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LETTERA maggio




LETTERA 98
maggio 2004
marzo 2004 

1
Voi, miei coetanei, che avete visto le nostre città distrutte da una guerra
ormai lontana nel tempo (ma come vicina, in  certi sogni, all'improvviso),
e cono-scete l'odore acre delle macerie, l'atroce insensatezza di un muro
su cui stava ancora appesa una fotografia in cornice, lassù  dove non
potevate più salire; e voi, anziani e meno anziani, che avete lavorato e
lavorato per avere una casa vostra e, per comprarla, avete detto di no, a
molti piaceri, sembrandovi che soltanto una casa vostra potesse dare a voi
e ai vostri figli sicurezza e serenità; e voi, giovani che sognate di avere
la vostra casa e qualcuno di voi va persino a visitare un cantiere dove
tutto gli sembra muoversi troppo lentamente per la sua fretta; tutti voi
che sentite che un'abitazione  è fatta di mattoni e di calce ma anche di
sogni e di passato, di parole e risate e baci e di futuro, arrestatevi un
istante, vi prego, davanti alla Philadelphia Road di Rafah, Gaza Strip, tre
ore di volo da noi. Questa nuova strada, dal bel nome che significa "amor
di fratelli" la stanno creando i bulldozers di Sharon per spianare una
"zona militare" verso il confine egiziano. I filmati che la RAI avaramente
ci trasmette, assieme ai gelidi commenti di un giornalista scelto, con ogni
evidenza, per il suo tetro odio per i palestinesi, mostrano povera gente
che fugge da quelle povere case in pericolo, portando con sé un materasso,
un televisore, talvolta - ancor più pateticamente - un armadietto a
specchio, un grande animale di pelouche. Così carica dei suoi poveri
tesori, la gente della Philadelphia Road va a cercarsi, per la quarta o
quinta volta nel corso di una generazione, un precario rifugio. Le hanno
dato dieci minuti di tempo per andarsene per sempre dalla sua casa.
2
Conosco le abitazioni che gli israeliani stanno demolendo. Sono case povere
ma non misere. c'è sempre un divano, un tappeto, una mensola con un
servizio da the dalle tazzine variopinte. Se nella famiglia c'è un ragazzo,
alle pareti sono attaccati i poster di qualche squadra di calcio, di
qualche cantante - e, sempre, c'è un panorama di Gerusalemme la Santa  Sono
case in tutto simili agli appartamentini dei nostri meridionali saliti al
Nord negli anni '50 e che nelle nuove città ricevevano il cronista in un
salottino dai mobili avvolti nel cellophane. Se gli avessero detto che quel
salottino, pagato ancora a fameliche rate, o le pareti adorne di quadretti
di pittori della domenica avrebbero dovuto essere distrutti, che loro
avrebbero dovuto andarsene entro dieci minuti, quegli uomini avrebbero
impugnato un coltello o una pistola Io penso che sarei stato con loro.
La storia dei palestinesi, dal 1948 sino ad oggi, è storia di case da cui
se ne sono dovuti  andare. Nei campi-profughi libanesi, ogni tanto,
celebrandosi una Giornata della Memoria,. le famiglie appendevano a una
parete di qualche centro sociale le  chiavi portate con sé nell'esilio:
quelle chiavi, che un tempo avevano aperto spazi di fresco o di tepore, di
piantine in piccoli vasi o di ombrosi giardini, di sorrisi di donne e di
chiasso di bambini, erano adesso segni di diritti crudelmente violati, di
rapine di Stato, di destini personali e comunitari massacrati, in nome di
governi che si considerano eletti da Dio e dunque legittimi prevaricatori
di sotto-uomini.
Migliaia di case palestinesi dovettero essere abbandonate negli anni '40:
alcune furono dinamitate dai terroristi sionisti per ampliare lo spazio del
dominio israeliano, altre semplicemente (che vuol dire: con minacce e
paure) passarono di proprietà, da un palestinese a un eletto. Poi, man mano
che le rovinose, stoltissime guerre tentate dagli arabi venivano vinte
dagli arsenali americani e dal valore militare dei discendenti dell'inerme
popolo della Shoah, altre migliaia di case furono abbandonate da
palestinesi, costretti da una nuova povertà a emigrare nei paesi arabi o in
America Latina. Infine vennero le due intifada, e la repressione
israeliana, feroce nel suo estendersi non solo agli uomini ma anche ai
rifugi degli uomini. Secondo una spietata legge militare, bastava che un
ragazzo tirasse una pietra contro un soldato e che qualcuno credesse di
averlo identificato perché gli occupanti sequestrassero una o più stanze
dell'abitazione del supposto reo.  Sbarrata la porta di quella stanza con
una lamiera, i soldati la dichiaravano "zona militare" e di quando in
quando venivano a controllarne i sigilli.  Le casalinghe nascondevano
quelle lamiere con qualche tenda: ma vi erano talvolta giovani che glielo
impedivano, bisognava vedere ogni giorno quella cicatrice di metallo, per
non dimenticare.
3
Tuttavia nei casi più gravi (quelli che "loro" consideravano più gravi) la
sanzione era ben più terribile: un  bull-dozer D-9 veniva chiamato a
risolvere ogni problema giuridico e militare: in pochi istanti, il tetto di
cemento della casa palestinese crollava, trascinando con sé i muri. Non si
sentiva un grande rumore, le case palestinesi non sono le villette-bunker
dei "coloni" sionisti, hanno poveri muri, sottili; e il ruggito della
macchina veniva coperto dal pianto dei bambini e dalle urla delle donne.
Dalla prima intifada ad oggi più di 4mila case sono state demolite
dall'esercito israeliano, per punizione o per "motivi militari" In questi
giorni, nella Strisica, 1500   persone hanno visto distruggere la propria
dimora; secondo alcuni dovrebbero, nei prossimi giorni, diventare dieci
volte tanto - e forse più. Grande è l'indignazione dei sionisti quando si
dice loro che operazioni del genere sono di stampo nazista. Gridano che
questo significa calpestare la memoria dei martiri della Shoah. Quanti
orrori nascondono da cinquant'anni i governanti israeliani dietro quelle
povere, sacre ombre, indimenticabili.
Quando la nuvola di polvere del crollo si dilegua si vedono le lastre di
cemento del tetto inclinate sui ruderi come grandi vele bianche che non si
gonfiano più di vento. I campi profughi della Palestina sono fitti di
questi monumenti alla vergogna della repressione. Subito gli abitanti della
casa che non c'è più cominciano a frugare fra le macerie, alla ricerca di
qualche oggetto che non hanno fatto in tempo a salvare. Talvolta la ricerca
è più affannosa: accade che un ufficiale (o il trattorista) abbia fretta o
sia troppo nervoso e allora il crollo travolge qualche anziano o paralitico
che non ha udito l'ordine di sgombero o non è riuscito a muoversi
abbastanza velocemente. E' anche accaduto che il manovratore della ruspa,
affaticato da tanto lavoro, si sia distratto, non abbia sentito gridare e
le ganasce del suo mostro di metallo abbiano divorato una giovane donna. Si
chiamava Rachel Corrie, aveva 23 anni, era americana, cercava di opporsi
alla demolizione di una casa. Molti palestinesi la conoscevano. Sognava di
poter convincere i bambini che vi erano regioni del mondo in cui certe cose
non accadevano. Sarebbe stato così anche nella vostra terra, ve lo
prometto. I bambini stavano a sentirla, poi voltavano il capo, non volendo
dirle che era una bugiarda. "Lo vedi? Lo vedi?" chiesero silenziosamente
quel giorno al suo cadavere dilaniato.
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La Striscia di Gaza misura 374 chilometri quadrati. Su  un quarto di questa
superficie sono installati 21 insediamenti israeliani,(8 mila persone). Sul
resto si accalcano più di un milione e mezzo di palestinesi. La densità
della popolazione palestinese, nella Striscia, è superiore a quella di Hong
Kong, ma la diversità con la metropoli cinese sta in alcune semplicissime
realtà, dirette conseguenze dell'occupazione : il 75% dei palestinesi vive
sotto la soglia della povertà; l'acqua per loro è razionata mentre i coloni
ne fanno libero uso; a Gaza non si può arrivare dal mare, non in aereo; per
giungervi in auto da Israele o dai territori occupati  essendo palestinesi
(e dunque non potendo usufruire delle strade apartheid dei colo-ni)bisogna
superare (quando si può: raramente) una serie quasi infinita di posti di
blocco. La Striscia è un grande carcere di disperati.
Sparare cannonate in una zona in cui la densità della popolazione è così
alta è certamente un crimine di guerra: lo ha detto il Consiglio di
Sicurezza, l'altro giorno. Gli Stati  Uniti, questa volta, non hanno
esercitato il loro diritto di veto. Tanto si sa bene cosa facciano i
governanti israeliani dei documenti dell'ONU; li gettano - ha detto un loro
portavoce ufficiale - nella "pattumiera della storia". Questa volta gettano
con quella spazzatura più di 40 morti e un'ottantina di feriti.
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Ha scritto l'israeliana Nurid Peled, Premio Sackarov del parlamento europeo
per la libertà di pensiero: "In questo inferno non restiamo che noi, le
vittime delle due parti che cercano di arrestare questa follia. Noi siamo i
soli che cercano di salvare questi bambini dalla loro terribile sorte di
carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani israeliani
idealisti che servire il loro Paese non vuol dire obbedire come dei robot
agli ordini mortiferi, che cercano di convincere i bambini palestinesi che
il loro popolo ha bisogno di loro vivi e non morti. Noi siamo i soli a
gridare alle orecchie del mondo intero che per i nostri bambini morti non
c'è differenza tra ciò che il mondo chiama terrorismo e ciò che chiama
guerra contro il terrorismo. Per la mia piccola figlia che è morta a
Gerusalemme perché era israeliana e per i piccoli bambini che muoiono a
Gaza e a Jenine e a Ramallah perché sono palestinesi, questa differenza non
esiste più. Perché l'uno e l'altro, il terrore e il contro-terrore,
significano la morte impietosa dii innocenti. Perché, in realtà, non
esistono delle uccisioni civilizzate di innocenti e delle uccisioni barbare
di innocenti. Non esiste che l'uccisione criminale degli innocenti"
Ha scritto ancora Nurid Peled: "Io invito tutti i genitori del mondo a
riunirsi in questa collettività le cui fondamenta sono la paternità e la
maternità, ad alzare la loro voce sino a coprire le altre voci che dominano
il mondo: quelle dei politici corrotti e megalomani, dei generali crudeli,
dei businessmen senza scrupoli che conducono il mondo intero alla sua
perdita".
Dopo sessant'anni di martirio del popolo palestinese io credo (spero) che
le parole di questa madre ci stanino dal nostro senso di impotenza, dalla
nostra paralisi etica che paralizza la storia.
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Non è vero, infatti, che non possiamo far niente. Ci sono almeno due cose
che possiamo fare - e dunque dobbiamo. La prima è una solidarietà operante
nei confronti delle vittime. Molti, moltissimi mass-media sono nelle mani
di filo-israeliani, a cominciare dalla RAI. Dobbiamo essere capaci di
perforarne il muro di silenzi, di raggiungere e - non solo con le nostre
orecchie ma anche con la generosità di aiuti a chi viene gettato in miseria
- le voci delle vittime e quelle dei costruttori di pace. I compiacenti
reportages filosionisti nascondono invariabilmente le sofferenze dei
palestinesi ma nascondono anche lo straordinario  coraggio dei refuznik, i
soldati israeliani e le soldatesse israeliane che pongono, a costo del
carcere o addirittura dell'esilio, l'obiezione di coscienza agli ordini
criminali di Sharon e della sua tribù militare. Sono ormai centinaia e
aumentano di numero. E aumentano di numero i pacifisti israeliani:
duecentomila persone hanno gridato, dieci giorni fa, a Tel Aviv la loro
volontà di pace. Pochi secondi nei telegiornali italiani, ma è stata la
maggiore mani-festazione degli ultimi dieci anni. La gente innalzava grandi
cartelli con scritte che rivelavano un dibattito politico approfondito. Ne
ricordo due (che naturalmente la televisione di Berlusconi e di Mimum non
ha mostrato) particolarmente significativi. Il primo diceva. "Gli
insediamenti dei coloni uccidono i nostri bambini", identificando
chiaramente le responsabilità del fondamentalismo sionista, il secondo
proclamava: "L'occupazione sta distruggendo la fibra morale di Israele".
Raccogliere queste voci, trasmetterle alle persone di buona volontà che ci
vivono accanto ma credono di non doversi occupare di politica, svelare la
grandezza di chi si rifiuta di cedere alla logica della violenza, rendere,
con la nostra generosità, un po' meno tragica la miseria in cui l'esercito
israeliano sta gettando la popolazione palestinese, questo è il primo aiuto
che noi possiamo dare alla pace nel Medio Oriente.
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C'è un secondo aiuto, di straordinaria importanza e, se vogliamo, possiamo
fornirlo proprio nei prossimi giorni. Le difficoltà elettorali di Bush
accrescono le difficoltà di Sharon non meno della bocciatura del suo piano
da parte del Likud e dello scandalo finanziario in cui è coinvolto.  A
Sharon, e a qualunque suo successore, non basta più il patrocinio della
Casa Bianca  L'Europa assume per loro una nuova importanza: non possono più
limitarsi a inon-darla di pompelmi e di insulti per "antisemitismo".
Sembra a me (ma, come so, a moltissimi altri) che nel bene e nel male
l'Europa sia stata negli ultimi anni straordinariamente debole nei
confronti dei governi israeliani, abbia troppo spesso abbassato gli occhi
davanti allo spettacolo della proterva negazione di tutte e convenzioni
internazionali e del suo incrudelirsi sulle masse palestinesi. L'Europa può
essere, al contrario, una travolgente forza di pace nella giustizia per due
popoli coinvolti. in una tragedia che corrode e corrompe la nostra storia.
Perché ciò avvenga è necessario mandare al Parlamento europeo deputati che
sentano profondamente la necessità di un forte impegno politico. Sì, lo so
bene: vi sono questioni italiane da tenere presenti anche votando per
Strasburgo. Tuttavia io ricordo che Bonhoeffer diceva che non si poteva
cantare il gregoriano se non si gridava per gli ebrei; e mi vien fatto di
pensare che oggi quelle parole si possano leggere così: che  non si può
compiere il rito delle scelte democratiche senza occuparsi di un popolo
mediterraneo al quale queste scelte sono radicalmente negate. Che pensano
della Palestina gli uomini e le donne che xi propongono di rappresentarci?
Sarà il loro comportamento nei confronti della pace con giustizia a
definire, al di là delle parole,  la vera e unica costituzione europea.
Presentiamo, dunque, la domanda, preoccupiamoci della risposta.
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Sono dieci anni, care amiche e amici che vi  scrivo questa LETTERA,
aggredendovi (ma spero che non sia la parola esatta) con le mie idee e i
miei sentimenti. Permettetemi allora, questa volta, di fare una
dichiarazione di voto, nella speranza che voi la condividiate. Voterò,
nella lista di Rifondazione, Luisa Morgantini, candidata per il Centro
Italia (Tosca-na, Lazio, Marche, Umbria e Isole). So con certezza che
nessuno dei parlamentari uscenti ha fatto tanto per la Palestina e per
tutti gli altri Paesi travolti dalle tragedie della storia, dal Nicaragua
all'Afghanistan; nessuno ha con tanta accuratezza informato elettrici ed
elettori del suo lavoro e delle situazioni da lei studiate e viste con i
suoi occhi, con coraggio e lucidità, capacità e sensibilità politiche.
Ha scritto Nurid Peled: "Luisa è il nome più amato nei Territori Occupati
Palestinesi e dagli israeliani che cercano di vivere in pace e alla ricerca
di un aiuto dal mondo esterno per attuarlo. L'abbraccio di Luisa ai
pacifisti israeliani, ai refusniks e alle persone come me che si sentono
traditi e schiacciati dal proprio paese è un immenso sollievo. Luisa è
l'unica figura pubblica che conosco che usa le proprie prerogative per fare
meglio quello che avrebbe fatto comunque come privata cittadina aiutando i
poveri, gli indigenti, gli oppressi e le vittime di tortura. (Š) La sua
conoscenza e il suo coinvolgimento con qualunque cosa accada in Israele e
Palestina, in Iraq e Afghanistan è sorprendente e l'insistenza delle sue
visite, a dispetto delle minacce subite e delle espulsioni, è ammirabile".
Naturalmente se dovessi votare nel Nord Est voterei Raniero La Valle; e
poiché penso che anche gli enti locali possano fare molto per la pace, se
dovessi  votare in qualche comune, voterei a Padova il mio fraterno amico
Elvio Beraldin, che si occupa di Palestina e di pace da più di vent'anni,
mentre a Bologna sceglierei Silvia Montevecchi, coraggiosa testimone di
pacifismo militante. Sono candidati ambedue nelle liste dei Democratici di
Sinistra.
Un saluto affettuoso
ettore masina
	21 maggio  2004