Venezuela: un golpe che cambia il volto dell’America Latina



Venezuela: un golpe che cambia il volto dell’America Latina

Giancarlo Summa gsumma at terra.com.br

Oggi in pochi ricordano chi sia stato León Vilarín, il leader dei camionisti cileni che misero in ginocchio Allende nel 1973, con l’aiuto degli industriali locali e della CIA. Nella storia del colpo di stato, quel nome è solo una nota a fondo pagina. Gli effetti di quella vecchia paralizzazione, però, in qualche modo si sentono ancora, giacché la fine del governo di Unidad Popular ha cambiato la storia dell’America Latina. E allora, a poche ore dall’ultimo golpe, quello contro il presidente del Venezuela Hugo Chavez, vale la pena di annotare due nomi che hanno avuto un ruolo determinante in questa crisi: quello del presidente provvisorio, Pedro Carmona Estanga, leader della confindustria venezuelana; e quello di Carlos Ortega, dirigente della CTV, il più grosso sindacato del paese. La fine della “rivoluzione bolivariana” di Chavez rischia infatti di avere, nel futuro dell’America Latina, un peso simile a quello che ebbe allora la morte di Allende. Non perché Carmona possa diventare un nuovo Pinochet, ma perché la caduta di Chavez rappresenta un chiaro segnale per tutto il continente, indicando quali siano i margini di manovra all’interno dei quali un governo democraticamente eletto può muoversi senza rischiare di essere travolto. Margini stretti, asfissianti: sono quelli del “Consenso di Washington” (definizione dell’economista americano John Williamson), che prescrive apertura totale dell’economia, subordinazione agli interessi dei mercati finanziari e, naturalmente, allineamento coi dettami della Casa Bianca. Chavez aveva guidato due tentativi di colpo di stato, dieci anni fa, ma nel 1998 è stato eletto democraticamente, e il suo governo ha ricevuto in seguito il suffragio di altre elezioni e vari referendum. I venezuelani – un popolazione all’80% miserabile in un paese straordinariamente ricco – erano stanchi del malgoverno e della corruzione: quella dei partiti tradizionali, quella dei burocrati miliardari della PDVSA – la gigantesca compagnia statale del petrolio -, quella dei sindacalisti gialli della CTV. Le misure nazionaliste adottate dal governo Chavez, e soprattutto il pacchetto di 49 riforme strutturali presentate al paese nel novembre scorso (tra cui una progetto di riforma agraria e una nuova legge sugli idrocarburi che avrebbe aumentato le royalties pagate dalle imprese straniere), hanno però scatenato la durissima reazione degli industriali, dei mezzi di comunicazione, delle vecchie oligarchie politiche, dei sindacati. Ma come in Cile, il golpe non sarebbe stato possibile senza l’appoggio – in questo caso, soprattutto politico – degli Stati Uniti, determinante per minare la lealtà delle forze armate venezuelane verso il presidente. Va ricordato che il Venezuela, che possiede riserve nell’ordine di 72 miliardi di barili, è col Messico, il principale fornitore di petrolio degli Stati Uniti. E che Chavez, a differenza dei suoi predecessori, era entrato in aperta rotta di collisione con Washington: ha stretto solidi rapporti con Fidel Castro, ha incontrato con Saddam Hussein, si è adoperato perché l’Opec forzasse l’alta dei prezzi del greggio, si è opposto al Piano Colombia (gli aiuti militari USA all’esercito colombiano). Non a caso, subito dopo il golpe, la direzione della PDVSA ha annunciato che non venderà più “un unico barile” di petrolio a Cuba. Quattro mesi fa, altri moti di piazza forzarono le dimissioni del presidente argentino Fernando De la Rua. In quel caso, il governo crollò a causa della devastante crisi economica causata da dieci anni di fedele applicazione del Consenso di Washington. Adesso Chavez cade per opporsi a quelle medesime ricette. Ad ottobre, il Brasile, andrà alle urne per eleggere il nuovo presidente, e il candidato di sinistra Luis Inácio Lula da Silva è in testa in tutti i sondaggi. La scorsa settimana, il Dipartimento di Stato ha fatto trapelare su alcuni giornali di nutrire qualche preoccupazione per i possibili risultati delle elezioni brasiliane. Il messaggio è chiaro. Dopo i fatti di Caracas, se sarà eletto, Lula dovrà avere ben chiari i limiti entro i quali gli sarà concesso operare.
12/4/2002