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La nonviolenza e' in cammino. 674



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 674 del 15 settembre 2003

Sommario di questo numero:
1. Lotta alla mafia e nonviolenza
2. Vincenzo Sanfilippo: il contributo della nonviolenza al superamento del
sistema mafioso
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LOTTA ALLA MAFIA E NONVIOLENZA
Lotta alla mafia e nonviolenza si incontrarono con le grandi esperienze di
lotta del movimento contadino all'epoca delle occupazioni delle terre; poi
si incontrarono di nuovo con le lotte e le riflessioni di Danilo Dolci, la
cui figura, il cui pensiero e il cui lavoro continuano ad essere
incredibilmente sottovalutati; si incontrarono ancora nelle esperienze del
movimento antimafia degli anni '80 e dei primissimi anni '90, che fu
nonviolenza in atto anche se non usava questo termine per definire la
propria prassi.
Possono e devono incontrarsi ancora. Assumendo come punto di riferimento il
lavoro del Centro Impastato di Palemo e la ricchissima elaborazione teorica
di Umberto Santino; e superando le astrattezze e le genericita' di non
piccola parte della poca pubblicistica di area esplicitamente nonviolenta
che negli scorsi anni ha accostato il tema non sempre con sufficiente
lucidita' e concretezza.
Il saggio di Vincenzo Sanfilippo che proponiamo in questo numero del
notiziario costituisce un utile contributo a una riflessione e un impegno
che noi (anche per le esperienze personali di chi cura questo foglio)
abbiamo sempre ritenuto necessari.

2. RIFLESSIONE. VINCENZO SANFILIPPO: IL CONTRIBUTO DELLA NONVIOLENZA AL
SUPERAMENTO DEL SISTEMA MAFIOSO
[Ringraziamo Enzo Sanfilippo (per contatti: Enzo Sanfilippo
v.sanfi@virgilio.it) per averci messo a disposizione questo suo saggio
apparso su "Quaderni satyagraha" n. 3 del giugno 2003, e per avervi premesso
una introduzione ad hoc ed un breve profilo autobiografico. Ringraziamo
anche Rocco Altieri, direttore di "Quaderni satyagraha" (per contatti:
centrononviolenza@libero.it), per aver permesso questa riproduzione.
Segnaliamo infine che rispetto al testo a stampa per esigenze grafiche
legate al formato elettronico del nostro notiziario qui abbiamo ovviamente
omesso le figure presenti nella stesura originaria]
Introduzione
Il testo che segue e' stato pubblicato sul n. 3 della rivista "Quaderni
Satyagraha". In esso ho ripreso e sistematizzato una serie di riflessioni e
di ipotesi sviluppate 'a singhiozzo' e in maniera informale dal 1993 ad oggi
e che avevano avuto una prima sistematizzazione la scorsa estate in
occasione del seminario estivo della scuola di formazione etico-politica
Giovanni Falcone, durante il quale mi era stata chiesta una relazione. Ho
cercato, successivamente, di dare un certo ordine a questo lavoro,
intensificando al contempo le letture sul tema.
La sensazione che ne ricavo oggi, dopo il confronto con alcuni amici, e' che
la nonviolenza ha in se' un potenziale spirituale, culturale e  politico che
non e' stato approfondito appieno al fine di contrastare lo 'sviluppo
mafioso' del nostro sud se non addirittura, come qualcuno sostiene,
dell'intera societa'.
Su molti temi la mia conoscenza e', ovviamente, limitata: l'ultimo capitolo
e' pertanto - ancor piu' degli altri - aperto al contributo di quanti
vorranno integrare una proposta che via via spero diventi sempre piu' ricca
e partecipata.
Il contributo nel suo insieme non vuole inventare niente di nuovo, in
quanto, in tanti casi, si trattera' di dare visibilita' e sostegno a realta'
ed elaborazioni gia' esistenti. L'operazione che val la pena di sperimentare
e' quella di esplicitare un retroterra culturale e metodologico specifico,
che costituisca il punto di partenza etico e scientifico per un'azione tesa
al cambiamento, senza tuttavia rinunciare ad un confronto e ad una
'contaminazione' con altri pensieri e altre prassi, sperando che, a partire
da questo tentativo, possa aumentare l'efficacia, il sostegno e/o la
correzione reciproca.
Se, come spero, le proposte e le disponibilita' avranno seguito e si
integreranno ad altre, mi impegno a restituire, a quanti lo vorranno, tutti
i contributi e le idee maturate successivamente, per potere eventualmente
trovare le forme organizzative di prosecuzione (un seminario? Un convegno?
delle pubblicazioni collegate? delle campagne e delle azioni dirette?).
Per quanti non mi conoscono invio anche una mia breve presentazione.
Ringrazio fin d'ora chi leggera' questo contributo e vorra' suggerire
correzioni e proposte.
*
Note di presentazione dell'autore
Sono nato a Palermo 45 anni fa. Sono sposato e padre di due figli, Manfredi
di 18 anni e Riccardo di 15. Sono stato scout e capo scout fino all'eta' di
30 anni. Ho svolto il servizio civile in un Centro di quartiere della mia
citta'. Ho frequentato l'Universita' di Trento dove mi sono laureato in
sociologia. Ho perfezionato i miei studi a Bologna in sociologia sanitaria.
Dal 1989 lavoro nella sanita' pubblica, nei servizi di salute mentale dove
mi sono occupato finora di sistemi informativi e inclusione sociale di
soggetti  con disagio psichico. Chiusa l'attivita' con gli scout, con mia
moglie Maria abbiamo cercato di impegnarci nell'area della nonviolenza.
Abbiamo fatto parte per diversi anni del Movimento Internazionale della
Riconciliazione (Mir) per poi approdare al movimento dell'Arca di Lanza del
Vasto al quale aderiamo come alleati dal 1996. Dallo stesso anno facciamo
parte di un gruppo di famiglie palermitane ("Famiglie in cammino") con  il
quale facciamo esperienze di condivisione spirituale e sociale. Frequentiamo
il Centro di cultura Rishi di Palermo dove pratichiamo lo yoga. Con gli
altri tre alleati dell'Arca siciliani (Tito e Nella Cacciola e Liliana
Tedesco) abbiamo organizzato diversi campi su vari aspetti dell'insegnamento
dell'Arca (canto, danza, yoga, lavoro manuale, ecumenismo) presso un
monastero a Brucoli (Sr) dove Tito e Nella hanno abitato per cinque anni.
Quest'anno abbiamo acquistato una casa in campagna presso Belpasso (Ct) dove
Tito e Nella andranno ad abitare e a lavorare: la' assieme a loro e a vari
amici speriamo di riprendere le attivita' di approfondimento e di lavoro
sulla pace, la nonviolenza, l'insegnamento dell'Arca.
*
1. L'approccio nonviolento per la comprensione del fenomeno mafioso: alcuni
temi-guida
Il tema che vorrei approfondire e' un tema sul quale m'interrogo da diversi
anni. La nonviolenza e' infatti l'ambito spirituale, ancor prima che
culturale, al quale cerco di far riferimento. Gli studi di sociologia e la
professione di sociologo (che esercito oggi nell'ambito dei servizi di
salute mentale) mi hanno condotto a riflettere sul nesso mafia e
nonviolenza, facendo uso di concetti e teorie proprie di questa disciplina.
Vorrei in primo luogo partire tentando di dare alcune definizioni sui
termini principali del nostro tema.
In primo luogo e' importante che io definisca il termine "nonviolenza".
Riflettendo su questo termine sono pervenuto a due definizioni.
Prima possibile definizione: la nonviolenza e' un modo di risolvere i
conflitti, guidato da una fede in Dio e/o nell'uomo, attraverso il richiamo
costante della coscienza propria e dell'avversario.
Seconda possibile definizione: la nonviolenza e' un percorso verso la
Verita', che parte dal presupposto che gli uomini siano uniti da legami
profondi, diversi dalle relazioni interpersonali e sociali che si danno in
un dato momento storico, e che pertanto considera i conflitti come
disarmonie transitorie che l'uomo ha il dovere etico di superare.
Non saprei optare e proporre una sola delle due definizioni, infatti sono
convinto che la nonviolenza sia contemporaneamente ricerca della Verita' e
metodo di soluzione dei conflitti.
Per ancor meglio capire che cos'e' la nonviolenza, puo' essere utile cercare
di individuare alcuni ambiti della nostra esperienza umana con i quali la
nonviolenza puo' entrare in contatto.
Solitamente, infatti, quando si parla di nonviolenza, o quando i media ne
parlano, si fa riferimento alle guerre, ai conflitti tra stati, alle azioni
di resistenza ai regimi oppressivi, ai conflitti razziali, etnici,
interreligiosi o intrareligiosi. Ci si riferisce quindi quasi esclusivamente
ad un ambito socio-politico (con riferimento ai problemi della difesa dello
Stato) o religioso (1).
Esistono invece, a mio avviso, molte altre sfere dell'azione umana,
individuale e collettiva, alle quali la nonviolenza puo' dare ispirazione o
risposta: tra queste la stessa conoscenza.
La nonviolenza, affermava Capitini, e' "un modo di fare che deriva da un
modo di essere". Se cio' e' vero, la nonviolenza non potra' che dare forma
agli stessi modi del conoscere, tanto che mi sembrerebbe corretto parlare di
epistemologia o di sociologia nonviolente piuttosto che di epistemologia o
sociologia della nonviolenza (2), non costituendo la nonviolenza un mero
"fatto sociale" da comprendere, ma, appunto, una modalita' di comprensione
da cui deriva un'azione per il cambiamento in vari contesti dell'attivita'
umana.
Vorrei iniziare questa riflessione richiamando l'attenzione su quegli
elementi che caratterizzano la nonviolenza e che possono a mio parere
costituire i temi-guida per tracciare un percorso di evoluzione di uno
specifico sistema sociale, quello meridionale, caratterizzato dalla presenza
della mafia a vari livelli:
a. La visione gandhiana del mondo parte da una profonda fede nell'uomo e
nelle relazioni tra gli uomini. Tali relazioni trascendono le stesse
relazioni sociali. Ogni riflessione che voglia rifarsi alla nonviolenza -
sia essa filosofica, sociologica o politica - non potra' prescindere da
questo assunto (indimostrabile) dell'unita' del genere umano.
b. Da questa visione dell'uomo deriva una particolare concezione del
conflitto come opportunita' di evoluzione. La gestione dei conflitti porta
ad un rafforzamento e ad una maggiore consapevolezza dell'unita' del genere
umano. Per questa ragione, Gandhi affermava che il conflitto e' un dono.
c. La chiave della gestione nonviolenta dei conflitti e' il richiamo alla
coscienza (propria e dell'avversario): e' quindi con un disciplinato lavoro
su se stessi e sulle relazioni che e' possibile lavorare per la
riconciliazione e per l'unita'.
d. In tale prospettiva va rilevata l'importanza e il valore della sofferenza
e del dolore. Non nascondere la sofferenza derivante da un conflitto,
prenderne consapevolezza e farne prendere ai propri avversari, diventano
potenti strumenti di evoluzione personale e collettiva.
e. Riflettere e andare alla ricerca delle cause profonde dei conflitti e' il
secondo lavoro al quale ci conduce la nonviolenza. Cio' porta
inevitabilmente alla scoperta della dimensione della co-responsabilita'
delle parti in conflitto: c'e' sempre qualcosa nell'errore del mio
avversario di cui io sono direttamente o indirettamente responsabile (3).
f. Nella nonviolenza, diversamente rispetto a tutta una tradizione di
pensiero che puo' essere ricondotta emblematicamente a Machiavelli, etica
individuale ed etica collettiva possono essere guidate dagli stessi
principi. Anzi possiamo affermare che la nonviolenza manifesta la sua carica
dirompente sull'intero sistema sociale a condizione che essa agisca nei
conflitti micro-sociali e nella coscienza dei singoli.
g. Le obiezioni di coscienza individuali a una legge, a un comando ritenuto
ingiusto, a un'abitudine sedimentata culturalmente, possono diventare, in
questa prospettiva, un'occasione per far prendere consapevolezza di un
problema non riconosciuto dall'intera comunita' sociale.
h. Ugualmente pratiche sociali di tipo comunitario, dove possano convivere
persone prima considerate nemiche, o comunque sperimentate come luoghi di
ricerca di una volonta' comune, rappresentano la realizzazione politica
concreta su cui Gandhi, Capitini e Lanza del Vasto impegnarono buona parte
delle loro esistenze.
i. La nonviolenza non e' quindi solamente gestione e risoluzione dei
conflitti ma costruzione di alternative possibili. Basti pensare al
"programma costruttivo" a cui Gandhi ha dedicato buona parte della sua
elaborazione e della sua esperienza.
Questi temi costituiranno lo sfondo entro cui sviluppero' il mio
approfondimento.
*
2. Mafia e "sistema sociale mafioso"
"Un'altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non
essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l'ingiustizia che ci
sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un
pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano
vicinissimi e nascono dentro di noi. E percio' sono molto piu' familiari e
assai meno terrificanti. Quel che fa paura e' il fatto che certi sistemi
possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una
morsa diabolica, gli attori come le vittime: cosi', grandi edifici e torri,
costruiti dagli uomini con le loro mani, s'innalzano sopra di noi, ci
dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci" (Etty Hillesum, Diario
1941-1943, Adelphi, Milano 1985, 1996).
Per circoscrive concettualmente un fenomeno sociale complesso, quale e' la
mafia, mi e' sembrato utile partire dalla definizione data da Umberto
Santino: "Mafia e' un insieme di organizzazioni criminali, di cui la piu'
importante ma non l'unica e' Cosa Nostra, che agiscono all'interno di un
vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza
e di illegalita' finalizzato all'accumulazione del capitale e
all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un
codice culturale e gode di un certo consenso sociale" (4).
Questa definizione del termine mafia, sulla quale torneremo tra breve, ci
consente di proseguire nella nostra riflessione puntando l'attenzione su tre
elementi peculiari dell'azione nonviolenta e della comprensione sociologica:
la relazione di interdipendenza tra le parti, l'acquisizione e la gestione
del potere, la formazione del consenso sociale.
Per procedere in questa parte della ricerca ci sono utili alcune ormai
famose riflessioni elaborate da Giovanni Falcone nel libro-intervista,
scritto con Marcelle Padovani un anno prima di essere ucciso.
"La mafia, lo ripeto ancora una volta, non e' un cancro proliferato per caso
su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori,
complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri
cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati
della societa'. Questo e' il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto
quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no,
volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione"
(5).
Alla luce di quanto sostenuto da Falcone, la definizione di Santino puo'
costituire la base per ridefinire, in termini piu' decisamente sistemici, il
fenomeno che stiamo affrontando.
Le finalita' e le caratteristiche del sistema cosi' configurato rimandano a
funzioni proprie dello stato, come l'uso della violenza. D'altra parte la
pervasivita' del codice culturale mafioso (e la sua familiarita' con la
cultura meridionale) e la non ridotta dimensione del consenso della
popolazione, fanno si' che le organizzazioni mafiose conformino l'intera
societa' meridionale.
In termini di "teoria dei sistemi" (6), tale societa' puo' certamente essere
rappresentata e studiata quale sistema sociale strutturato nei tre
"classici" sottosistemi: socio-culturale, politico ed economico. Ma la
presenza delle organizzazioni criminali mafiose e delle loro pretese di
egemonia organizzativa, economica e culturale connotano in maniera singolare
tale sistema sociale, al punto che esso puo' essere definito sistema sociale
mafioso.
Fuori dal lessico sociologico, si tratta in ogni caso di sostituire la
rappresentazione della mafia come cancro in un corpo sano con quella della
mafia come modello diffuso di relazioni tra le parti della societa' di cui
facciamo parte.
Avendo quindi come riferimento il "sistema sociale" e non la "mafia" o le
"organizzazioni mafiose" sara' piu' facile adottare una ricerca e una prassi
che superino l'approccio repressivo orientato alla soppressione, ma anche
quello preventivo, orientato ad evitare che qualcosa avvenga, a favore di un
nuovo modo di vedere e di agire che chiamerei trasformativo, orientato cioe'
a superare una condizione ri-conosciuta, nella quale tutti siamo inseriti,
impegnato a far evolvere un sistema del quale tutti facciamo parte.
Uno studio che recentemente ha fatto ricorso al concetto di sistema nello
studio della mafia e' quello di Fabio Armao (7). La mafia, secondo questo
autore, si accredita "come una delle forme della modernita'", e cio' "per la
sua particolare capacita' di conciliare (meglio di quanto non si stia
rivelando in grado di fare il vecchio stato) tendenze apparentemente in
contraddizione tra loro, quali la riscoperta, da un lato, della
territorialita', persino nelle sue forme estreme di rivalutazione
dell'appartenenza etnica, e la rivendicazione enfatica, dall'altro, dei
vantaggi del processo (peraltro ritenuto inarrestabile) di globalizzazione
dei mercati" (8).
Condivido questa modalita' di lettura del fenomeno mafioso, anche se essa
necessita, a mio avviso, di un ulteriore avanzamento interpretativo nel
rapporto tra "sistema mafia" e "sistema sociale", quest'ultimo inteso quale
modello di lettura delle societa' occidentali.
In termini di teoria dei sistemi ritengo vada esplicitata la scelta tra:
- una rappresentazione in cui la mafia e' il sistema centrale e il sistema
sociale, nelle sua tipica strutturazione in tre sottosistemi (culturale,
politico ed economico), rappresenta l'ambiente o una parte dell'ambiente;
- una rappresentazione di un particolare sistema sociale.
Come ho argomentato precedentemente ritengo maggiormente esplicativo il
secondo tipo di rappresentazione (9). Ho schematizzato nella figura 1 un
modello dove ho ricompreso le relazioni sistemiche individuate da Armao.
Figura 1: Modello sistemico a centralita' mafiosa [come detto in premessa,
abbiamo qui omesso la figura  - nota redazionale -].
Al centro del modello si trova l'organizzazione Cosa Nostra, attorno alla
quale si trovano quattro aree di contiguita', tre delle quali (area della
cultura della socializzaizone, area politico-amministrativa, area delle
attivita' economiche e produttive) sono veri e propri sotto-sistemi sociali,
e una quarta (quella della contiguita' affettiva e familiare) fa da tramite
e da' forza alle relazioni di interscambio tra organizzazione mafiosa e
sottosistema culturale. Essa veicola il consenso piu' forte a Cosa Nostra.
L'ambiente diffuso con il quale interagisce tale sistema ha due sistemi piu'
definiti e sui quali il sistema mafioso ha elaborato delle specificita'
funzionali di interscambio (operando quella che in teoria dei sistemi e'
definita "riduzione di complessita'"): il territorio e l'economia
globalizzata. Tali relazioni non avvengono in maniera diretta ma sempre per
il tramite totale o parziale dei sottosistemi societari. Cosi', ad esempio,
il dominio del territorio fa riferimento alla sua suddivisione
amministrativa, ai suoi luoghi istituzionali di decisione politica ecc. I
rapporti con il mondo dell'economia transita attraverso i luoghi "legali"
dei mercati e della finanza.
Il modello rappresentato rende a mio avviso maggiormente comprensibile
l'ipotesi concettuale, avanzata peraltro dallo stesso Armao, di mafia come
"fenomeno non residuale".
Il successo della mafia non nasce da un'evoluzione tutta interna alla storia
delle organizzazioni mafiose (dove a mio avviso la concezione del mondo
resta culturalmente arcaica), ma sfruttando la differenziazione sistemica
collaudata dal sistema stato-mondo che a sua volta deve fronteggiare varie
tendenze di crisi, che ne minano la stessa fondazione (10).
Il "sistema sociale mafioso" e' quindi, in qualche misura, il prodotto di
una fusione tra due sistemi in crisi di sopravvivenza; fusione non indolore
e ancora non definitivamente compiuta.
La rappresentazione piu' frequente dei rapporti tra organizzazioni mafiose e
societa' e' illustrata nella figura 2 dove il centro del sistema e'
continuamente conteso tra l'organizzazione "Cosa Nostra" e il sottosistema
politico-amministrativo dello Stato.
Figura 2: Modello di sistema sociale mafioso a centralita'
politico-amministrativa  [come detto in premessa, abbiamo qui omesso la
figura - nota redazionale -].
Penso che tutti noi abbiamo piena consapevolezza del fatto che Cosa Nostra
abbia in alcune fasi della nostra storia recente occupato il "centro" del
sistema sociale.
Il deficit rappresentativo non e' quindi questa volta da ricercare nella
pretesa centralita' dell'organizzazione mafiosa, quanto piuttosto nella
gerarchia funzionale attribuita ai sottosistemi sociali.
Non esiste infatti un "centro assoluto" del sistema sociale. La centralita'
va determinata in relazione alla rilevanza attribuita dal ricercatore alla
funzione assolta da ciascuna parte del sistema.
Nella nostra prospettiva dobbiamo definire la centralita' in base alle sue
potenzialita' trasformative.
A mio avviso, generalmente, si da' troppo per scontato che il sottosistema
che ha il "timone" del cambiamento sociale sia il sottosistema
politico-amministrativo (11). Cio', a mio avviso, porta a trascurare il
fatto che il luogo principe della "riproduzione sociale" e' il sottosistema
culturale.
Un autore che ha sempre interpretato la mafia come una forma particolare
della modernizzazione della nostra societa' e' Piero Fantozzi. Egli, che tra
l'altro ha fatto parte del gruppo di studio che ha approfondito i possibili
rapporti tra nonviolenza e lotta alla mafia (12), sostiene che nella
societa' meridionale il problema della legittimazione entra paradossalmente
in rapporto con le forme di illegalita' a causa della diffusione di una
determinata relazione sociale che e' la clientela. Clientela e pratiche
formalmente universalistiche di welfare hanno in comune la manipolazione del
principio di legalita'.
Questa forma di illegalita' o legalita' manipolata e' diventata cultura,
cioe' fondamento della legittimazione interna. E l'agire mafioso, che pure
si differenzia dal rapporto clientelare per un piu' esplicito distanziamento
dalla legalita', ha una serie di elementi in comune con il rapporto
clientelare. Il senso soggettivo che motiva i due tipi di azione ha lo
stesso fondamento: privilegi o speranze di privilegi.
L'agire mafioso caratterizzato dall''uso della violenza e' l'unica strada
che sembra essere stata lasciata alle fasce piu' marginali, che, plagiate
sui temi individualistici del consumismo e del potere, non sono riuscite a
sperimentare altre modalita' di presenza ed autoaffermazione sociale, se non
quelle delle attivita' criminali proposte dalle organizzazioni mafiose.
Assumendo quindi la centralita' del sistema di socializzazione potremmo
forse scegliere un terzo modello, rappresentato dalla figura 3.
Figura 3: Modello di sistema sociale mafioso a centralita' culturale [come
detto in premessa, abbiamo qui omesso la figura  - nota redazionale -].
In questo modello il punto cruciale per il mantenimento dell'egemonia
mafiosa non e' tanto il sottosistema politico, quanto il sottosistema
socio-culturale deputato alla funzione di socializzazione. Su questo terreno
Cosa Nostra e' stata sfidata poche volte e non ha esitato, percependo
ovviamente la posta in gioco, a manifestare la sua determinazione assassina:
ne sono esempio gli omicidi di Peppino Impastato e di don Pino Puglisi.
E' quindi solo a partire da un modello generale di lettura della societa'
che possiamo utilmente riflettere sull'insieme della fenomenologia mafiosa,
ivi compresa la possibile evoluzione della sua parte organizzata.
Recentemente lo stato di salute di Cosa Nostra e delle sue conseguenti
capacita' pervasive nel sistema sociale sono state oggetto di un dibattito
tra alcuni ricercatori (13). In estrema sintesi, le tesi sostenute con varie
argomentazioni e dati di ricerca, possono forse essere sintetizzate in tre
grandi aree:
- l'attuale fase di "insabbiamento" di Cosa Nostra non corrisponde ad un suo
indebolimento ma ad una nuova strategia (in questo caso, mantenendo il
nostro schema cio' potrebbe significare che la mafia continui ad occupare
ancora una collocazione centrale nel sistema sociale);
- "Cosa Nostra" e' in una reale fase di difficolta', che puo' preludere ad
un suo esaurimento, in quanto essa non ha strumenti e know-how sufficienti
per competere nel nuovo contesto dell'economia globale;
- esiste oggi una sorta di sdoppiamento tra una mafia "vecchia" e una mafia
"nuova" con cultura, influenze, mercati e padrini politici differenziati.
Tenendo conto delle riflessioni sviluppate all'inizio di questo capitolo
dobbiamo rilevare un limite nell'impostazione stessa di questo dibattito.
Infatti non e' detto che l'evoluzione delle organizzazioni mafiose in quanto
organizzazioni criminali, che ha certamente una forte rilevanza sul piano
investigativo-giudiziario, rivesta la stessa centralita' sul piano della
conoscenza finalizzata al cambiamento del nostro particolare sistema
sociale.
Cosa Nostra, d'altra parte, pur essendo una realta' sociale certamente
esistente, e' sempre stata difficilmente configurabile dal punto di vista
scientifico. Si tratta, infatti, di un'organizzazione segreta, non
osservabile direttamente. Posto che essa, come tutti i fenomeni sociali, ha
una sua evoluzione, la sua definizione scientifica sara' sempre storicamente
ritardata rispetto al dato contemporaneo. Viceversa studiare e intervenire
oltre che su Cosa Nostra anche sulle aree di contiguita' che, come
sottosistemi sociali interagiscono e in certa misura generano e sostengono
le altre parti del sistema generale (ivi comprese quelle che governano il
sistema stesso), oltre a poterci consegnare elementi utili alla definizione
del fenomeno organizzativo in senso stretto, ci consentono di individuare le
"postazioni" per intraprendere delle prassi trasformative.
Paradossalmente, inseguire (ribadiamo: dal punto di vista scientifico e
sociale, non certo da quello giudiziario) l'evoluzione interna di Cosa
Nostra e delle altre organizzazioni criminali mafiose fino alla loro
eventuale dissoluzione (cosa che per alcuni aspetti culturali interni,
peraltro, e' gia' avvenuta) potrebbe non preludere alla fine del sistema
sociale mafioso.
Cito ancora Giovanni Falcone: "E' necessario distruggere il mito della
presunta nuova mafia, o meglio, dobbiamo convincerci che c'e' sempre una
nuova mafia pronta a soppiantare quella vecchia" (14).
Tutto cio' deve incoraggiarci ad adottare costantemente quest'ottica di
sistema.
Cosa Nostra e le altre organizzazioni mafiose sono infatti soltanto la parte
storicamente organizzata di un sistema che inevitabilmente ci ha compreso e
ci comprende. Tale sistema sociale, analizzato da altri angoli visuali (ad
esempio gli imprenditori taglieggiati, le bande giovanili di un quartiere
urbano a rischio, i processi di socializzazione primaria, le culture
familiari, il progressivo spostamento dell'influenza mafiosa nell'economia
legale ecc.) non sembra avere mutato alcune sue caratteristiche essenziali.
*
3. Sistema mafioso e ruolo del ricercatore
"Da donna, seppur contraddittoriamente, credo ancora nell'utopia.
L'attenzione, potrei dire la speranza, si e' spostata dalla societa', dal
collettivo, all'individuo, alla singola donna, al singolo uomo. Cerco di
pormi l'inquietante domanda: che cosa accade 'dentro' i soggetti? Qual e' il
rapporto con la vita e con la morte e con l'evento di dare la morte a
un'altra persona?" (Renate Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore,
Milano 1994,1997).
La riflessione che abbiamo fin qui condotto apre un'altra questione, ancora
di ordine epistemologico, che e' quella del rapporto tra chi conosce e chi
e' conosciuto, tra soggetto e oggetto della conoscenza, alla quale vorrei
accennare brevemente.
Buona parte delle analisi fin qui svolte per studiare il fenomeno mafia, e i
modelli che da esse se ne possono dedurre, non sfuggono ad uno schema
conoscitivo in cui osservatore e fenomeno osservato sono posti su piani
nettamente separati: noi (cittadini impegnati, studiosi, intellettuali,
politici, preti, insegnanti) e loro ("cosa nostra", la "cultura mafiosa", le
"donne della mafia", i mafiosi...).
Ma e' proprio la scelta di campo nonviolenta che abbiamo fatto all'inizio
del nostro discorso che ci porta a ricercare un metodo scientifico che
preveda che il soggetto che conosce faccia parte di un sistema che comprende
l'oggetto-soggetto da conoscere.
Come ricercatori dovremo quindi cercare di collocarci in una postazione
interna cercando di specificare le azioni individuali e collettive che
possono contribuire all'evoluzione del sistema stesso.
Va qui ricordata un'altra felice intuizione di Falcone: "Gli uomini d'onore
non sono ne' diabolici ne' schizofrenici. Non ucciderebbero padre e madre
per qualche grammo di eroina. Sono uomini come noi. La tendenza del mondo
occidentale, europeo in particolare, e' quella di esorcizzare il male
proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dal
nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo
trasformarla in un mostro ne' pensare che sia una piovra o un cancro.
Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia" (15).
Adottato un approccio sistemico e' infatti importante osservare e tenere ben
presente i modelli che gli altri soggetti che noi includiamo nel sistema
cosi' costruito adottano (consapevolmente, ma piu' spesso
inconsapevolmente).
Sara' interessante verificare quanto il modello adottato dal ricercatore
differisca da quello adottato per esempio (implicitamente) dagli abitanti di
un paese o di un quartiere metropolitano o dal familiare di una vittima di
mafia.
Infine si dovra' verificare se il modello e' ritenuto (dal ricercatore e
dagli altri soggetti del sistema) oltre che utile a rappresentare la realta'
esistente, anche desiderabile, giusto.
Si puo' infatti non essere appartenenti a Cosa Nostra e tuttavia svolgere
ruoli insostituibili per la sopravvivenza del sistema mafioso. Si puo'
credere inoltre, in buona fede, di essere su posizioni contrarie alla mafia,
e sostenerla con comportamenti apparentemente estranei ad essa. Ed infine,
tragicamente, si puo' ritenere che il sistema mafioso sia l'unica e
immutabile realta' in cui si gioca la nostra esistenza. E quando ci
riferiamo a questa rappresentazione non dobbiamo pensare soltanto a persone
culturalmente deprivate, ma a quanti piu' o meno ingenuamente pensano che
"con la mafia bisogna convivere".
*
4. Come puo' evolvere il nostro sistema sociale?
"Il mondo sociale e' oggettivo perche' si presenta all'uomo come qualcosa di
esterno a lui. La questione decisiva e' se egli conservi o no la
consapevolezza del fatto che, per quanto oggettivato, il mondo e' opera sua
e puo' quindi essere modificato da lui" (P. Berger e T. Luckmann, La realta'
come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969).
Il sistema sociale mafioso non e' la realta'. Esso puo' diventare la nostra
realta', nella misura in cui la maggior parte delle sue componenti lo adotta
come lettura del mondo. Ecco perche' il consenso e', assieme al governo del
sistema, una dimensione centrale del nostro quadro teorico di riferimento.
Il consenso sociale a un sistema, infatti, e' anche l'indicatore concreto
dell'adesione piu' o meno consapevole a una lettura del mondo.
Ma, sotto un altro angolo visuale, cio' che rende dinamico un sistema, cio'
che realmente ne puo' minare le fondamenta, e' la coscienza che i suoi
componenti hanno delle potenzialita' di cambiamento, del fatto che un altro
sistema puo' esistere.
Questo e' un punto cruciale per tutta la nostra riflessione. Lo e' anche per
il fatto che ci troviamo in una zona di confine tra sfere diverse del sapere
e dell'esistenza: sociologia, psicologia, scienze dell'educazione, etica,
spiritualita'. Ma per andare avanti, per evolvere e non pensare pensieri
gia' pensati, dobbiamo attraversare, sconfinare i nostri steccati
disciplinari, ripromettendoci di rintracciare successivamente qualche
sentiero piu' familiare.
Semplificando al massimo una questione di grandissimo spessore, penso che la
domanda che tutti dobbiamo porci onestamente, anche da un punto di vista
scientifico, e' la seguente: puo' una cultura (o una sottocultura)
trasmettersi fino al punto da plagiare gli individui, fino al punto da
renderli incapaci di pensare che la cultura stessa possa essere modificata?
Una risposta affermativa a questa domanda e' gravida di importantissime
conseguenze sia sul piano scientifico, sia sul piano della prassi per le
azioni tendenti a superare il sistema mafioso.
Provo ad elencarne qualcuna:
1. Essere incapaci di pensare una realta' (per noi gia' esistente o
desiderabile) significa essere incapaci di porre in essere comportamenti
conseguenti.
2. Ma essere incapaci di pensare una realta' non significa tuttavia che non
si possa passare da uno stato di incapacita' ad uno di capacita'.
3. Le scienze umane in genere ci hanno abituato a leggere i comportamenti e
la storia dell'uomo insieme come condizionati e condizionanti; sia il mondo
interno che il mondo esterno all'individuo influenzano il suo comportamento;
studiare quindi il comportamento umano con metodo scientifico significa
riconoscerne, almeno in parte, il carattere condizionato.
4. Ma svelare la natura di questi vari condizionamenti, comprenderne almeno
in parte il funzionamento, puo' favorire processi di liberazione, capaci
cioe' di fare acquisire nuove capacita' di pensiero (o capacita' di nuovi
pensieri) uscendo da quella visione statica e gattopardesca della realta'
nella quale ci siamo sentiti tante volte ingabbiati.
5. In questa prospettiva le scienze umane potrebbero accompagnare
l'evoluzione dell'uomo, come singolo e come societa', in un processo a
spirale infinito dove l'acquisizione di consapevolezza di una schiavitu' ci
porta ad avere elementi per scoprirne di nuove, in un cammino verso quella
"realta' liberata" di cui parlava Aldo Capitini.
6. Dal punto di vista nonviolento, per il quale, come abbiamo visto, e'
fondamentale indirizzarsi alla coscienza del singolo, e' d'altra parte
fondamentale lavorare per ridurre tutti i possibili fattori che assopiscono
questo potenziale umano. Ogni scienza che si propone questo fine puo' dirsi
nonviolenta.
7. Possiamo quindi pensare ad una pedagogia nonviolenta. Il che e' quasi una
tautologia, dal momento che Gandhi affermava che la nonviolenza e'
educazione. Una pedagogia nonviolenta deve pertanto interrogarsi su come
toccare la coscienza del nostro prossimo. Ci accorgeremo presto che il
problema e' comunicare, far si' che il messaggio di chi percepisce un limite
raggiunga l'altro, in qualche misura lo arricchisca (tocchi tutto il suo
essere) consentendogli, a sua volta, di comunicare qualcosa in grado di
arricchire l'umanita'. Ma e' solo a partire dalla intelligibilita' dei
contenuti - che inevitabilmente si richiamano ad una visione del mondo che
li rende plausibili - che si puo' avere vera comunicazione e non mera
trasmissione di messaggi, come ci ha insegnato Danilo Dolci. Detto in altri
termini, non e' assolutamente scontato che una proposta diventi
intelligibile a misura della chiarezza della sua formulazione logica.
8. Ora, nel nostro caso particolare, se l'altro appartiene ad
un'organizzazione mafiosa o ne assume la struttura di pensiero, di fatto
adotta come codice generale di plausibilita' una immagine del mondo che,
come abbiamo visto, non concepisce un sistema sociale diverso dal sistema
sociale mafioso.
Per affrontare questo problema, un gruppo di psicologi (16), da alcuni anni
ha individuato, come particolare oggetto di studio, le modalita' di pensiero
nei contesti di mafia.
I. Fiore ha sistematizzato in un testo organico queste riflessioni. Egli
parte da una particolare definizione della fenomenologia mafiosa da lui
definita come "la manifestazione di processi mentali i quali si rendono
visibili sotto forma di comportamenti che hanno conseguenze sociali,
politiche, economiche, ecc." (17).
La scuola gruppo-analitica ha rielaborato il concetto di cultura,
utilizzando una nuova categoria, quella di "transpersonale"; questo concetto
comprende i dati culturali della famiglia, dell'etnia, della specie umana
nella sua interezza.
Secondo la ricerca di Fiore, la famiglia mafiosa si fa trasmettitore di un
particolare modo di pensare, che viene definito "pensare mafioso", derivante
con tutta probabilita' da alcuni "dati" della cultura siciliana, in
particolare dal "sentimento dell'attesa" e dalla "insicurezza" che hanno
pesato e pesano nella storia della Sicilia.
Il "pensare mafioso" origina quindi dal tema dell'insicurezza. Questo dato
viene trasmesso in modo cosi' pervasivo da generare nell'individuo un
inconscio bisogno di rassicurazione che viene ricercata nella famiglia e in
quelle organizzazioni che inconsciamente sono create o ricondotte a svolgere
la funzione di appagamento di questo bisogno. Il pensare mafioso attribuisce
quindi all'istituzione familiare il significato di solo "noi" possibile e
pertanto, per evitare il disagio di relazionarsi con un noi sconosciuto che
non ha lo stesso significato rassicurante del "noi" familiare, si e' portati
a cercare o creare strutture organizzative che assomigliano a quella
familiare.
E la cultura organizzativa di "Cosa Nostra" risponde (o puo' rispondere
anche) a un bisogno di questo tipo.
Le riflessioni dei gruppo-analisti palermitani evidenziano efficacemente la
complessita' del fenomeno e mettono in luce le difficolta' legate alla
comunicazione interna al sistema sociale mafioso. Tutto cio' puo' aiutare a
capire se e come e' possibile rintracciare, in questa situazione, l'uomo e
la sua coscienza (18).
*
5. Orientamenti per la ricerca
Come penso sia a questo punto abbastanza chiaro, personalmente non credo
all'approccio "culturalista", piu' di quanto non creda a quello
"economicista", o a quello "criminologico", nella misura in cui essi si
propongono in maniera univoca e reciprocamente escludente.
Ed e' proprio a partire dall'impostazione nonviolenta che abbiamo cercato di
approfondire all'inizio, che e' importante dar voce a tutte le metodologie
che sfidano la separatezza del mondo criminale dal nostro mondo, che si
pongono nella sfera dell'intendere e dell'intendersi, della comprensione
oltre che della spiegazione: non e' un caso il fatto che alcuni magistrati
abbiano iniziato a collaborare con alcuni psicologi e che un sociologo, con
la collaborazione di alcuni magistrati, abbia potuto raccogliere, tramite
interviste svoltesi nell'arco di due anni, la storia di vita di Antonio
Saia, personaggio di spicco del "clan dei catanesi", attualmente detenuto
(19).
Ho parlato, sopra, di come troppo rapidamente si siano delegate al sistema
politico-amministrativo funzioni di cambiamento/riproduzione sociale che
debordano il suo ruolo che attiene piu' specificamente al governo e al
controllo. Oggi tuttavia molti apparati istituzionali vengono sempre piu'
sollecitati per l'assunzione di funzioni non tradizionalmente loro
assegnate. Basti pensare al ruolo della magistratura, che in una sorta di
deleghe a imbuto resta il soggetto istituzionale piu' investito di
responsabilita' e non solo per quanto riguarda la questione mafia. Ma sotto
questo aspetto particolare, in relazione alla cosiddetta "legislazione
premiale", "il lavoro giudiziario, gia' difficile nel campo del sistema
penale, si complica sempre di piu' perche' impegna a riscontri delicati di
prove materiali, ma obbliga nello stesso tempo quasi inconsapevolmente a
giudizi che investono non le azioni, ma la personalita' e l'identita' del
reo".
Anche queste sono zone di confine.
Azione istituzionale, conoscenza, etica, prassi per il cambiamento sociale
sono ambiti che in questo momento non possono ignorarsi a vicenda.
In ambito scientifico bisognera' prima o poi convincersi che le divisioni
disciplinari sono steccati transitori e lo sono tanto piu' per le discipline
a cui e' richiesto un ruolo attivo nella gestione dei problemi sociali.
Da Umberto Santino raccolgo quindi l'invito alla adozione di un paradigma
della complessita' (20), che per la verita' io derivo - nell'ambito della
mia tradizione disciplinare - dal sociologo francese Edgar Morin (21). A
tale autore si deve un contributo epistemologico molto ambizioso, molto piu'
che un "approccio interdisciplinare". Cio' che lo caratterizza e' l'intento
di concepire tutti gli "oggetti", anche quelli del mondo fisico, nella loro
relazione con un soggetto conoscente, a sua volta radicato in una cultura,
una societa', una storia. Tale approccio e' a mio avviso una vera e propria
rivoluzione scientifica nel campo delle scienze sociali, in quanto segna un
decisivo distacco dal paradigma della causalita' lineare e della
differenziazione soggetto-oggetto, proprio degli schemi della scienza
classica.
Un impianto di questo tipo dovrebbe condurre non tanto alla ricerca di uno
schema onnicomprensivo, ma all'adozione contemporanea di piu' paradigmi che
ci faranno avvicinare alla realta' come a un prisma a piu' facce, che
necessita di piu' angoli visuali di comprensione.
*
6. Orientamenti per i percorsi di superamento: quale evoluzione nonviolenta?
"'Ma come ha fatto a perdonare, di fronte a un dolore cosi' grande?'. Lo
chiedo a una giovane vedova il cui marito e' stato ucciso in uno scontro tra
bande rivali. Alla domanda, il volto della donna si fa pensoso per il
ricordo ancora bruciante. Ma poi si apre al sorriso: 'Attraverso tanta
preghiera e il sostegno di un gruppo ecclesiale'" (testimonianza di Mons.
Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri (22)).
Ricerca della dimensione conflittuale dei problemi e costruzione di
un'alternativa praticabile in piccola scala (vedi il gandhiano "programma
costruttivo") sono due caposaldi del metodo nonviolento.
Per quanto riguarda il primo punto, dopo avere assunto, come lettura
dell'esistente, il modello di sistema sociale mafioso, il primo passo da
compiere e' quindi quello di ricercare i conflitti latenti e manifesti
dentro questo sistema, in quanto il conflitto, in un'ottica nonviolenta, e'
il luogo principe in cui si matura, si evolve, si manifesta la natura
positiva dell'uomo e della fondamentale unita' del genere umano.
Per comprendere questa unitarieta' e continuita', dice bene Galtung (23),
dobbiamo cambiare lo schema mentale secondo il quale parliamo di "parti in
conflitto" e che ci fa credere che esistano due parti quando in realta' ce
n'e' una sola. Dobbiamo pensare al conflitto come al disturbo di una
relazione di un unico organismo.
La nostra ricerca deve ora consistere nell'individuazione di sottocampi su
cui e' pensabile impostare delle azioni nonviolente di risoluzione.
A tal fine ho individuato alcune situazioni conflittuali, che, al momento,
sono da considerare un'esemplificazione piu' che una ricerca analitica dei
possibili campi di intervento:
- l'estorsione (estorti-estorsori, tentativi di costruzione di nuova
imprenditoria-dissuasioni da parte del racket e della burocrazia locale);
- i pentiti (pentiti-familiari, mafiosi pentiti-mafiosi non pentiti).
- La dissociazione di aree di "contiguita' affettiva" (familiari di
mafiosi-mafiosi-organizzazione mafiosa);
- parenti di vittime di mafia-mafiosi-forze dello stato (24);
- funzionari dello stato (funzionari onesti-funzionari collusi-politici
mafiosi).
Le situazioni individuate che, ripeto, non sono certamente esaustive, non
costituiscono, a prima vista, ambiti su cui fondare interventi sociali di
vasto raggio che abbiano immediate conseguenze sul piano strutturale. Cio'
puo' certamente derivare da un obiettivo limite di analisi e di prospettiva,
cosi' come dalla specificita' dell'approccio nonviolento che ho fin qui
cercato di delineare. Esso, come ho cercato di evidenziare, e' un approccio
che puo' dare un contributo notevole alla prassi di superamento del sistema
mafioso, ma deve certamente intersecarsi con altri approcci e altre culture.
L'individuazione di ambiti conflittuali che coinvolgono la soggettivita'
degli attori coinvolti riflette d'altra parte un mio personale convincimento
sulla forza dirompente che i processi di reale riconciliazione e di
"conversione" possono assumere, anche sul piano sociale.
Lavorare su questi piani prepara inoltre il terreno per quella stagione
storica, da tutti auspicata, in cui le organizzazioni mafiose non
esisteranno piu', o comunque non ci domineranno piu' come in questo momento.
Bisogna pensare che in quel momento le persone che a vari livelli avevano
condiviso i codici culturali mafiosi, continueranno a far parte della nostra
comunita' sociale e il loro coinvolgimento attivo nella fase di
ricostruzione sara' prezioso per un avanzamento reale, senza rischi di
involuzioni.
Volgendomi alla conclusione di questo saggio, vorrei dire che esso e' in
realta' un invito a riprendere un percorso di approfondimento, di studio, di
sperimentazione sociale. C'e' da dire che tale percorso aveva preso inizio
alcuni anni fa: personalmente l'ho visto nascere prendendo parte a due
convegni organizzati da Pax Christi, Edizioni La Meridiana e Osservatorio
Meridionale: Mafia e nonviolenza, Castellammare di Stabia, 1992; e Non piu'
complici, Molfetta, 1994 (25). Ho visto progressivamente scemare
l'attenzione su questa ricerca. Da allora, che a me risulti, nessuno ha piu'
tentato di accostare la nonviolenza alle problematiche mafiose, almeno dal
punto di vista teorico. Sul piano dell'impegno civile alcuni dei soggetti
che allora avevano iniziato tale riflessione si sono ben presto indirizzati
verso l'approccio della "educazione alla legalita'". Approccio che ritengo
meno fecondo per alcuni limiti di fondo che accenno schematicamente,
ripromettendomi di ritornare successivamente sull'argomento.
- Nell'ottica della nonviolenza: l'educazione al rispetto delle leggi giuste
e allo Stato va di pari passo con l'educazione all'obiezione agli Stati e
alle leggi ritenute in coscienza ingiusti.
- Dal punto di vista antropologico e psicologico: il registro
dell'educazione alla legalita' appare inadeguato a raggiungere
pedagogicamente i soggetti inseriti (con vari livelli di consenso) nel
sistema mafioso.
Queste riflessioni suggeriscono, allora, alcune piste che andrebbero
approfondite e sperimentate. Mi chiedo:
- Nella pedagogia di superamento della cultura mafiosa e' opportuno
riferirsi alla legalita' (che richiama alle leggi) o a valori come la
giustizia, la solidarieta', l'onore, il dono, la stessa famiglia? Alcuni di
questi valori sono propri della cultura meridionale e per troppo tempo sono
stati considerati, con scarsi fondamenti scientifici, come determinanti
della cultura mafiosa. Questi stessi valori potrebbero invece essere
fondanti di una cultura alternativa (26)?
- E' possibile pensare e sperimentare luoghi collettivi intermedi collocati
tra la famiglia e lo Stato, per ricostruire delle identita' individuali e di
gruppo evitando quel salto forse troppo lungo tra il noi-famiglia e il
noi-stato?
- E' possibile pensare percorsi di fuoriuscita dalla cultura mafiosa che
possano essere compresi e sperimentati dai soggetti coinvolti, percorsi che
assumano senso nelle esperienze individuali, che tengano conto dei legami
affettivi e relazionali intrinseci alla cultura acquisita nel processo di
socializzazione (27)? E' possibile individuare percorsi che possano
diventare esemplari anche per chi e' ancora in posizione di adesione o di
contiguita' alla mafia? Che possano far toccare con mano la possibilita' di
una fuoriuscita che non sia una casa blindata, il cambio di nome,
l'inserimento in un contesto totalmente diverso da quello di provenienza? Mi
chiedo, infine, a tal proposito: se Rita Atria (28), oltre che su Paolo
Borsellino, avesse potuto contare sul sostegno, anche a distanza, di un
gruppo o di una comunita' (qualcosa che piu' completamente potesse
"somigliare" ad una famiglia) avrebbe deciso ugualmente di uccidersi?
*
Note
1 Cosi', gia' nel 1992, G. Minervini, in un inserto della rivista "Rocca"
dedicato alla mafia, si domandava come mai la riflessione e la pratica della
nonviolenza fossero state rivolte in Italia unicamente al superamento del
militarismo e non fosse presente un supporto nonviolento all'elaborazione e
alla pratica della lotta alla mafia (cfr. Minervini, Mafia: le radici, la
struttura, le connivenze, il modello di sviluppo, le possibili risposte, in
"Rocca",  n. 6, 15 marzo 1992).
2 E' questa l'accezione data da Alberto L'Abate che mi sentirei di
modificare alla luce della riflessioni fin qui svolte. Cfr. A. L'Abate,
Consenso, conflitto, mutamento sociale, Angeli,  Milano 1990.
3 Su questo tema rimando ad un mio precedente articolo: cfr. V. Sanfilippo,
Il pentimento nel pensiero nonviolento, in "Segno", anno XIX, n. 145-146,
1993, pp.21-34.
4 L'ipotesi  definitoria,  formulata all'interno del progetto "Mafia e
societa'", e' tratta da: U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi,
stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, p. 129.
5. G. Falcone e M.Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991.
Giovanni Falcone ha saputo coniugare la sua competenza investigativa con un
intuito antropologico che certamente gli ha consentito una conoscenza
profonda e non solamente giudiziaria dell'universo mafioso. Egli inoltre
nello stesso libro fa trasparire una sensibilita' e uno stile di
comprensione che lo avvicinano non poco al pensiero nonviolento.
6. Il riferimento alla "teoria dei sistemi" ha diverse ascendenze teoriche a
seconda dell'ambito disciplinare a cui si fa riferimento. Fabio Armao, il
cui contributo sara' analizzato piu' avanti, si riferisce, ad esempio, al
modello di D. Easton in scienza politica. In sociologia il maggiore
esponente dell'approccio sistemico e' Luhmann, che ha fondato una vera e
propria teoria sociologica dell'evoluzione sociale. Il riferimento
all'approccio sistemico e' qui limitato all'uso di alcuni strumenti
operativo-concettuali (sistema, ambiente, funzione, riduzione di
complessita') atti a circoscrivere e rappresentare il fenomeno sociale che
stiamo studiando e non presuppone un'adesione al complesso impianto
teorico-epistemologico del sociologo tedesco (cfr. Luhmann, Sistemi sociali,
Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990).
7. F. Armao, Il sistema mafia. Dall'economia-mondo al dominio locale,
Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
8. Ibidem, p. 23.
9. Cio' non significa che considerare il sistema sociale ambiente del
sistema mafioso (che nella teoria dei sistemi equivale a rappresentare al
contempo il modello opposto in cui il sistema mafia e' ambiente del sistema
sociale) non abbia indubbie potenzialita' euristiche. I sistemi infatti si
strutturano al loro interno in ragione della complessita' dell'ambiente,
creando complessita' per riduzione di complessita'. Lascio aperta tale
questione a ulteriori contributi.
10. Un'analisi di tali tendenze esula dal presente lavoro, anche se andrebbe
condotta in parallelo con l'analisi del fenomeno mafioso. Oltre al classico
J. Habermas, La crisi della razionalita' nel capitalismo maturo, Laterza,
Roma-Bari 1976. Dal punto delle scienze giuridiche, il nuovo assetto dei
poteri ultrastatali e dei rapporti tra stato, societa' ed economia e' stato
recentemente studiato da Sabino Cassese (cfr. S. Cassese, La crisi dello
Stato, Laterza, Roma-Bari 2002).
11. Cosi', ad esempio, una prima riflessione di Piero Fantozzi (cfr. Piero
Fantozzi, La nonviolenza marginale, in AA. VV., Un nome che cambia. La
nonviolenza nella societa' civile, La meridiana, Molfetta 1989, pp. 21-31)
che a mio avviso e' stata superata da successivi interventi dello stesso
autore, analizzati appresso.
12. Cfr. G. Minervini, P. Cipriani, P. Fantozzi, Per una strategia di lotta
alla criminalita' mafiosa, in Osservatorio Meridionale (a cura di), Mafie e
nonviolenza. Materiali di lavoro, Edizioni La meridiana, Molfetta 1993, pp.
9-27; e P. Fantozzi, Appartenenza clientelare e appartenenza mafiosa. Le
categorie delle scienze sociali e la logica della modernita' meridionale, in
"Meridiana", n. 7-8, 1990.
13. Tale dibattito recentemente ha avuto eco nelle pagine palermitane del
quotidiano "La repubblica", a seguito di un lungo articolo del  professor
Giovanni Fiandaca. Cfr. G. Fiandaca, Cosa nostra sulla via del declino? in
"La repubblica/Palermo", 23 luglio 2002; U. Santino, Cosa Nostra: nessun
atto di fede, in "La repubblica/Palermo", 6 luglio 2002; M. Centorrino,
L'economia di Cosa Nostra, in "La repubblica/Palermo", 28  luglio 2002; A.
Dino, Cosa Nostra: le radici di un sistema, in: "La repubblica/Palermo", 31
luglio 2002; G. Ferro, Cosa Nostra e la svolta finanziaria, in "La
repubblica/Palermo", primo agosto 2002; S. Lupo, La mafia ama la modernita',
in "La Repubblica/Palermo", 4 agosto 2002;  L. Tescaroli, Dubitare di Cosa
Nostra e' rischioso, in "La Repubblica/Palermo", 6 agosto 2002; G. Lumia,
Cosa Nostra nel territorio globale, "La repubblica/Palermo", 7 agosto 2002;
G. Fiandaca, Un punto di vista laico per battere la mafia, in "La
repubblica/Palermo", 11 agosto 2002.
14. G. Falcone e M. Padovani, Cose di cosa nostra, cit., p. 104.
15. G. Falcone e  M. Padovani, Cose di cosa nostra, cit., p. 82.
16. Si tratta di un gruppo di psicologi afferenti al "Laboratorio di
gruppoanalisi"  di Palermo. Cfr. F. Di Maria (a cura di), Il segreto e il
dogma. Percorsi per capire la comunita' mafiosa, Angeli,  Milano 1998;  G.
Lo Verso, La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un
fondamentalismo, Angeli, Milano,1998 ; G. Lo Verso, G. Lo Coco, S.
Mistretta, G. Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e
psicoterapeutiche in un paese che cambia, Angeli, Milano, 1999.
17. Ibid., p. 77. Ecco un'altra definizione di mafia che possiamo, adottando
un paradigma complesso, assumere contemporaneamente a quella di Santino
senza che questa scardini il nostro impianto di ricerca.
18. Sotto questo aspetto non condivido ne' la perplessita' ne' i rischi di
intralcio investigativo paventati da G. Fiandaca, nell'utilizzo delle
discipline psicologiche (cfr. G. Fiandaca, E' plausibile una teoria generale
delle mafie?, in "Nuove Effemeridi", anno XIII, n. 50, 2000/II, pp. 13-30, e
G. Fiandaca, Cosa nostra sulla via del declino?, cit.).
19. Cfr. A. Cottino, Vita da clan. Un collaboratore di giustizia si
racconta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998.
20. Cfr. U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi,
cit.
21. E. Morin, Scienza con coscienza, Angeli, Milano 1982.
22. Cfr. G. Bregantini, Storie di mafia e di perdono, in "Messaggero di
sant'Antonio", n. 4, 2000, p. 51.
23. J. Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987.
24. Sul terzo e quarto punto ho cercato in passato di analizzare alcune
situazioni concrete: cfr. V. Sanfilippo, Il pentimento nel pensiero
nonviolento, cit.
25. Con un certo rammarico ho letto l'inserto "Dieci anni di attivita'
antimafia" nel n. 7/2002 della rivista "Mosaico di pace": ebbene, la parola
nonviolenza, nonostante l'attenzione di quegli anni, non vi compare nemmeno
una volta.
26. Cfr. ad esempio, M. Alcaro, Sull'identita' meridionale,  Bollati
Boringhieri, Torino 1999.
27. Per chi ha un retroterra culturale di tipo religioso, o comunque una
sensibilita' spirituale, un'esperienza che ho in mente e che potrebbe
proporsi, laddove ve siano le condizioni, e' quella che va sotto il nome di
"guarigione interiore". Tale metodologia elaborata e praticata nel movimento
dell'Arca e' stata  messa a punto da Joe Pironnet ed e' proposta in Italia
da Giampiero e Patrizia Zendali. In tale esperienza le ferite, anche le piu'
profonde, della vita personale di ciascun partecipante al gruppo, sono
rilette alla luce dei testi biblici, riscoprendo cosi' un senso e una
prospettiva alla dimensione della sofferenza personale. In tali gruppi i
conduttori tengono conto di alcuni elementi psicologici, ma non si pongono
mai come terapeuti, quanto piuttosto come accompagnatori spirituali; il
patto esplicito di discrezionalita' che viene richiesto ai partecipanti a
questi gruppi fa si' che il gruppo stesso, che non dibatte, ma  ascolta,
puo' diventare il veicolo per una presa di consapevolezza personale e
collettiva. Per una trattazione dei fondamenti e del metodo della
"guarigione interiore" cfr. i seguenti articoli di J. Pyronnet tradotti sul
bollettino italiano del movimento dell'Arca: L'eucaristia atto nonviolento
fondamentale, in "Arca Notizie", n. 1 ,1995; Le violenze interiori i miei
conflitti senza soluzione come gestirli?, in  "Arca Notizie" , n. 2, 1995;
La rosa e il letame, in "Arca Notizie", n. 3, 1995; Convertire e non
reprimere il mio desiderio, in "Arca Notizie", n. 4, 1995; Di fronte alle
mie violenze, in "Arca Notizie", n. 2, 1996; Una rilettura della bibbia
ispirata da Gandhi, in "Arca Notizie", n. 1, 1999.
28. Rita Atria, una ragazza di Partanna (Tp) figlia di un uomo di mafia, muo
re suicida a 17 anni una settimana dopo l'assassinio del giudice Paolo
Borsellino, con il quale aveva cominciato a collaborare, iniziando un
difficile percorso di autoriflessione e di distanziamento dalla cultura
della famiglia di origine. Cfr. S. Rizza, Una ragazza contro la mafia, La
Luna, Palermo 1993.

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

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Numero 674 del 15 settembre 2003