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La Valutazione di Impatto Ambientale, strumento di democrazia
- Subject: La Valutazione di Impatto Ambientale, strumento di democrazia
- From: Giuseppe Palermo <peppe_palermo at aliceposta.it> (by way of Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.it>)
- Date: Sun, 23 Apr 2006 23:45:33 +0200
Scrivo da Siracusa, e sono stato costretto ad occuparmi un po' di queste cose. Realizziamo un giornaletto e questo è il testo di un articoletto sulla VIA, che uscirà sul prossimo numero.
La
Valutazione d’Impatto Ambientale strumento della democrazia
Problemi aperti alla luce dell’esperienza siciliana
Chi ha paura della V.I.A.?Problemi aperti alla luce dell’esperienza siciliana
Sono ormai vent’anni che la direttiva comunitaria n° 337/85 ha introdotto in Italia la Valutazione d’Impatto Ambientale (V.I.A.), eppure la conoscenza e l’applicazione di questa procedura sono ben lontane dall’essere sufficienti. Al contrario, essa è spesso apertamente avversata, e si susseguono i tentativi per eluderla o svuotarla di contenuto.
La V.I.A. non è amata e lo si può capire dalle imprese prese singolarmente, perché costituisce un adempimento in più, allunga i tempi per l’ottenimento delle autorizzazioni (che talora possono anche essere negate), e, in ogni caso, pone obblighi e limiti da osservare nella fase esecutiva. Ma queste sono considerazioni di corto respiro. L’allungamento delle procedure nella fase iniziale, infatti, è compensato dai vantaggi che si hanno nel lungo periodo, non solo in termini di sicurezza e di affidabilità per il pubblico e di certezza per la qualità finale dell’opera, ma in ultima analisi grazie all’abbattimento alla radice di molte possibili ragioni di contenzioso anche di economia e di tempi di realizzazione complessivi. A conti fatti lo stesso mondo imprenditoriale, preso nella sua interezza, non può che avvantaggiarsene. Si capisce benissimo, invece, che essa sia avversata con ogni mezzo da quella parte della classe politica che trae forza e potere dal proprio ruolo di mediazione, nonché da quel sottobosco oscuro di progettisti, di capitalismo assistito, di affaristi e di faccendieri ad essa collegato, i quali dalla trasparenza e dalle verifiche hanno tutto da temere. Non è un caso, del resto, che la V.I.A., giunta a noi attraverso la normativa comunitaria, abbia in realtà le sue origini nel mondo anglosassone, e più precisamente in quello nord-americano, e tragga ispirazione da valori di democrazia e di partecipazione legati storicamente a quelle realtà. E, per le stesse ragioni, non sorprende che governi come l’attuale, sorretto e condizionato dalle lobbies e segnato dai conflitti d’interessi, non facciano che osteggiare in tutti i modi questa procedura: dalle scorciatoie incostituzionali della “legge obiettivo” (a rischio di censura anche da parte dei giudici comunitari) ai tentativi di stravolgere e addomesticare la commissione V.I.A. nazionale. Né sorprende e di ciò ci occuperemo adesso che ciò avvenga anche a livello locale.
Dispiace e stupisce, al contrario, che non solo il vasto pubblico, ma anche gli amministratori e i politici non compromessi, i responsabili degli organi di tutela, senza dire dei rappresentanti del variegato e vociferante mondo ambientalista, ne ignorino assai spesso il funzionamento e ne sottovalutino le potenzialità.
Sulla V.I.A. si sono scritte intere biblioteche, destinate ora agli specialisti, ora agli “addetti ai lavori”. Con questo contributo ci proponiamo soltanto di fornire alcune semplici indicazioni ad uso del comune cittadino, illustrate con esempi tratti dalla nostra realtà, partendo dal presupposto che senza la partecipazione di tutti, reale o potenziale, questa legge è svuotata di contenuto.
Come funziona la V.I.A.
La direttiva 85/337 CE, integrata e corretta dalla successiva 97/11, impone agli stati membri (art. 2) di adottare “le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio dell’autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale, in particolare per la loro natura, dimensioni o la loro ubicazione, sia prevista un’autorizzazione e una valutazione del loro impatto”. La procedura dovrà individuare, descrivere e valutare (art. 3) gli “effetti diretti e indiretti di un progetto sui seguenti fattori: l’uomo, la fauna e la flora; il suolo, l’acqua, l’aria, il clima e il paesaggio; i beni materiali ed il patrimonio culturale”, nonché le interazioni fra i predetti fattori. Il responsabile del progetto da sottoporre a V.I.A. è tenuto pertanto a presentare (art. 5), oltre ad una descrizione del progetto “con informazioni sulla sua ubicazione, concezione e dimensioni”, i dati necessari “per individuare e valutare i principali effetti che il progetto può avere sull’ambiente”, secondo criteri a loro volta definiti in un allegato alla direttiva (IV), assieme ad un’indicazione “delle misure previste per evitare, ridurre e possibilmente compensare rilevanti effetti negativi”, nonché una descrizione “delle principali alternative prese in esame dal committente, con indicazioni delle principali ragioni della scelta”: si tratta di quello che più comunemente è noto come “Studio d’Impatto Ambientale” (S.I.A.). Fondamentale importanza ha, nella direttiva, la specificazione (art. 4) di una categoria di progetti che devono essere obbligatoriamente sottoposti alla procedura, e che sono elencati nell’allegato I al testo di legge (p. es. raffinerie, centrali termiche, aeroporti, porti e vie di comunicazione aventi determinate caratteristiche, estrazioni d’idrocarburi, dighe, cave di determinate dimensioni, ecc.), accanto ad un'altra di progetti di minore portata, elencati nell’allegato II (quali, ad esempio, porti e villaggi turistici, impianti di allevamento e di agricoltura intensiva, recupero di terra dal mare, cave non incluse nell’all. I, ricerca d’idrocarburi, ecc.). Questi ultimi progetti dovranno essere sottoposti alla procedura a seguito di una scelta caso per caso da parte degli stati membri, ovvero ed è questa la soluzione adottata in Italia secondo “soglie o criteri fissati dagli stati membri”, sulla base di modalità definite in un successivo allegato (III) alla direttiva: in esso p. es. si prescrive di considerare la “capacità di carico dell’ambiente naturale”, con particolare attenzione per le zone umide, le zone costiere, le zone montuose e forestali, le riserve e le aree protette sia nazionali che comunitarie (Sic e Zps, queste ultime poi divenute oggetto di specifica disciplina), nonché l’insistere dei progetti sulle “zone di importanza storica, culturale o archeologica”, ecc. Si tratta della procedura, preliminare all’eventuale V.I.A. vera e propria, più comunemente nota come screening, o “verifica” di V.I.A. Tale procedura è disciplinata, in Italia, dall’art. 10 del DPR 12 apr. 1996, il quale recepisce la direttiva comunitaria (e si veda, per la nostra regione, anche il D. P. 14 nov. 2000, che contiene alcune ulteriori specificazioni e indicazioni).
Particolare rilievo ha infine, nella direttiva, la prescrizione (art. 6) che le informazioni fornite dal responsabile del progetto siano poste a disposizione, oltre che di tutte le autorità competenti, anche del pubblico, in modo da dare agli interessati “la possibilità di esprimere il loro parere prima del rilascio dell’autorizzazione”. Anche alle decisioni di rilascio o di diniego delle autorizzazioni va data pubblicità, e vanno specificate le loro motivazioni e indicate le eventuali misure di mitigazione prescritte (art. 9).
In che modo viene elusa la V.I.A.: la frammentazione dei progetti.
Anche se, come gran parte delle direttive comunitarie, questa sulla V.I.A., dovendo lasciare spazio agli stati membri nella scelta delle procedure di attuazione, è caratterizzata da una certa elasticità su questioni anche rilevanti (p. es. la composizione delle commissioni e la struttura degli uffici preposti a svolgere la valutazione), essa impone una serie di obblighi imprescindibili e fissa con chiarezza le linee guida per le norme applicative nazionali. Svariati sono, nondimeno, gli espedienti escogitati per eluderla. Vediamone alcuni.
La V.I.A., come s’è detto, è obbligatoria per una categoria di progetti (allegato I), ma è “eventuale” per una seconda (allegato II): per questi deve essere avviata solo se sussistono determinate condizioni (allegato III), che l’ufficio preposto è chiamato a verificare. Siccome però fra i parametri fissati per l’inclusione in una delle due categorie, ovvero per l’applicabilità delle condizioni, determinante è quello delle dimensioni, ecco che frequente è il ricorso all’espediente di spezzare i progetti in più tranches, di cui solo la prima viene presentata per la verifica, naturalmente avendo cura che in questo modo il progetto rientri nella categoria inferiore, pur apparendo per quanto possibile autosufficiente. Le altre tranches, sempre “sotto soglia”, saranno eventualmente portate a verifica in un secondo tempo, o, più spesso, non lo saranno affatto, dal momento che quelle opere ulteriori, prese isolatamente, il più delle volte non prevedono nemmeno la verifica.
Quale esempio di questo comportamento possiamo citare il caso, ben noto ai nostri lettori, del villaggio di Asparano. I “villaggi di vacanza” rientrano nell’allegato II della direttiva (comma 11a) e la legge di attuazione nazionale (D.P.R. 12 apr. 1996, comma 8a) ne ha minutamente definito le caratteristiche: “campeggi e villaggi turistici di superficie superiore a 5 ha, centri turistici residenziali ed esercizi alberghieri con oltre 300 posti letto o volume edificato superiore a 25.000 mc., o che occupano una superficie superiori ai 20 ha…” . Il complesso in questione si estende lungo una superficie di ben 66 ettari (di cui 17 destinati a costruzioni) e di posti letto ne prevede 1550. Esso cioè, qualora sussistano le condizioni di cui all’allegato III, dovrebbe essere sottoposto a V.I.A., e fra queste condizioni ricordiamo c’è l’insistere su aree protette, costiere o boscate. Ebbene, almeno due di queste circostanze si verificano nel caso in oggetto, interessato com’è noto da uno degli ultimi, e ormai rari, resti di macchia costiera della Sicilia orientale. Tuttavia la legge è stata ugualmente aggirata, presentando a verifica uno stralcio degli elaborati che comprendeva solo l’area immediatamente interessata dalle costruzioni (C12) e non quelle antistanti (F2c e Verde Naturalistico). Ricordiamo che, significativamente, la nuova direttiva 97/11 CE sulla V.I.A., al comma 12c del II allegato, accanto all’espressione “villaggi di vacanza” ha aggiunto la specificazione “e strutture connesse” innovando rispetto al testo del 1985 e ponendo così l’accento, onde evitare ogni possibile fraintendimento, sugli effetti diretti e indiretti non solo dei singoli manufatti presi isolatamente, ma anche di tutte le opere in qualche modo necessarie per la loro operatività (vie di accesso, impianti per la balneazione, piscine, ecc.). Nel caso in questione, per altro, ad esprimersi in modo inequivoco sull’effettiva portata del progetto era stata la stessa impresa, che pochi mesi prima aveva presentato istanza al Comune per una variante al Prg (come sappiamo poi approvata) proprio sul presupposto che senza le opere a mare l’impianto sarebbe stato “privo di valenza economica”!
Del rischio di vanificare, con simili sotterfugi, lo spirito e la lettera della legge si è ben resa conto la giurisprudenza: “La valutazione di impatto ambientale ha ammonito il Consiglio di Stato necessita di una valutazione unitaria dell’opera, ostante alla possibilità che, con un meccanismo di stampo elusivo, l’opera venga artificiosamente frazionata in frazioni eseguite in assenza della valutazione perché, isolatamente prese, non configurano interventi sottoposti al regime protettivo” (sez. VI, 30 ago. 2002, n° 4368). Centrale in tutto ciò, quindi, il ruolo dell’ufficio preposto alla verifica, ed è palese, nel caso appena ricordato, la responsabilità del Servizio V.I.A. regionale, che per altro della reale portata di quel progetto era stato esplicitamente informato. Ma gli esempi si sprecano: non volendo allontanarci da Siracusa, possiamo ricordare anche il caso dei lavori da poco appaltati, su cui torneremo, per il Porto Grande.
V.I.A. e Soprintendenze: un incontro mancato
Abbiamo visto come, all’art. 3, la direttiva imponga di valutare gli effetti diretti e indiretti dei singoli progetti anche sul “patrimonio culturale” e, più in particolare, come, nell’allegato III, si elenchi fra i requisiti richiesti perché un progetto sottoposto a verifica debba sottostare alla procedura, il suo insistere su “zone di importanza storica, culturale o archeologica” . Non si può dire però e cercheremo di capire perché che, nella realtà, il raccordo con gli enti preposti alla tutela di quel “patrimonio culturale” consenta alla legge di conseguire il suo obiettivo.
Quasi sempre i progetti interessati alla V.I.A. sono soggetti anche al regime delle leggi 1089/39 e 1497/39 e successive modifiche e integrazioni, e devono quindi essere sottoposti all’esame delle soprintendenze per ottenerne l’assenso. Tale esame però, il più delle volte, ha luogo separatamente, del tutto al di fuori della procedura di valutazione. Se il progetto è fra quelli soggetti a V.I.A. obbligatoria (allegato I), ciò si risolve intanto, com’è ovvio, in una forte limitazione per l’istruttoria dell’organo di tutela, dal momento che questa avverrà, in molti casi, senza conoscere pienamente lo Studio d’Impatto Ambientale e, soprattutto, le successive controdeduzioni a questo. In particolare verrà meno la possibilità di considerare e sostenere realisticamente la scelta di un’opzione alternativa o di un’“opzione zero” al progetto. Questa possibilità, specialmente nel caso di opere pubbliche, è ormai generalmente al di là della portata di una singola soprintendenza, la quale anche per le modifiche frattanto intervenute nel sistema della conferenza dei servizi sarà così costretta a subire il progetto o, nella migliore delle ipotesi, ad ottenere qualche sua modifica o ridimensionamento. Ma ancora più gravi sono le conseguenze di questo mancato raccordo nel caso dei progetti per cui la V.I.A. non è obbligatoria (allegato II della direttiva). Quel che accade in questi casi è che, ancor prima di giungere allo screening regionale, il progetto è sottoposto all’esame delle Soprintendenze. Queste possono approvarlo (con prescrizioni o meno) oppure respingerlo, e in entrambi i casi ciò accade, ancora una volta, senza l’ausilio della messe d’informazioni ricavabili dalla procedura di V.I.A., e quindi con un oggettivo impoverimento dell’istruttoria. Quel che è peggio, però, è che l’eventuale parere positivo, reso al di fuori della procedura, viene successivamente prodotto dall’impresa in sede di verifica presso l’ufficio regionale, dove vale come “lasciapassare” per superare lo screening, e quindi sottrarsi alla valutazione vera e propria. Se pensiamo che fra i progetti dell’allegato II ci sono, per esempio, i porti e i villaggi turistici (strutture cioè potenzialmente ad altissimo impatto, e sotto svariati profili), ci rendiamo conto dell’enorme danno che da questo comportamento delle Soprintendenze, pressoché generalizzato, ha origine. Invece che esprimere in prima battuta un sì o un no (spesso, per altro, non facili), esse potrebbero assai semplicemente rispondere alla richieste di nulla osta che questo sarà reso in sede di V.I.A., vincolando così l’ufficio regionale a promuovere la valutazione. Ciò, oltre ad arricchire la propria istruttoria (che per forza di cose tende a restringersi agli aspetti archeologico-monumentali, o paesaggistici nel senso più restrittivo) e a rendere meglio motivato sia il proprio parere che quello degli altri uffici, avrebbe anche il vantaggio di togliersi di dosso (e una volta tanto del tutto legittimamente!) la responsabilità di esprimere da sola e in anticipo il giudizio di compatibilità.
Anche qui, a titolo di esempio, possiamo ricordare il caso di Asparano. Il progetto, com’è noto, ricadeva in area vincolata, in una parte della quale, tuttavia, non sussisteva l’obbligo d’inedificabilità assoluta. Qui la Soprintendenza, come sappiamo, ha autorizzato l’edificazione secondo il massimo consentito dalle prescrizioni di piano, con le solite risibili prescrizioni di tipo cosmetico (piantumazioni e simili), senza affatto considerare gli effetti diretti e indiretti della pressione delle migliaia di clienti della megastruttura sulla delicata area costiera antistante. Essa invece avrebbe potuto e dovuto mandare il progetto a V.I.A., acquisire in via preventiva gli studi botanici e naturalistici necessari (e non soltanto, in ritardo, quelli di parte), tanto più importanti in attesa della redazione del Piano Territoriale Paesistico, e infine esprimersi motivatamente assieme agli altri uffici. Ciò avrebbe, fra l’altro, risparmiato più tardi alla medesima Soprintendenza l’ulteriore imbarazzo di dover assentire strutture balneari nel bel mezzo della macchia mediterranea: strutture certamente necessarie per l’attività del villaggio, ormai costruito, ma anche del tutto fuori legge.
Altri esempi si potrebbero fare. Cosa dire, sempre qui a Siracusa, del nulla osta “condizionato” reso dalla Soprintendenza per i ricordati lavori nel Porto Grande: dove la “condizione”, inapplicabile e contraddittoria, è quella di ulteriori indagini da effettuare prima dell’inizio dei lavori, frattanto prontamente appaltati. Ma perché allora non lasciare che il progetto, ricadente esso pure in area oggetto di vincolo specifico e dichiarata particolarmente sensibile, andasse a V.I.A. come previsto dalla legge, e lì si facessero tutte le indagini e gli approfondimenti del caso?
Si badi, non c’interessa discutere, qui, degli errori, anche clamorosi, di una singola Soprintendenza. La Valutazione d’Impatto Ambientale, purtroppo, è generalmente poco conosciuta e applicata da tutto il personale dei Beni Culturali, in Sicilia come nel resto d’Italia, persino da parte di funzionari certamente validi. Quali le ragioni? Una sta certamente nel fatto che la “mirabile” legislazione sui Beni Culturali in Italia nata nel 1939, alle origini perfettamente coerente sia al suo interno che con il resto della legislazione, e soprattutto tagliata sulla misura degli uffici che dovevano applicarla, è continuata a lungo ad apparire al personale di questi non solo come l’unica esistente, ma come l’unica possibile. E poco importa che gli stravolgimenti successivi sofferti nel tempo dalle leggi del ‘39 e dal loro contesto le abbiano ormai rese irriconoscibili. Si può ben capire la difficoltà di comprendere ed accettare, anche dopo vent’anni, uno strumento di tutela ancora sentito come “nuovo” ed estraneo quale la V.I.A., non più fondato sulla vincolistica ma sulla composizione e la compensazione “trasparenti”. Non è questa la sede per discutere quale dei due approcci, quello “rigido” della tutela tradizionale (concepito prevalentemente per la difesa di beni monumentali e paesistici) o quello elastico e “olistico” della V.I.A. (rivolto in primo luogo alla tutela di beni “diffusi”, naturalistici e “ambientali” in senso lato) sia da preferire. Ciò che conta è sottolineare che, pur essendo nati da modelli culturali e sociali assai distanti, adesso questi strumenti di legge convivono nello stesso ordinamento, ed è essenziale giungere ad una loro armonizzazione. Con un’avvertenza, però: mentre la legislazione nazionale può essere radicalmente modificata (o stravolta) in alcuni suoi fondamenti, come in effetti è accaduto e sta accadendo, lo stesso non vale per quella comunitaria, la quale è al riparo da siffatti tentativi, essendo sovraordinata alla legge nazionale.
La necessità di giungere ad una ragionevole composizione fra i due distinti procedimenti autorizzativi è stata bensì avvertita dalla giurisprudenza. Questa ha correttamente ritenuto che i cosiddetti nulla osta paesaggistici debbano essere acquisiti, nei casi previsti, all’interno della procedura di V.I.A. (con ciò definendo illegittimi, quindi, quelli altrimenti rilasciati). “Non sarebbe né logico né ammissibile, dunque, che il nulla osta paesaggistico fosse rilasciato (o negato) al di fuori della citata procedura, con il rischio, oltretutto, di valutazioni difformi, teoricamente possibili a causa dei diversi livelli di approfondimento (sicuramente maggiori nella V.I.A.) e della stessa eterogeneità degli elementi istruttori”. Al contrario, “anche il nulla osta paesaggistico è una componente della pronuncia di V.I.A. e deve dunque necessariamente essere acquisito, con le modalità indicate [esame del S.I.A., possibilità di opposizioni, osservazioni, pubblicazione e contraddittorio], nell’ambito della relativa procedura” (Tar Toscana, 12 giu. 2001, n° 1062).
Se è questa la conclusione a cui, sulla base dei principî generali di ragionevolezza e di buon andamento, non si può non pervenire in sede di esegesi, resta il fatto che sarebbe assai desiderabile un intervento chiarificatore in sede direttamente normativa. Questo bisogno, purtroppo, non è stato avvertito dal legislatore, il quale per vent’anni non si è curato di regolare la materia ed ha lasciato che i due procedimenti seguitino a coesistere malamente, fra disfunzioni e duplicazioni. Anche il recente “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” (d.lgs. n° 42/2004), purtroppo, non se ne occupa. Né mi risulta che, fra le tante critiche che sono state mosse a quel testo che pure ambirebbe a costituire un complesso normativo “organico e funzionale”! tale deplorevole lacuna sia stata segnalata.
Altri sotterfugi: il parere di compatibilità “ritardato”
Che fare allora? È presto detto: se il progetto è fra quelli da sottoporre a verifica (perché rientra fra quelli elencati nell’allegato II, o perché… ve lo si fa rientrare, magari dopo averlo sminuzzato per bene), si sollecita una sorta di assenso di massima dal Servizio V.I.A. regionale, in conferenza dei servizi o altrimenti, e richiamandosi ad esso lo si autorizza. Il progetto può così andare avanti avanti, salvo poi acquisire con comodo e a cose fatte il nulla osta “vero”. È chiaro però che, in tal modo, si vanifica totalmente la ratio della legge, la quale anzitutto dispone (dir. 85/337, art. 6, c. 2) che “al pubblico interessato sia data la possibilità di esprimere il parere prima dell’avvio del progetto” e (D.P.R. 10 apr. 1996, art. 2, c. d) “che siano garantite l’informazione e la partecipazione dei cittadini al procedimento”. Inoltre, come ben ha rilevato il Consiglio di Stato, si sopprime così facendo un presupposto essenziale per lo stesso determinarsi dell’amministrazione. Che la valutazione di compatibilità ambientale “non possa che precedere l’approvazione del progetto definitivo” è dettato infatti, prima di tutto, dai principî generali di logicità e buon andamento, “venendosi essa a configurare quale necessario elemento dell’istruttoria volta a quella individuazione compiuta dei lavori da realizzare, nella quale si risolve, in definitiva, il progetto definitivo medesimo”. Essa quindi, “lungi dal tradursi in un nuovo (e formale) adempimento burocratico della procedura volta alla realizzazione di un’opera pubblica, ben può (anzi deve) incidere sullo stesso momento della approvazione del progetto definitivo, che dalla valutazione ambientale può uscire più o meno profondamente trasformato rispetto alla sua impostazione iniziale, ed è altrettanto chiaro che una valutazione ambientale spostata in avanti nel tempo rispetto all’anzidetto momento, da un lato viene a priori deprivata di tutta la sua positiva capacità di concorso alla determinazione di quelle scelte, già compiute nelle decisive fasi progettuali, che l’abbiano preceduta, dall’altro si rende suscettibile di snaturare le stesse fasi successive”, con lesione sia del pubblico interesse sia di quello stesso dei privati coinvolti nel procedimento (Sez. IV, 5 set. 2003, n° 4970). Nello stesso senso ma il principio è ovvio si è espressa la Corte di Giustizia Europea, la quale, per questa ragione, ha condannato proprio l’Italia (2 giu. 2005, causa C-83/03, Porto turistico a Fossacesia, Abruzzo).
E, ancora una volta, converrà illustrare questa prassi illegittima con un esempio a noi vicino. Il 1° dicembre 2004 l’Assessorato Regionale al Territorio e Ambiente ha autorizzato con suo decreto un progetto dal titolo “Riqualificazione funzionale delle banchine del Porto Grande di Siracusa” (GURS 14 gen. 2005, n° 2). Più propriamente, si tratta di uno stralcio dal Piano Regolatore del Porto, già adottato dal Consiglio Comunale e attualmente in esame presso gli uffici del medesimo assessorato, dove sono previsti ampliamenti delle banchine, nuovi moli, dragaggi, ecc. Non vi è alcun dubbio quindi che, per ciò solo, il progetto dovrebbe essere sottoposto a V.I.A. obbligatoria insieme al resto del Piano. Ma, usando la tecnica sopra illustrata, questa sua parte è stata stralciata e mandata anticipatamente all’approvazione, allo scopo, come per altro è stato dichiarato pubblicamente, di poter utilizzare finanziamenti che altrimenti “si sarebbero persi” (rectius, sarebbero stati utilizzati per ristrutturare più a buon diritto un altro porto siciliano). Non solo: la stessa procedura di verifica è stata ignorata, e pertanto il D. A. sopra citato non ha richiamato nessun parere di compatibilità ambientale, ma si è limitato a disporre (art. 3) che “il comune di Siracusa dovrà acquisire, prima dell’inizio dei lavori, ogni altra autorizzazione o concessione necessaria per la realizzazione delle opere di cui al progetto”. Si noti: il responsabile del procedimento presso il Comune di Siracusa, richiestone, ha esibito bensì un presunto “certificato di compatibilità ambientale” (prot. n° 2672 dell’8 mar. 2005), ma esso in realtà altro non è che un estratto o ritaglio, senza data e intestazione, dalla conferenza dei servizi preliminare al citato D. A. (nel quale a sua volta la conferenza suddetta era richiamata, senza però darne la data!). Se, tralasciando i vizi formali (sufficienti da soli, per altro, ad invalidare l’intero procedimento), leggiamo il testo del “certificato”, vediamo che in esso il responsabile del Servizio V.I.A. dichiara bensì che “prima dell’approvazione del progetto esecutivo dovrà essere prodotto, per l’espletamento delle procedure di cui al D.P.R. 12 aprile 1996 [la verifica di V.I.A] e se necessario del D.P.R. 357/97 [la valutazione d’incidenza ex dir. 92/43 CE] il progetto relativo al riutilizzo del materiale dragato” e dà alcune altre prescrizioni, ma non certifica alcuna compatibilità, né del resto mai avrebbe potuto farlo, prima della conclusione della verifica. Questo asserito “parere” del Servizio V.I.A., che si potrebbe al massimo definire come una sorta di attestato preliminare di “non opposizione” al progetto, è in realtà carta straccia, in tutti i sensi!
Non è, questo, un caso isolato. Nello scorso numero di questo giornale (I/4, pp. 5-6) abbiamo documentato come lo stesso responsabile del Servizio V.I.A. abbia dichiarato in atti di “condividere” l’iniziativa in esame (si trattava dell’incredibile Disneyland di Regalbuto), prima ancora che la prevista valutazione d’incidenza fosse effettuata. Siffatta consuetudine di anticipare in sede di conferenza dei servizi la conclusione (in alcun modo ipotecabile in anticipo) di un procedimento fondato interamente sulla partecipazione e sul contraddittorio, e di cui la legge fissa espressamente i tempi e le regole, costituisce un comportamento arbitrario e inaccettabile.
Il silenzio si addice alle lobbies
Se si sottrae ai cittadini questo diritto alla trasparenza, il rischio non è solo quello di facilitare la nascita di opere inutili o sbagliate. È quello, ancor più grave, di mortificare la vita civile, di favorire l’affarismo e gli intrighi, di lasciare che scelte decisive per la vita di tutti siano prese senza verifica e contraddittorio. Come è stato detto efficacemente, bisogna impedire ad ogni costo che a decidere per tutti nelle conferenze dei servizi siano le stesse persone che poi la sera si rivedono al Rotary.
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