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[FILM] Jenin, Jenin
questo è un altro pezzo del dossier, un mio pezzo sul documentario "jenin
jenin".
ciao
alessandra
DOSSIER
JENIN:
QUELLO CHE IL MONDO
DEVE SAPERE
ALESSANDRA GARUSI
Jenin Jenin, il documentario del regista arabo-israeliano Mohammad Bakri,
viene proiettato informalmente in tutta Italia. Noi l'abbiamo visto al 13°
Festival del cinema africano di Milano, dove è sbarcato dopo aver stravinto
il Festival di Cartagine. Inutile dire che Israele l'ha censurato e che
nessuna tv del mondo arabo, a parte la libanese Future, l'ha acquistato.
"Come faranno mai gli israeliani a rimediare a tutto questo?" Si chiede un
giovane palestinese, mentre si aggira fra le rovine del campo profughi di
Jenin (Cisgiordania), teatro di un intervento militare israeliano senza
precedenti che si è protratto per undici giorni - dal 2 al 19 aprile 2002 -
e ha lasciato almeno 600 morti sul campo (ma nessuna commissione d'inchiesta
nazionale o internazionale è stata mai autorizzata). "Ci ammazzano i figli e
noi ne facciamo altri: c'è sempre un modo per porre rimedio.. Sono loro i
perdenti, davvero". Chi parla, è uno dei protagonisti del documentario Jenin
Jenin di Mohammad Bakri, cineasta palestinese con passaporto israeliano. Lo
abbiamo visto al 13° Festival del cinema africano di Milano, nella versione
integrale di 54 minuti: cioè compresa la testimonianza della dodicenne -
istigata fin da piccola alla vendetta, forse obbligata a diventare in un
futuro non lontano una kamikaze - censurata dalla tv franco-tedesca Arté (l'
unica in Europa ad averlo acquistato).
Informalmente, quest'opera sta però girando l'Italia fra proiezioni negli
oratori e serate organizzate da associazioni varie, mentre i canali
televisivi pubblici hanno poco professionalmente declinato l'invito.
Poco importa. L'autore - nato nel '53 ad al-Bina, in Galilea, sposato con
cinque figli - è quasi abituato alla censura: il suo documentario d'esordio,
nel 1995, col digitale 1948 (53'), sulla Nakba, la "catastrofe palestinese",
non è mai stato mostrato in tv; eppure in tantissimi l'hanno visto.
Sulla stessa scia, Jenin Jenin è stato censurato in Israele; nessuna tv del
mondo arabo, a parte la libanese Future, l'ha comprato; ciò nonostante il
film ha vinto il festival di Cartagine 2003. Un grande riconoscimento per un
regista che è stato addirittura arrestato, assieme a sei membri della sua
famiglia - nel villaggio di Bina in Galilea, dove essi vivono - con l'accusa
di aver collaborato nella preparazione e nell'esecuzione di un attentato
kamikaze contro un bus israeliano (come ha scritto su Ha'aretz del 27 agosto
il giornalista Uri Ash). Tanto per intimidire ogni possibile dissenso.
Questa battente campagna denigratoria, in patria, ha al contrario
contribuito a pubblicizzarlo ovunque.
È un film di parte ("one side movie", dice infatti il sottotitolo),
obiettano alcuni. Ma finché le risoluzioni delle Nazioni Unite riguardo al
Medio Oriente - ovvero la 242 del 22 novembre 1967, la 338 del 22 ottobre
1973, la 1397 del 12 marzo 2002, la 1402 del 30 marzo 2002 - e i principi di
Madrid non saranno rispettati dal governo israeliano, forse non è possibile
fare diversamente. Jenin Jenin va comunque visto. Perché aiuta a capire.
UN FILM SULLA SOFFERENZA UMANA
Il procedimento è quello tipico dei documentaristi: dare la parola ai
testimoni, in questo caso a chi, in cinque minuti d'inferno, ha perso ciò
che aveva costruito in quarant'anni, e lascia dietro di sé giovani, la cui
sola "cultura" è un mix di guerra, violenza e vendetta senza fine. "Dopo
quello che ho vissuto, che senso posso dare alla mia vita?" Si chiede la
ragazzina dodicenne, ripresa in campo lungo, mentre sale su macerie all'
inizio, da cui discenderà solo alla fine del video.
A una prima visione, forse, sfugge l'enorme lavoro di montaggio, durato
circa tre mesi, negli studi della tv satellitare Orbit di Roma; eppure è
notevole. Gli argomenti che vengono via via montati in modo che il concetto
espresso da un testimone venga ripreso e ampliato dalla testimonianza
proposta subito dopo. Ne risulta un effetto corale di prim'ordine. Dove
ciascuno trae dall'altro la forza di rilanciare, passando da un proclama a
un ricordo, da un martire a un sarcasmo. Fino all'immagine dell'anziano di
spalle che dichiara: "Resteremo qui fino al giorno del giudizio". Una
solenne promessa condivisa dal giovane che incarna il pensiero medio come
dal primario dell'ospedale.
Dunque il racconto è fatto di frammenti in movimento, come quelli che
compongono la casa distrutta e i pezzi di ricordi, elencati uno ad uno (il
letto dove è morto un vecchio padre, il fico di 52 anni.), tracce perdute
che il video non può mostrare. Questo è un film fatto di grandi assenze:
Bakri ha potuto infatti raggiungere Jenin solo a massacro avvenuto, il 26
aprile 2002, giorno in cui l'Esercito ha lasciato il campo. Ci è rimasto
cinque giorni, ritornando solo un'altra volta per alcune rifiniture
fotografiche. Ma è stato sufficiente: scheggia su scheggia si ricostruisce
una storia, un'unità fatta di rovine. E di dolore. È questo che il suo
autore vuole sviscerare in tutte le sue infinite variazioni. Ne risulta
dunque un film sulla sofferenza umana: "su un'anima ferita, un cuore
spezzato, un albero sradicato, una casa demolita, un fiore spezzato.".
È un dolore così forte, che non ha quasi bisogno di parole. Il primo,
sorprendente testimone è un muto. Ma nessuno meglio di lui sarebbe capace di
mimare efficacemente gli eventi, a cui ha assistito. I fatti sono talmente
enormi che, appunto, non serve una dialettica particolare. Quindici secondi
serratissimi racchiudono tutto: gli agguati, gli scontri, le barricare, le
esecuzioni. Al primo piano, che puzza di morte e ha perso l'uso del
linguaggio, si contrappone un secondo piano più vitale. La città continua a
respirare: i vagiti, i canti, i rumori, le ombre raccontano di una comunità
che è stata colpita al cuore, ma non è umanamente degradata. Ricomincia
sempre da capo. E, soprattutto, non si arrende.
RESISTERE, NONOSTANTE TUTTO
Questa stupefacente capacità di resistenza viene sbattuta in faccia al gover
no di Ariel Sharon (ma non al popolo israeliano) e anche ai paesi arabi,
"dai quali ogni venerdì - si dice nel film - aspettavamo una manifestazione
in nostro favore (che stupidi che siamo stati.)". E ciò spiega come mai
nessun tv araba, a parte la libanese Future, l'abbia comprato.
Se il maggior parte del mondo arabo ha scelto per opportunismo di non
intervenire, le Nazioni Unite vi sono state costrette. Era il 18 aprile
quando Terje Roed-Larsen, inviato dell'Onu per il Medio Oriente, accusò le
forze armate israeliane di avere impiegato mezzi "moralmente ripugnanti"
contro la cittadinanza di Jenin. Il mondo aveva appena saputo della
distruzione di metà del campo profughi, avvenuta nel corso di una delle più
violente offensive della campagna "Muraglia di difesa", cominciata il 29
marzo, e che aveva portato alla rioccupazione delle aree autonome
palestinesi, eccetto Gerico.
"È un capitolo triste e vergognoso della storia dello Stato di Israele",
aveva commentato Larsen ai microfoni della radio israeliana. "Non è solo
quello che si vede", aggiunse. "Sono gli odori dei corpi in stato di
decomposizione, che si avvertono ovunque. È moralmente ripugnante che le
autorità israeliane, per ben 11 giorni, abbiano negato l'accesso alla città
alle organizzazioni umanitarie in grado di soccorrere i civili". Quella dell
'invitato dell'Onu fu una delle voci più critiche dell'offensiva militare
israeliana. E l'ufficio del primo ministro Sharon non tardò a bollarlo come
una persona "non grata", cui seguì il (prevedibile) rifiuto da parte dello
Stato ebraico di accogliere una missione di conoscenza - nemmeno d'
nchiesta - che il Palazzo di Vetro avrebbe voluto mandare.
L'ultima scena di film è appunto sull'America e sull'Onu. Un uomo fa finta
di parlare al cellulare (in realtà, ha in mano una ciabatta di plastica) con
George Bush, al quale chiede di farsi passare con Kofi Annan. Gli domanda
come mai il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia bocciato la
proposta di una Commissione di inchiesta sull'attacco israeliano al campo
profughi di Jenin? È stato in seguito a pressioni americane e israeliane? La
comunicazione, improvvisamente, si interrompe. L'uomo dice che la scheda
telefonica è finita. Gli uomini attorno a lui ridono, lui anche.
ALESSANDRA GARUSI
IL PRODUTTORE ASSASSINATO
Iyad Samoudi, il produttore esecutivo di Jenin Jenin, è stato ucciso dall'
Esercito israeliano il 23 giugno 2002. Quella mattina, alle 4.30, i soldati
erano arrivati per effettuare alcuni arresti. Se c'era una cosa che Iyad -
e, come lui, la maggior parte degli abitati dei Territori occupati - odiava,
era l'umiliazione. "Una volta mi aveva detto che avrebbe preferito morire",
racconta Bakri che, assieme alla troupe, durante le riprese aveva dormito
nella casa di questo 25enne.
Così quel giorno maledetto ha preso la porta ed è scappato. Lo hanno colpito
senza ragione. Sposato alcuni mesi prima, senza figli, Iyad aveva visto
Bakri recitare in uno dei tanti film da lui realizzati; voleva lavorare per
il cinema e l'aveva dunque ricercato.
"Era un ragazzo sveglio, sempre pronto a scherzare, pieno di vita", dice il
regista. Jenin Jenin è dedicato a lui, che non ha nemmeno avuto l'
opportunità di vedere questo documentario a montaggio finito.
A.G.
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Alessandra Garusi
MISSIONE OGGI
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