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Militari fuori dal coro sulla guerra sporca.
Militari fuori dal coro
di Antonio Moscato
Ci sono stati alcuni soldati semplici che dall’Iraq hanno scritto a casa la
verità o l’hanno raccontata appena tornati, ma la maggior parte dei poveri
ragazzi spediti in una regione di cui non sanno nulla, senza conoscere non
dico l’arabo ma almeno l’inglese, ovviamente hanno ripetuto le frottole di
cui i superiori li hanno imbottiti. Ne era un esempio quello che aveva
detto alla famiglia il marò dei lagunari Matteo Vanzan quando, poco prima
di rientrare a Nassiriya per morirvi, era tornato a casa per una breve
licenza. Il padre ha riferito a Gian Antonio Stella che Matteo era molto
preoccupato: gli arabi non vogliono capire che la nostra missione è di
pace, diceva, e quindi bisogna “coparli tuti” (ammazzarli tutti).
Tuttavia la durezza della guerra ha avuto un esito imprevisto: mentre i
soldatini sono imbottiti di una propaganda che impedisce loro di capire
cosa stanno facendo (anche se in genere non sono entusiasti o sono comunque
inquieti), qualche ufficiale ha cominciato a dissociarsi smontando il
castello di bugie patriottiche sfornato dagli alti comandi e dal governo, e
non contestato seriamente dalla maggior parte della stessa opposizione
moderata.
Il capitano di vascello Francesco Marino, comandante degli incursionisti
del San Marco in Iraq, è stato il più esplicito: in una lunga intervista al
“Corriere della sera” del 31 maggio 2004 ha fatto a pezzi tutte le versioni
fornite in precedenza sulla settimana di assedio al governatorato, in cui è
morto Marco Vanzan.
Era stato detto che “i nostri ragazzi” non potevano difendersi
adeguatamente perché venivano attaccati da miliziani che “si proteggevano
dietro i civili” che sparavano dalle finestre di un ospedale, e che quindi
non si poteva rispondere per non coinvolgere pazienti e medici. Lo aveva
detto anche il ministro Martino in Parlamento. Tutto falso, spiega
Francesco Marino, a partire dal fatto che dall’ospedale nessuno ha sparato
un solo colpo: “L’ospedale lo vedevo benissimo. Ce l’avevo proprio davanti
e lo tenevo sotto controllo. Se qualcuno si azzardava a far fuoco da lì
dentro era morto, perché noi avevamo fucili di precisione micidiale.
Eravamo in grado di colpire in modo chirurgico senza coinvolgere persone
estranee”.
Il giornalista del “Corriere”, Marco Nese, domanda allora: “Ma il colpo di
mortaio che ha ucciso il giovane Matteo Vanzan non è partito dal tetto
dell’ospedale?” Evidentemente Nese è stupito, dato che il suo giornale,
come praticamente tutti gli altri, aveva riportato con grande rilevo la
notizia, per screditare i “selvaggi arabi” che non rispettano le
convenzioni. I maestri di queste frottole sono gli israeliani, che non
lasciano passare le ambulanze con feriti o donne in procinto di partorire
col pretesto che “i terroristi” sarebbero soliti usarle per colpire i
poveri soldati indifesi....
Ma il capitano Marino ha risposto ancora più seccamente: “Assolutamente no.
Forse [il colpo di mortaio] proveniva da una zona a nord del fiume Eufrate,
oppure a est dell’ospedale, potrebbe essere stato sparato da dietro un
muretto”.
Nese insiste: “Se non c’era la paura di colpire l’ospedale, cosa vi
impediva di rispondere agli attacchi dei ribelli?” E Marino, che ha appena
spiegato che non avevano nessuna remora, e non hanno sparato sull’ospedale
solo perché non c’era dentro nessun “ribelle” (lo avrebbero fatto appunto,
se necessario, dato che la precisione delle loro armi permetteva interventi
“chirurgici”...) insiste categoricamente che “è falso dire che abbiamo
subito senza replicare: “Più volte io ho condotto azioni di difesa attiva a
bordi di cingolati blindati”, e anche dei “contrattacchi”, ma “il vero
problema era localizzare da dove veniva la minaccia”. Lo avevamo capito,
dato che per identificare la provenienza del colpo di mortaio aveva
indicato due o tre punti cardinali diversi...
In ogni caso il capitano Marino assicura di aver eliminato molti “ribelli”,
anche se avrebbe difficoltà a fare il conto delle vittime provocate (“non
andavo a verificare i risultati delle operazioni da noi svolte”). Erano
chirurgiche, e basta, inutile vedere chi era stato colpito.
Quanto alla notizia che i “ribelli” si proteggevano dietro i civili, “è una
favola”, ribadisce Marino, perché quando cominciano i combattimenti “i
civili spariscono. La popolazione si rintana”. Il “nostro grosso problema”
non è stato fronteggiare i ribelli, ma “capire dove erano appostati”.
Appunto. Secondo Marino sarebbe stata necessaria una maggiore copertura
aerea, almeno con elicotteri (e lo dice in polemica, forse, con i piloti
italiani che hanno rifiutato di volare per mancanza di sicurezza dovuta
alla insufficiente blindatura della cabina), ma forse si potrebbe obiettare
che sarebbe servita di più una efficace intelligence. Ma come fare con marò
e carabinieri che non conoscono le lingue, i costumi, la cultura locale? Lo
stesso Marco Calamai nel suo bel Diario da Nassiriya (pubblicato da
“l’Unità” pochi mesi fa) aveva ammesso che nessuno riusciva a “capire il
mistero di questo mondo musulmano” (p. 102), e neppure cosa si diceva in
città: durante la solita riunione dello staff della CPA, “fuori, nella
vicina moschea, un imam recita, come tutti i giorni durante il Ramadan, la
sua cantilena che non termina mai, e nessuno sa cosa dica”. (p.95)
Che vuol dire con questo Marco Calamai? Che gli occupanti, compreso lui che
era stato nominato Consigliere Speciale della CPA, non solo non sapevano
l’arabo, ma non avevano a disposizione in ogni momento un buon interprete
fidato! Stiamo freschi a contare sull’intelligence affidata al maresciallo
formatosi reggendo una stazioncina dei carabinieri di una cittadina della
Padania (come risultava dalla biografia di uno dei “18 eroi”...)!
Anche il capitano Marino, che pure vuole fornire notizie rassicuranti, alla
domanda sull’umore della popolazione non sa dire altro che alcuni
rispondono al saluto con un sorriso, non si sa quanto di circostanza,
mentre altri, “specie i giovani, gridano «Vi taglieremo la gola»”. Viste le
conoscenze linguistiche forse, più che gridarlo in una lingua che sanno
incomprensibile agli occupanti, quei giovani fanno al loro passaggio un
gesto eloquente col taglio della mano sul collo...
Ma il capitano Marino polemizza anche con altre “favole” come quella sui
limiti imposti ai militari italiani dalle misteriose “regole d’ingaggio”...
Non è vero, spiega, “non hanno mai costituito un limite. La polemica sulle
regole d’ingaggio è assurda. Noi possiamo rispondere agli attacchi, e anche
a una semplice intenzione ostile”. Come faranno a capire se c’è
“un’intenzione ostile” non si sa, forse guardando l’espressione del viso
dell’iracheno prima di sparare... In ogni caso le armi non ci mancano,
aggiunge il capitano, avevamo già dei poderosi cingolati blindati, ma ora
ne arrivano di ben più potenti, dal tipo veloce Dardo al poderoso carro
armato Ariete da 48 tonnellate munito di cannoni da 120...
Dopo questa smentita clamorosa a tutte le bugie di guerra italiane, la
gerarchia militare ha dovuto far intervenire il generale Chiarini, che ha
cercato di insinuare che il capitano Marino sarebbe arrivato al CPA solo
dopo qualche ora dopo l’inizio dei combattimenti, rimanendovi poi per tre
giorni e tre notti. “Ha ragione, da quando è arrivato lui, non ha più visto
sparare dall’ospedale”, ma prima gli spari c’erano stati. Chissà perché
nessuno glielo ha raccontato, in quei tre giorni e tre notti... Anzi,
Chiarini capovolge l’accusa, e assicura che i barbari ribelli hanno
centrato con quattro colpi di mortaio l’ospedale. Come mai Marino non lo ha
saputo? La spiegazione è semplice: “Marino è un ragazzo d’oro e un grande
ufficiale. Però lui aveva un quadro limitato della situazione.” Insomma, un
bravo ragazzo inesperto, che non sa tenere a freno la lingua. Il quadro
esatto lo aveva solo il gen. Chiarini, che stava ben lontano dal luogo
degli scontri, ma ben in contatto con Roma... Nulla da Chiarini sui missili
lanciati dagli aerei statunitensi fatti intervenire a Nassiriya per
soccorrere i nostri intrappolati. Erano chirurgici anche quelli?
Peccato che la dichiarazione di Chiarini affronta aspetti tecnici
marginali, ma non può smentire la sostanza delle affermazioni del suo
subalterno, che forniscono un quadro del tutto diverso sui compiti dei
“nostri ragazzi”, sull’atteggiamento della popolazione, ecc.
Chiarini rilancia indisturbato la favola dei “ribelli” che”mandavano avanti
donne e bambini”, la stessa accusa mossa dagli israeliani ai palestinesi (e
dai britannici ai sionisti prima dell’indipendenza). Aggiunge che per
questo gli italiani avrebbero rinunciato a sgomberare un ponte, per evitare
di colpire donne e bambini. Su quella “battaglia dei ponti”, durata non 4 o
5 ore, ma 10 o forse 30 ore, con un bilancio di almeno 150 (e non 15!)
morti, sta indagando tuttavia la Procura militare, guidata da Antonino
Intelisano (vedi CdS del 26/5/04), che non trova compatibile il numero di
morti dichiarati con l’enorme numero di proiettili sparati (30.000). Oppure
i “nostri ragazzi” li sparavano a caso, senza mirare e soprattutto senza
avere di fronte un nemico che giustificasse una simile potenza di fuoco?
Sembra paradossale, ma per capire come stanno le cose in Iraq e nel Medio
Oriente, è meglio ascoltare qualche ufficiale sincero come Marino che gli
stessi politici del triciclo, che sul cuoco morto in Arabia Saudita non
sanno trovare di meglio che denunciare Frattini per la dichiarazione
iniziale sull’inesistenza di italiani tra gli ostaggi, invece di dire
semplicemente: gli italiani sono e saranno sempre più insicuri nel mondo
finché i nostri governanti vanno in guerra contro i popoli dell’Iraq,
dell’Afghanistan, del Kosovo, ecc.
Il centrosinistra non ha neppure saputo sottrarsi decisamente all’ondata di
isteria patriottarda che ha accompagnato il rientro dei resti di
Quattrocchi. Neppure il coraggio di dire: se è andato in Iraq per sua
scelta come mercenario senza nessun ideale (come ha ribadito il fratello) e
solo per fare soldi, perché il costo non indifferente del rientro della
salma, dei funerali, delle analisi del DNA, ecc., deve essere a carico del
contribuente e non di chi lo ha assoldato? E i quattro che facevano lì,
armati fino ai denti, perfino con armi proibite che la stessa polizia
militare statunitense aveva in parte sequestrato? Distribuivano caramelle
ai bambini?
Se il governo mente spudoratamente, e il centrosinistra svicola o continua
a inseguire farfalle attribuendo un ruolo positivo all’ONU, o aspetta gli
effetti taumaturgici di un art. 11 della Costituzione che ha aggirato prima
di Berlusconi dichiarando spudoratamente “imprese umanitarie” le guerre in
Somalia, nei Balcani o in Afghanistan, per fortuna c’è qualche ufficiale
che sceglie il realismo e la franchezza. Non sono molti, ma sono utilissimi
per spazzare via le ipocrisie da sacrestani.
Tra questi spicca il generale Fabio Mini, che ha comandato le truppe Nato
nel Kosovo. Abbiamo già recensito tempestivamente su Bandiera Rossa News
(n° 188 del 20 12 2003) il suo bel libro “La guerra dopo la guerra.
Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale”, Einaudi,
Torino, 2003.
Ora merita di essere segnalato un suo saggio apparso sull’ultimo quaderno
speciale di “Limes” (“Iraq. Istruzioni per l’uso”) col titolo “No-exit
Strategy”.
Mini ironizza sul termine Exit Strategy coniato durante il “periodo d’oro
della teoria dei giochi”, quando il mondo “era una scacchiera di blocchi e
le teste d’uovo dei potenti di turno inventavano nuove ragioni per
impegnarsi negli affari altrui” ed era nata “l’esigenza di uscire dalle
situazioni create limitando i danni e senza perdere la faccia”. Ma, proprio
mentre si inventava il termine, “l’uscita dalle situazioni conflittuali
diventava sempre meno pianificata, meno precisa e tantomeno strategicamente
pensata”. E Mini ricostruisce una lunga serie di fughe senza strategia,
spesso con le ossa rotte: “gli inglesi e i francesi da Suez, i francesi
dall’Indocina e dall’Algeria, gli olandesi dall’Indonesia, gli americani
dalla Corea del Nord e da Cuba, i russi dalla questione dei missili sempre
a Cuba, e via via gli americani dal Vietnam, i russi dall’Afghanistan, i
cinesi dal Vietnam, i portoghesi prima e gli indonesiani poi da Timor Est,
l’ONU dalla Somalia e i serbi dal Kosovo”.
Insomma, con l’unica eccezione delle Falkland, dalla seconda guerra
mondiale in poi non si è verificata eppure una conclusione tradizionale di
una guerra con un vincitore e un vinto. “I rimanenti conflitti hanno visto
prima lo stallo e poi l’uscita disordinata e spesso sanguinosa degli stessi
«vincitori»”. Una conclusione paradossale ma non campata in aria, su cui
speriamo riflettano quei giovani comunisti approdati da poco bruscamente
dalla “disubbidienza” alla “nonviolenza” come principio, che hanno a volte
sostenuto l’inutilità della resistenza agli invasori per la enorme
asimmetria dei mezzi a disposizione.
Fabio Mini sostiene che “dall’Iraq si dovrebbe uscire non scappando”, come
ha fatto la Spagna: “Si è stufata e se ne va, dimostrando una coerenza
politica encomiabile, se non altro per il coraggio di contrastare tutti i
luoghi comuni, e di mantenere fede ad una promessa politica (cose
certamente insolite nel panorama politico di qualsiasi nazione).”
Mini sostiene che non hanno diritto ad inveire contro la Spagna tutti quei
paesi che, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno ridotto unilateralmente i
loro contingenti nei Balcani, senza chiedere il parere degli altri paesi:
tra gli altri lo hanno fatto anche Belgio, Russia, Inghilterra. L’Italia è
stata sul punto di farlo per i luoghi santi serbi nel Kosovo, e ha comunque
lasciato l’aeroporto di Pristina. Chi è senza peccato scagli la prima pietra...
Comunque Mini è senza indulgenza sul comportamento degli Stati Uniti,
entrati in guerra senza aver neppure pensato a una strategia di uscita.
Come mai? “Ormai si sa che la guerra all’Iraq era stata decisa prima ancora
dell’11 settembre. L’attacco alle Torri Gemelle l’ha soltanto anticipata,
troncando il dibattito tra i falchi e le colombe poco convinte della
capacità di risolvere in breve tempo due o più conflitti in sequenza o in
contemporaneità. (...) È anche accertato che il piano di abbattimento delle
autocrazie islamiche fosse addirittura precedente all’insorgere della
minaccia terroristica di Bin Laden. Wolfowitz ed i suoi neoconservatori
hanno potuto realizzare nel 2002 quello che avevano concepito nel 1992. A
fronte di un pluriennale orientamento alla guerra, la pianificazione del
dopoguerra iracheno avrebbe invece richiesto soltanto 28 giorni”.
Mini conclude che la guerra è fatta ma non finita, e che prima di tutto,
per trovare soluzioni nuove, bisogna individuare la vera natura della
situazione, mentre finora “abbiamo assistito a innumerevoli tentativi di
eludere la realtà. Abbiamo ignorato la guerra, eliminandola dal nostro
vocabolario e pensando che non parlandone si sarebbe estinta. Abbiamo
indorato ogni pillola politico-militare con le parole pace, solidarietà,
democrazia, libertà, diritti umani e ci siamo illusi che questa
verniciatura superficiale potesse prima o poi raggiungere anche la sostanza
delle cose. Nulla di tutto ciò. La guerra è più selvaggia e asimmetrica che
mai e la pace, qualunque cosa sia, sempre più lontana”.
Se la diagnosi è convincente, le soluzioni appaiono più problematiche: da
un lato occorrerebbe una tutela dell’ONU, ma questa “non può essere intesa
come gestione diretta né delle guerre né delle ricostruzioni” e la sua
autorità non deve “essere coinvolta in quelle beghe di bottega, scandali e
inefficienze burocratiche che il coacervo di paesi interessati (...) ha
finora provocato”. Più facile dirlo che farlo, anche se va benissimo il
progetto di “trasferire vera autorità agli iracheni” mandando “chiari
segnali di rassicurazione”, tra cui non solo la fine certa
dell’occupazione, ma un impegno concreto in una direzione opposta a quella
seguita finora: “le compagnie straniere non saranno incluse nell’economia
nazionale, il petrolio non sarà privatizzato o gestito dagli stranieri, la
sicurezza sarà controllata da organi internazionali con la partecipazione
delle nazioni della regione”.
Come ottenere tutto ciò? Secondo Mini bisogna che l’Europa, e in primo
luogo Gran Bretagna e Italia, tentino di ricondurre gli Stati Uniti al
realismo e al pragmatismo: “Invece di continuare a dire agli Stati Uniti
che l’occupazione non deve fallire, la Gran Bretagna dovrebbe chiaramente
dire che l’occupazione ha già fallito nei suoi scopi inizialmente
dichiarati”. Soltanto “questa inversione totale di politica può salvare gli
Stati Uniti dall’incubo iracheno e risparmiare a tutta la regione un
conflitto generalizzato”. Anche “noi italiani dobbiamo uscire
dall’ambiguità di discutere in continuazione se tornare o restare e ad ogni
incidente rivangare o recriminare sulle scelte passate. Dobbiamo essere
inseriti da pari con tutti gli altri paesi dell’Unione Europea in un grande
progetto di ricostruzione con compiti precisi. Dobbiamo ricompattare
l’Europa e stimolarla all’assunzione di responsabilità adeguate alla
propria cultura e alle proprie capacità. In Iraq senza questo nuovo
indirizzo ci sentiremo ancora a lungo come in trappola”.
Vero, ma la proposta non sembra molto praticabile, e probabilmente non
tiene conto a sufficienza del quadro politico attuale dei principali paesi
europei. Ma possiamo essere indulgenti su questo limite del saggio: ci
basta, per apprezzarlo, la franchezza con cui analizza la realtà e spazza
via le frottole sulle guerre umanitarie...
PS: Sulla copertura dell’ONU Fabio Mini ha scritto altre volte criticamente
a partire dalla sua esperienza diretta nei Balcani e dallo studio di altre
vicende, come quella di Timor Est. Ma in questi giorni è uscito un
interessante volumetto di Sergio Romano, un lucido conservatore tenacemente
realista. Ne riparleremo, ma vogliamo intanto anticipare un suo giudizio su
chi si illude in un possibile ruolo positivo dell’organizzazione
internazionale: “l’ONU è soltanto una scatola vuota o, se si preferisce, un
club in cui cinque soci hanno il diritto di opporsi a qualsiasi decisione,
e gli altri possono sempre, in un modo o nell’altro, sottrarsi agli impegni
comuni. I rari casi in cui l’organizzazione può svolgere una qualsiasi
funzione sono quelli in cui una grande potenza decide, con il beneplacito
delle altre, di mettere nella scatola il denaro, gli uomini e i mezzi
necessari. Così accadde in Corea nel 1950, nella prima guerra del Golfo e
in Somalia nel 1992. Ma se la grande potenza decide di ritirarsi (come in
Somalia nel 1993) o l’accordo è limitato da interessi contrastanti e
riserve mentali (come in Congo, in Medio Oriente e in Bosnia), l’ONU
diventa una protagonista impacciata e inefficace”, e quando “la scena
mondiale è dominata da una sola potenza, e quest’ultima non vuole lasciarsi
imbrigliare da decisioni collettive, l’ONU continuerà ad essere ciò che è
stata dal momento della sua fondazione: una scatola vuota” (Sergio Romano,
“Anatomia del terrore”, I libri del “Corriere della sera”. Milano, 2004,
pp. 54-55).
La redazione di Bandiera Rossa News
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