[Date Prev][Date Next][Thread Prev][Thread Next][Date Index][Thread Index]

Guerre&Pace: occupazione militare



TERRITORI OCCUPATI

occupazione militare

La guerra è finita, comincia l’occupazione militare. In realtà questo è 
vero solo in parte, dato che la guerra sul campo sta continuando, sia 
perché proseguono gli scontri armati, anche se sporadici, sia perché 
proprio l’occupazione del territorio iracheno da parte delle truppe 
anglo-statunitensi e dei loro vari alleati rappresenta una prosecuzione 
della stessa guerra.

DAL CONTENIMENTO
AL CONTROLLO DIRETTO
La presenza dei soldati Usa a Baghdad sembra aver “finalmente” 
raggiunto l’obiettivo che nel 1991 Bush padre non aveva potuto e voluto 
ottenere, quando, dovendo escludere per vari motivi la scelta della 
diretta occupazione, gli Usa non ritenevano di avere a disposizione una 
classe dirigente irachena alternativa e fedele ai propri interessi che 
potesse garantire stabilità. Motivo per cui scelsero di lasciar 
reprimere le rivolte sciite e kurde, preferendo avere al potere Saddam 
e il Baath che permettevano, “giustificando” l’embargo contro la 
popolazione irachena e la “temporanea” eliminazione dell’Iraq dalle 
dinamiche politiche ed economiche dell’area, di sviluppare la politica 
di contenimento che si coniugava con l’obiettivo generale della 
costruzione del “nuovo Medio Oriente” quale capitolo strategicamente 
fondamentale del progetto di nuovo ordine mondiale.
L’amministrazione di Bush figlio, in perfetta sintonia con quanto già 
da anni andava sostenendo l’estrema destra neoconservatrice legata a 
lobbies come il Project for a new american century (Pnac, vedi “G&P”, 
n.96) o l’American Enterprise Institute (Aei), dichiarando la “guerra 
infinita”, rendeva chiaro che era finita la politica di contenimento, 
non più sufficiente per i nuovi obiettivi di rilancio del controllo 
delle aree strategiche e dei progetti imperiali. Diventava allora 
necessaria una presenza diretta delle Forze armate Usa in Iraq, con 
l’obiettivo di modificare la geografia dell’intero Medio Oriente, così 
come l’intervento in Afghanistan aveva avuto un anno prima l’obiettivo 
di consolidare la presenza in Asia centrale.

UN’AMMINISTAZIONE “CIVILE” INTERNA AL PENTAGONO
Ancora una volta però gli Stati uniti si trovano di fronte all’assenza 
di una classe dirigente alternativa affidabile. Non è scontato che le 
dinamiche politiche e sociali in Iraq vadano nella direzione dei 
progetti statunitensi e le speranze e i progetti dei kurdi e degli 
sciiti potrebbero non coincidere con i progetti imperialistici 
anglo-statunitensi. Per questo l’amministrazione Bush ha progettato una 
vera e propria amministrazione di occupazione, che chiamerà 
“amministrazione civile”, come avviene nei territori palestinesi 
occupati da Israele.
Quale sarà il volto e il compito di questa amministrazione lo si può 
leggere nell’audizione che il sottosegretario alla Difesa Douglas J. 
Feith ha tenuto l’11 febbraio scorso di fronte alla Commissione esteri 
del senato Usa, riguardante proprio l’Iraq nel periodo del 
“dopo-conflitto”, dove si delinea con chiarezza il progetto di 
amministrazione “provvisoria” divisa in due parti, una “civile”, sotto 
l’Office of reconstruction and humanitarian assistance (Orha), che sarà 
diretta dall’ex generale Jay Garner, e l’altra militare, guidata dal 
comandante del U.S. Cental Command, generale Tom Franks.
L’Orha sarà di fatto un’amministrazione coloniale, terrà le relazioni 
con le agenzie umanitarie dell’Onu, le organizzazioni non-governative e 
i vari gruppi politici iracheni. Per questo sarà anche formato un 
“consiglio consultivo” iracheno che collabori con le “autorità Usa e 
alleate”.
È importante notare che l’Orha dipenderà dal dipartimento alla Difesa 
degli Usa, cosicché risulta chiaro come la divisione dei compiti sarà 
comunque tutta interna al Pentagono.

UN “CONSOLE”
PER IL FONDAMENTALISMO
DEL MERCATO
È molto interessante ed esemplare la biografia di Jay Garner, colui che 
viene designato al ruolo di “console coloniale” per il dopoguerra, che 
a Pasqua è arrivato a Baghdad per cominciare il suo lavoro manifestando 
chiaramente l’intenzione di esercitare le sue funzioni sino a quando 
(si ipotizza un periodo compreso tra i due e i cinque anni) la 
situazione generale del paese avrà imboccato la “strada giusta”, 
desiderata dai vertici dell’amministrazione Usa.
Ex generale, Garner è nominato responsabile dell’Orha per volere di 
Donald Rumsfeld; il personaggio è noto in Medio Oriente per le sue 
prese di posizione nettamente favorevoli alla politica e all’azione 
militare di rioccupazione dei territori palestinesi condotta dal 
governo d’Israele; inoltre vanta un curriculum affaristico-militare che 
si attaglia perfettamente al compito assegnatogli: è stato direttore di 
alcuni dei programmi d’armamento più importanti avviati negli Usa (ad 
esempio, quello delle “guerre stellari”) e presidente della SY 
Technology, un’azienda che realizza sistemi di comunicazione e 
individuazione dei bersagli per le testate missilistiche e collabora 
con Israele alla realizzazione del missile antimissile Arrow, assorbita 
dalla L-3 Communications, gruppo che vanta un portafoglio ordini da 
parte del Pentagono pari a 1,6 miliardi di dollari nel 2002, del quale 
Garner è stato dirigente.
Il compito del proconsole è quello di “introdurre un sistema 
capitalista che sostituisca un apparato socialista centralizzato creato 
negli anni Sessanta”, come dichiara la rivista “Fortune”. A prescindere 
dall’assimilazione dello stato e della società irachene al modello 
socialista, assai discutibile se non priva di fondamento, l’intento è 
chiaro: l’applicazione del fondamentalismo del mercato alle condizioni 
specifiche dell’Iraq.
Garner, uomo del Pentagono, gestirà direttamente - al contrario di 
quanto accaduto in passato in casi analoghi nei quali la gestione era 
stata affidata al Dipartimento di Stato attraverso la USAid - 2,4 
miliardi di dollari stanziati dal Congresso Usa per la ricostruzione in 
Iraq, a fronte di un fabbisogno annuo stimato dal “Council on Foreign 
Relations” in 20 miliardi di dollari per un arco di tempo oscillante 
tra un quinquennio e più di un decennio.
Inoltre avrà anche l’incarico di convincere altri paesi “donatori” a 
coprire i costi della ricostruzione: impresa che si preannuncia assai 
difficile, se non impossibile, visto che da un lato si afferma che gli 
Stati uniti e la Gran Bretagna sosterranno da soli la ricostruzione, 
che non necessiterebbe di un impegno ingente e costante nel tempo, 
dall’altro si richiede la partecipazione finanziaria con notevoli 
esborsi immediati a paesi - Germania, Francia, Russia - che vantavano 
una diffusa e importante presenza economica in Iraq ma che si sono 
opposti alla guerra.

RICOSTRUZIONE UMANITARIA E RICOSTRUZIONE ECONOMICA
Ancora una volta è il rapporto di Feith che rende esplicito il ruolo 
che si vuole assegnare all’Onu e ai paesi alleati, totalmente 
subalterno e limitato a compiti umanitari.
Una posizione che viene espressa con la solita arroganza e franchezza 
anche da Richard Perle, già presidente del “Defense Policy Board”, 
organismo consultivo del Pentagono e del presidente Usa, dimessosi da 
poco per “conflitto di interessi”. In un incontro organizzato dall’Aei 
il 15 aprile Perle dichiarava che “non dovremmo scusarci per escludere 
[dalla ricostruzione] coloro che non hanno avuto interesse e non hanno 
collaborato alla liberazione dell’Iraq, e l’argomento che noi avremo 
bisogno di loro, sia perché sarebbe illegittima la loro assenza sia 
perché potranno mettere denaro sul tavolo, mi sembra fondamentalmente 
sbagliato. Se dovremo finanziarci da soli, penso sarebbe meglio farlo, 
piuttosto che invitare quelli che si sono opposti a questa guerra di 
liberazione. Ma non dovremo finanziarci da soli, perché fortunatamente 
l’Iraq ha risorse proprie sostanziali che potranno essere messe al 
servizio della ricostruzione…”.
Questa tanto richiamata ricostruzione rappresenta un business di 
dimensioni notevoli: si parla di cifre che vanno da 25 a 100 miliardi 
di dollari e oltre. Dovrebbe essere gestita dalle corporations 
statunitensi e, in second’ordine, britanniche, con ruoli marginali 
assegnati forse ad aziende tedesche, mentre le Nazioni unite verrebbero 
escluse e si dovrebbero occupare solo dei programmi di aiuto alimentare.
Per il momento la parte del leone nell’assegnazione degli appalti la 
fanno alcune multinazionali Usa, tra le quali il gruppo Bechtel, che ha 
già vinto un appalto per una prima trance di 34 milioni di dollari e 
che potrà arrivare a 640 milioni di dollari in 18 mesi per progetti di 
ingegneria infrastrutturale. Il gruppo vede tra i suoi dirigenti 
personaggi quali l’ex segretario di Stato George Schultz, che fa parte 
- e se ne capisce il motivo - del “Comitato per la liberazione 
dell’Iraq”, che dichiara tra i suoi obiettivi quello “di lavorare, 
oltre che per la liberazione dell’Iraq, per la ricostruzione della sua 
economia”.
In prima fila si trova anche l’onnipresente Halliburton, della quale 
Dick Cheney è stato funzionario fino a quando è stato eletto 
vicepresidente degli Stati uniti.

CON CHI FARE L’IMPERO?
Le dimensioni del business della ricostruzione e il ruolo che in questa 
gioca il complesso militare-industriale legato a esponenti di primo 
piano dell’amministrazione Bush non deve però far pensare che questa 
sia stata la ragione principale della guerra, che invece, come abbiamo 
più volte cercato di mostrare, ha una dimensione politica, militare ed 
economica molto più ampia e complessa, e non si ferma nemmeno al 
controllo del territorio iracheno (vedi Lodovisi, p. 5).
Questo progetto più ampio spiega probabilmente perché all’interno della 
stessa area neoconservatrice ci siano esponenti di primo piano che 
esprimono opinioni differenti da quelle di Perle, ritenendo importante 
un ruolo degli alleati della Nato allargata nelle operazioni di 
peacekeeping e di stabilizzazione dell’Iraq. In una lettera del Pnac 
del 26 marzo si arriva a sostenere che “l’amministrazione dell’Iraq nel 
dopoguerra dovrebbe fin dal principio includere funzionari non solo 
americani, ma anche di quei paesi impegnati sui nostri obiettivi in 
Iraq” e che “il sostegno e la partecipazione internazionale negli 
sforzi del dopoguerra sarebbero più facili da ottenere se il Consiglio 
di sicurezza dell’Onu appoggiasse tali sforzi. Gli Stati uniti 
dovrebbero quindi ricercare l’approvazione di una risoluzione del 
Consiglio di Sicurezza che appoggi la formazione di un’amministrazione 
civile in Iraq, autorizzi la partecipazione delle agenzie di aiuto e 
ricostruzione dell’Onu, … il dispiegamento di una forza di sicurezza e 
stabilizzazione degli alleati della Nato e cancelli tutte le sanzioni 
economiche imposte in seguito all’invasione irachena del Kuwait dieci 
anni fa”.
Questa lettera, firmata da neoconservatori come Robert Kagan e William 
Bristol, ma anche da democratici come Martin Indyk, ambasciatore in 
Israele durante la presidenza Clinton, e il suo delegato ai colloqui 
israelo-palestinesi, Dennis Ross, rappresenta probabilmente un 
lungimirante tentativo di coinvolgere da una parte i democratici 
statunitensi e dall’altra gli alleati della Nato nella legittimazione 
ex post della guerra e quindi nel controllo dell’Iraq e nella politica 
dell’“effetto domino” verso l’insieme del Medio Oriente, oltre a 
rendere possibile la dichiarazione di fine dell’embargo  necessaria 
agli Usa per lo sfruttamento legale del petrolio iracheno.
Le polemiche e gli scontri sul ruolo dell’Onu e della “comunità 
internazionale” nel processo di “ricostruzione” dell’Iraq sembrano 
ricalcare quelle stesse argomentazioni, con Tony Blair che sembra 
ancora una volta giocare una partita importante per ricucire le 
relazioni tra l’Unione europea e gli Stati uniti proprio sostenendo la 
necessità di un ruolo “vitale” per l’Onu e in particolare per i paesi 
europei, Germania in prima fila.
Intanto saranno comunque i paesi che hanno appoggiato la guerra a 
inviare i primi contingenti per una forza di stabilizzazione in Iraq 
(Italia, Albania, Danimarca, Repubblica Ceca, Polonia, Bulgaria), con 
il compito di “proteggere l’opera di ricostruzione”, cioè garantirsi 
una fetta nella spartizione della torta e svolgere il proprio ruolo di 
poliziotti dell’impero.
Piero Maestri