Il giallo delle scorie radioattive a Rotondella



da famigliacristiana.it


di Gianni Lannes e Luciano Scalettari

IL MAGISTRATO NICOLA MARIA PACE SVELA I RETROSCENA
DI UN’INDAGINE DAI TROPPI LATI OSCURI

IL GIALLO DELLE SCORIE

Fughe radioattive, barre di uranio nascoste, perfino una morte sospetta. Ma che cosa è accaduto veramente nel Centro di Rotondella?
E oggi siamo fuori pericolo?

«Signor presidente, vorrei indicare alla Commissione di occuparsi ancora del problema, perché la situazione di pericolo individuata, non solo permane ma potrebbe aggravarsi, soprattutto per la giacenza di rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività dentro contenitori che già all’epoca avevano esaurito il tempo massimo previsto in progetto». È il 10 marzo 2005, poco più di due mesi fa. A parlare è il procuratore capo di Trieste, Nicola Maria Pace, chiamato dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, guidata dall’onorevole Paolo Russo, a riferire di una sua vecchia inchiesta riguardo al Centro di ricerca nucleare dell’Enea di Rotondella, in Basilicata. L’indagine del magistrato aveva fatto molto rumore: aveva toccato una delle basi italiane più segrete e si era intersecata all’inchiesta sulle "navi a perdere" in corso a Reggio Calabria, condotta dal pm Francesco Neri, ossia sull’affondamento in mare di imbarcazioni cariche di materiale tossico e radioattivo. La Commissione rifiuti ha chiamato Pace perché la vicenda è aperta: nel 1997, in pieno svolgimento dell’inchiesta, il magistrato è stato trasferito a Trieste. Una parte dell’indagine ha portato, poi, ad alcune lievi condanne per irregolarità nella gestione dei rifiuti e per l’omessa segnalazione di due incidenti. Un altro filone è confluito in un ulteriore fascicolo ancora aperto a Potenza. Ma le situazioni di pericolo individuate dal magistrato sono tutt’altro che risolte. Parte di quelle scorie sono ancora là, come ha confermato pochi giorni fa il generale Carlo Jean, presidente della Sogin, la società che gestisce lo smaltimento delle scorie atomiche italiane. L’11 maggio, Jean ha riferito alla stessa Commissione rifiuti che a Rotondella ci sono ancora 3,2 metri cubi di rifiuti radioattivi liquidi, di cui si dovrebbe completare la cementificazione entro il 2009. «I 3,2 metri cubi», ha detto Jean, «sono custoditi in serbatoi di cemento barico ben protetti e organizzati, ma piuttosto vecchi poiché risalgono agli anni ’60». Già il 14 aprile 1994, una relazione dell’Anpa (Agenzia nazionale protezione ambientale) segnalava che «la prassi di una consistente conservazione dei rifiuti liquidi non solidificati, né comunque immobilizzati, rappresenta una violazione grave di uno dei princìpi fondamentali della gestione dei rifiuti radioattivi». E un mese più tardi l’Anpa ribadiva che «i livelli di sicurezza sono del tutto inaccettabili». «Alla Trisaia si sono registrati almeno quattro incidenti e fughe radioattive», aveva documentato la Procura di Matera. Il magistrato Pace ha accettato di parlare della sua inchiesta con Famiglia Cristiana.
Procuratore, cosa scoprì riguardo agli incidenti avvenuti a Rotondella?
«Era un’indagine ampia. Ma il primo obiettivo era di valutare in quale maniera venissero gestiti i materiali nucleari e se vi potessero derivare pericoli per la popolazione e l’ambiente. Nel corso dell’inchiesta, poi, si sono aperti altri versanti investigativi, non meno preoccupanti».
Ad esempio?
«Abbiamo verificato che nel centro dell’Enea c’erano materiali che non risultavano in contabilità nucleare. Una decina di Barre RB-11 non registrate provenienti dal reattore di Monte Cuccolino, nei pressi di Bologna».
Che giustificazioni fornì l’Enea?
«Nessuna. Un altro importante risultato investigativo, che esulava dalle attività della Trisaia, fu che acquisimmo atti da cui risultavano attività di smaltimento di rifiuti industriali e radioattivi non solo in mare, ma anche in una zona desertica del Nordafrica. Una multinazionale con sede nelle Isole Vergini smaltiva rifiuti proponendo luoghi sicuri da occhi indiscreti, attraverso il sistema elaborato al Centro di Ispra (Varese)».
Il progetto Dodos?
«Esatto. Finanziato da Stati Uniti e Giappone con 200 milioni di dollari.
Un progetto che succesivamente viene fatto proprio, in esclusiva, da Giorgio Comerio. La sua azienda, l’Odm, propone a vari Paesi la cessione di materiale radioattivo da smaltire con quel sistema. Poi un troncone d’indagine viene sviluppato insieme a Francesco Neri: riteniamo che siano state versate in mare scorie con l’affondamento preordinato di navi». Le attività di Rotondella da lei indagate rientravano appieno nella ricerca nucleare, cui il centro era dedicato? «Parlare di un centro di ricerca è improprio. La Trisaia è un impianto di riprocessamento del combustibile nucleare. Serve a estrarre dalle barre di combustibile esauste due materiali fissili speciali: plutonio e uranio».
L’ha trovato il plutonio?
«No. Ed è un fatto singolare. Nei registri non c’è traccia di plutonio. Quindi, o il plutonio non è stato estratto ed è ancora nei rifiuti, o non è stato registrato. E tuttavia è scientificamente certo che il plutonio è presente nella barra di combustibile esausta. Viene prodotto dalla fissione dell’uranio».
Che spiegazioni ha fornito l’Enea?
«All’inizio ha negato, per poi ammettere che le barre processate portavano alla produzione di plutonio».
Perché insiste sulla pericolosità delle scorie stoccate alla Trisaia?
«Non solo perché erano in contenitori vecchi e usurati, ma anche per le perizie dei fisici nucleari: ci confermavano che la cementificazione non era un sistema scientificamente accettabile». L’inchiesta fu funestata dalla morte di un investigatore, il capitano di corvetta Natale De Grazia. Cosa accadde? «L’avevo salutato al telefono proprio il giorno della sua morte, il 2 dicembre 1995. Era uno dei nostri investigatori migliori. Stava andando a fare delle verifiche sui registri nautici e accertamenti sull’affondamento di alcune di quelle navi sospette. Era in viaggio con dei colleghi. Dopo cena, si erano rimessi in macchina, diretti a La Spezia. De Grazia, improvvisamente ha reclinato il capo».
Causa della morte?
«Né io né il collega Neri abbiamo mai avuto informazioni precise sui dati necroscopici. La morte viene indicata per collasso cardiocircolatorio. Ma è chiaro che tutti moriamo per questa ragione. Non è nota la causa. De Grazia aveva 39 anni, e non aveva patologie. Come militare era sottoposto a costanti visite mediche. La mia intima convinzione è che l’abbiano ucciso: era un ufficiale davvero in gamba, in procinto di scovare prove sull’affondamento delle navi».
È un’affermazione forte...
«Nell’arco di due settimane avvennero diversi episodi inquietanti: alcuni "avvertimenti", la morte di De Grazia, le dimissioni dal Nucleo investigativo della Forestale di Brescia del suo capo, il colonnello Martini. E, in precedenza, avevamo scoperto a Brescia un camper da dove alcuni mediorientali muniti di telecamera filmavano i nostri movimenti. Fui anche avvicinato da un israeliano che si qualificò agente del Mossad, con tanto di tesserino, che m’invitava ad andare avanti. Insomma, capimmo che l’inchiesta suscitava troppe attenzioni. D’altro canto, tra le prove acquisite, c’era anche la documentazione secondo cui l’Italia nel 1978 ha ceduto all’Irak due reattori Cirene, che servono a ricavare plutonio. Il trattato di non proliferazione nucleare lo vieta. Inoltre, a Rotondella, negli anni seguenti c’era stata la continuativa presenza di personale iracheno, per apprendere la tecnologia».


Gianni Lannes e Luciano Scalettari