degli italiani nella plancia di comando
di una fra le maggiore aziende del Paese.
Jospin, si sa, è un osso duro. Tanto più in queste settimane con la vicenda
EdfMontedison ancora in ballo. E con il governo italiano che ha
"sterilizzato" il 20 per cento di Montedison pazientemente rastrellato in
Borsa dai banchieri di Edf. Insomma, questa storia ai francesi non va giù.
E allora che si fa? Ma è semplice: si butta la faccenda in politica e si
cerca di aprire un negoziato con Roma mettendo su un piatto della bilancia
Montedison e sull’altro Usinor. In seguito si vedrà. Magari prima o poi le
cose si sbloccheranno e i Riva, che già controllano quattro stabilimenti in
Francia, potranno mettersi nel portafoglio anche le fabbriche di Usinor.
In attesa che i cieli di Parigi diventino un po’ più sereni il problema che
angustia di più Emilio Riva e i suoi figli si trova a Genova. La bestia
nera del patron dell’Ilva è il presidente della regione Liguria Sandro
Biasotti, politico del centrodestra lievemente anomalo (in realtà non gli
piace nemmeno la presidente della Provincia di Genova Vincenzi eletta dal
centrosinistra). Non si era mai sentito infatti un politico di centrodestra
che odiasse l’acciaio, detestasse gli operai e se potesse farebbe
scomparire dalla faccia della terra il centro siderurgico di Cornigliano
con i suoi 2.400 dipendenti, il suo altoforno e tutto il resto. Il motivo:
lo stabilimento inquina provocando fumi e, secondo alcune associazioni
ambientaliste, aumentando l’incidenza di gravi malattie come i tumori.
Insomma, le perplessità di Biasotti sarebbero dettate da motivi seri.
Tuttavia la situazione di Cornigliano è abbastanza particolare. Intanto si
tratta di uno stabilimento importante che genera il 1314 per cento del
fatturato del gruppo. Chiuderlo, dunque, sarebbe un grave danno per le
finanze della Riva oltre che un dramma per migliaia di famiglie. La cosa
curiosa, però, è che ufficialmente nessuno degli enti locali vorrebbe
smantellare lo stabilimento. Però tutti gli enti locali si preoccupano con
mille pretesti di rendere impossibili gli investimenti ecologici frutto di
un accordo fra lo stesso Riva il Comune, la Provincia e la Regione.
Un’intesa che fra l’altro prevede 750 miliardi di investimenti privati per
lo smantellamento dell’altoforno e la sua sostituzione con un forno
elettrico pulito che non emette né fumi né odori.
Il risultato di questa singolare situazione ha provocato a Genova le "prove
generali" di guerriglia urbana della scorsa settimana fra operai e polizia.
È bastata infatti la notizia che stava per essere sequestrato l’altoforno
per scatenare un putiferio. In tutta questa vicenda, dunque, gli operai e
il sindacato sono i soli alleati di Riva. L’altro alleato che farà pendere
il piatto della bilancia a favore dell’imprenditore è il vertice del G8 che
si svolgerà fra un mesetto a Genova. Alla luce di quanto è accaduto pochi
giorni fa tutti sono convinti che duemila siderurgici esasperati siano
molto peggio di 20 mila militanti del popolo di Seattle. Ce n’è abbastanza,
dunque, perché Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Interno, il ligure
Claudio Scajola, si diano a un gran dafare per salvare Cornigliano.