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NELLA TERRA SENZA FUTURO



NELLA TERRA SENZA FUTURO

di Lorenzo Scaraggi
lorenzoscaraggi@libero.it

Puglia, Italia, aprile '03.
Sono a casa.
Sono a casa ed una perversa ed una indicibile sensazione di essere stato 
piu' fortunato di qualcun altro, mi attraversa il corpo percorrendomi 
vertiginosamente, dalla pelle fin dentro i gangli ed i centri nervosi, come 
un carrello impazzito alle montagne russe.
La tv mi vomita addosso le solite scene di violenza gratuita e scontatissima.
Ad un certo punto Rafah, Palestina, e' sullo schermo.
Ne hanno fatto fuori un altro.
L'esercito israeliano ne ha fatto fuori un altro.
Si chiama Tom, 24 anni, pacifista inglese, arrivato in Palestina da meno di 
una settimana.
Gli hanno sparato mentre tentava di salvare dei bambini che erano sotto il 
fuoco dei cecchini.
Un colpo.
Un colpo solo, al collo.
Un dito che ha voluto mettere fine ad una vita, ed uno squarcio al giovane 
collo del pacifista.
È al collo che sparano i cecchini.
Al collo, oppure alla testa.
Tom, 24 anni, inglese, se n'e' andato.
Non so se piangere o ridere, istericamente.
Mi sembra di aver perso un amico, un fratello, tra le strade puzzolenti e 
polverose di Rafah: meno di un mese fa ero li' per un reportage.
Jenin, Palestina, marzo ‘03.
"We have no future, my friend".
A parlare e' Mouhammed, 18 anni, per i suoi amici palestinesi un partigiano 
e probabile futuro martire di una guerra infinita, terrorista per il resto 
del mondo occidentale.
Mouhammed fa parte della delegazione di Hammas venuta a prelevarmi.
Pensavano che io fossi una spia israeliana.
Una passeggiata per le strade di Jenin, il mio aspetto occidentale, la mia 
macchina fotografica sempre in azione, sono state un'autodenuncia.
I cosiddetti terroristi di Hammas, vengono da me, mi chiedono il 
passaporto, cercano di capire se io possa essere davvero una spia, un 
delatore, o un semplice curioso.
Ci mettono un po' a capire che sono un giornalista.
Poi la tensione sparisce ed allora, i temibili terroristi di Hammas, 
iniziano a parlare.
"Noi non abbiamo futuro, amico mio", continua Mouhammed, nel suo stentato 
inglese imparato un po' navigando in internet, un po' dai volontari, dai 
medici o dagli operatori internazionali che qui ci capitano forse per 
curiosita', forse per solidarieta', quasi sempre per assolvere ad una 
personalissima missione svolta nel nome della verita' o ideali simili.
"Tu torni a casa. Tu ritrovi i tuoi amici, ritrovi la tua ragazza, i tuoi 
genitori, amico mio. Tu vai via di qui, continui la tua vita, continui il 
tuo lavoro. Tu vai in vacanza, giri, viaggi, sogni, ti realizzi. - Mi dice 
sorridendo - Noi restiamo qui, nell'inferno..."
Nessuna speranza, nessuna prospettiva di lavoro, nessuna possibilita' di 
venirne fuori.
"E allora, amico mio, un bel giorno lo sai che faccio?"
La risposta non tarda ad arrivare.
Mouhammed, 18 anni, Jenin, Palestina, mi guarda e senza aggiungere altro, 
sorridendo come un ragazzo orgoglioso della prima azione veramente 
importante della sua vita, mima un gesto eloquente con le mani, 
accompagnandolo con un verso liberatore: "Buum!".
Di ragazzi come Mouhammed ne ho conosciuti a decine.
Hanno tutte le eta', i Mouhammed che ho incontrato, hanno tutti lo stesso 
sorriso, hanno tutti la stessa rabbia e tra le mani, tutti quanti 
un'invisibile carica di esplosivo, pronti ad immolarsi nel nome della 
liberta': quella stessa liberta' che a qualche centinaio di chilometri ha 
il boato di un Tomahawk che esplode, ma che qui ha il colore di un orto 
coltivato dietro casa o il sapore di un sandwich con falafel al venerdi' 
sera con gli amici senza rischiare di essere ammazzato.
Rafah, striscia di Gaza, confine con l'Egitto.
Una puntata di "Chi vuol esser milionario", versione araba, condotta da un 
presentatore egiziano o giordano, regala opulenza a piene mani in un 
televisore mezzo squagliato dal calore di un'esplosione.
Una stanza dalle pareti rosa accoglie le chiacchiere di tarda serata del 
solito gruppo di amici.
A ricevermi e' Ibrahim, attuale padrone di casa.
Davanti a me solita tazza fumante di caffe' arabo.
Sorseggio il caffe', denso e  corposo, e aspetto che si posi.
"Vedi amico mio, la mia storia non e' molto diversa da quella di tanta 
gente che vive qui..."
Ed allora inizia a parlare.
Ex ingegnere, laureato in Arabia Saudita, progettava oleodotti.
All'inizio della seconda Intifada ha perso il lavoro.
Adesso passa il giorno ad aspettare, cosa non si sa. Nell'ultimo mese ha 
messo da parte qualcosa lavorando per tre giorni come fabbro. L'esercito 
israeliano gli ha distrutto la casa, allora Ibrahim ha preso sua moglie, i 
suoi genitori ed i suoi otto figli e si e' trasferito nella casa in cui 
vive adesso.
Fuori la notte emette paurosi versi di tank israeliani che vanno avanti e 
dietro, elicotteri Apache disegnano fuochi artificiali dal sapore di morte 
con i propri lanciarazzi, M16 continuano a sparare in lontananza.
Ibrahim continua la sua storia.
Potrebbe essere mio padre.
"Nella mia vita non ho mai fatto male a nessuno, non ho mai dato uno 
schiaffo od un pugno, non ho mai fatto un torto ad alcuno, palestinese o 
israeliano. These hands are white - Mi dice nel suo inglese perfetto. - Le 
mie mani sono pulite."
Dignita' a quintali e la forza di un'onesta' inattaccabile danno forza alle 
sue parole.
"Dimmi, amico mio, dimmi: perche'?"
"Mi hanno distrutto la casa, i miei figli giocano sotto il tiro dei 
cecchini, viviamo nella violenza perenne di un'occupazione illegale, ho 
lavorato per tutta la vita per costruire una casa per me e per la mia 
famiglia. Adesso sono costretto ad abitare in una casa in cui nessuno ha il 
coraggio di vivere perche' troppo vicina al campo d'azione dei soldati. 
Perche'?"
"Why?".
Potrebbe essere mio padre, ma mio padre e' a casa, tranquillo o quasi: la 
sua famiglia non rischia la morte a causa di un'operazione di pulizia dal 
terrorismo.
Vado via dalla casa di Ibrahim, con il suo "Why?" che mi accompagna 
rimbombando nella mente e urtando la mia incredulita' di occidentale da 
sempre bombardato da false notizie di mass media fin troppo attenti a non 
dire tutta la verita' circa la questione palestinese.
Ricovero notturno: la casa di Abu Jamil.
I soldati continuano a sparare per tutta la notte.
Il loro scopo e' spaventarci.
Dormo vestito, con la mia attrezzatura fotografica pronta ad una probabile 
fuga in caso di bombardamento o di un intervento dei soldati.
I bambini di Abu Jamil sono tranquilli, mentre i muri continuano a tremare 
e colpi di M60 a crivellare le stanze esterne dell'appartamento.
La casa di Abu Jamil sorge sul percorso del muro che gli israeliani stanno 
costruendo per dividere la striscia di Gaza dall'Egitto.
Come la casa di Ibrahim, e come tutte le case che sorgono a 100 metri dal 
muro, anche questa sara' distrutta, prima o poi. Scherziamo per non pensare 
al peggio e sperando che la presenza di un giornalista italiano li faccia 
desistere dal loro folle scopo.
Almeno per stanotte.
L'alloggio me l'hanno procurato i miei amici dell'ISM, l'International 
Solidarity Movement.
Tra di loro Rachel Corrie, 23 anni, americana.
Un bulldozer israeliano l'ha uccisa il giorno dopo che ho lasciato Rafah.
Da quando sono tornato in Italia ho una naturale repulsione per i 
telegiornali, leggiucchio i giornali e dubito di tutti gli improvvisati 
esperti di politica internazionale che si esibiscono nel grande e colorato 
Barnum che ogni giorno sfoggia il suo variopinto campionario di 
equilibristi, funamboli, culi e tette attraverso i tubi catodici casalinghi.
Guardo di sfuggita scene di soldati americani festosi che, gomma da 
masticare in dotazione perenne, sfoggiano i loro potenti arsenali dal 
valore di milioni di dollari, mentre continuo a pensare a tutte le bugie 
con cui siamo bombardati ogni giorno.
Il popolo della Palestina non ha vie d'uscita, la Palestina non ha piu' 
voce in capitolo, la gente della Palestina, evidentemente, agli occhi della 
comunita' internazionale ha meno diritto alla liberta' di altri popoli o 
forse, piu' semplicemente, non ha petrolio a sufficienza.
Di storie come quelle di Ibrahim, di Mouhammed o di Rachel e Tom, si 
potrebbero riempire dossier televisivi ed interi rotocalchi di cronaca, ma 
nessuno lo fa.
Per questo ho deciso di partire per la Palestina.
Avevo sentito parlare di storie raccapriccianti, di storie al limite della 
dignita' umana, storie di ordinaria follia e quotidiana umiliazione di 
esseri umani, ed allora ho deciso di andare a vedere da vicino quello che 
accadeva.
Spesso le parole non sono sufficienti a descrivere quello che gli occhi vedono.
Troppo spesso le parole ti soffocano la bocca, le lacrime ti bruciano gli 
occhi, ed allora ti affidi al cuore.
Cerchi di capire, cerchi di conoscere, ti barcameni tra la freddezza della 
professione, ed il tuo sentire di uomo che non accetta.
Quello che ho visto e' solo follia.
A volte ti sorprendi a dire a te stesso che quello che stai vedendo non 
puo' essere vero.
Ti giri e cerchi le impalcature di un grande set cinematografico, ma 
purtroppo non ci sono ne' operatori ne' registi, ma soltanto soldati, 
cecchini, mitra e colpi di cannone e bambini e gente innocente, gente con 
l'unica colpa di essere nata nella cosiddetta "Terra promessa" del popolo 
di Dio, del popolo Israeliano.
La striscia di Gaza non e' solo un concetto geografico.
La Striscia di Gaza e' una grande imbuto, e' un immenso campo di prigionia, 
e' un ciclopico tritacarne pronto a macinare innocenti e colpevoli, donne o 
bambini, soldati e pacifisti, indistintamente.
Ci sono famiglie, nella striscia di Gaza, che vivono in campi profughi da 
tre generazioni.
Quando si guarda la Tv e si sente parlare di campi profughi probabilmente 
non si pensa a quello che e' il loro reale significato.
Si parla di campi profughi e si pensa a grandi accampamenti temporanei che 
gli eroi di turno, in una tumultuosa carica di infinita generosita' presto 
trasformeranno in posti fatati.
Non e' cosi'.
I campi profughi sono delle fogne a cielo aperto.
I campi profughi non hanno strade, ma sentieri sabbiosi percorsi da piedi 
nudi di bambini, dalle zampe di topi grossi come gatti, pieni di perenni 
pozzanghere fangose dall'odore mefitico.
I campi profughi sono ammassi di lamiere e di immondizia lasciata agli 
angoli delle strade.
I campi profughi sono anticamere della dimenticanza, e tutto quello che ci 
sta dentro e' solo ricordo in attesa di oblio.
Questi sono i campi profughi.
Ed in tutto questo una moltitudine di bambini che si rincorre giocando con 
avanzi di rifiuti, palloni di pezza ed aquiloni fatti con canne di bambu' e 
sacchetti per la spesa.
I campi profughi della Palestina, poi, hanno un particolare privilegio: 
essere sotto il tiro dell'esercito 24 ore su 24.
Ci sono cecchini che da altissime torri controllano da soli intere strade.
Ho sentito la morte arrampicarsi su per il mio corpo, camminando per le 
strade di Rafah.
È una strana sensazione.
Sai di essere sotto il tiro di qualcuno.
Lo sai sempre, non solo a volte.
Senti uno strano brivido che ti sale dai piedi.
Sai che la tua carne e' solo burro, e che in ogni momento il tuo collo, le 
tue tempie potrebbero esplodere.
Ma che fai? Non puoi correre, non puoi vivere cercando ripari definitivi.
Sai che da qualche parte un cecchino sta guardando attraverso un mirino il 
particolare del monile che porti appeso al collo.
Impari a conviverci, con questo perenne e continuo senso della morte.
Ed allora pensi "Insciallah", sia fatta la volonta' di Dio.
I campi profughi della Palestina sono poligoni di tiro, e non solo per i 
cecchini.
Immaginate un pilota di F16.
In Tv ce li fanno vedere come gloriosi ed impettiti ed inguaribili rubacuori.
Rayban sugli occhi e morte tra le dita.
Adesso immaginate i centri storici del nostro Sud.
Centrano qualcosa.
Centrano perche' le strade dei campi profughi della Palestina sono larghe, 
nel 75 per cento dei casi, come le stradine dei nostri centri storici.
Ora immaginate questi cowboy del cielo.
Ho pensato a tutte le volte in cui in tv dicono che con "un'operazione 
chirurgica" e' stata bombardata la sola casa del sedicente terrorista 
Mouahammed.
Impossibile.
Ognuna di quelle "operazioni chirurgiche" si porta via una famiglia intera, 
un vicinato, un quartiere, e non il solo singolo terrorista.
Immaginate le schermate verdi luminescenti della CNN che ci mostrano 
traccianti luminose contraeree: qui non c'e' contraerea, non c'e' nessuno a 
dar filo da torcere a quei temerari cowboy del cielo.
Ed allora l'imbarazzo della scelta pulsa sulle cloche di quei giocattoli da 
100 milioni di dollari tanto, per loro, i campi profughi sono solo covi di 
terroristi.
Terroristi, terroristi di 10 anni che lanciano pericolosissimi ordigni 
anticonvenzionali, a frammentazione, ad esplosione ritardata, di 
fabbricazione artigianale, anzi, direi naturale: i sassi.
Spesso ho pensato che se solo avesse potuto, se solo non fossimo nell'era 
dell'informazione globale, Sharon trasformerebbe la Striscia di Gaza e la 
Cisgiordania in un grande campo di concentramento.
Non e' un'iperbole.
L'occupazione della Striscia e' illegale.
In Palestina, a volte ti sembra di trovarti in uno di quei film in cui la 
Gestapo semina terrore e morte senza ragione.
Non e' un'iperbole.
La Palestina e' l'unica parte del mondo dove si opera rappresaglia su civili.
Esplode una bomba a Tel Aviv?
Subito i tank si muovo e cannoneggiano i campi profughi.
Un kamikaze si fa esplodere a Netanya?
Arrivano gli F16 e gli Apache a bombardare i villaggi da cui si pensa 
possano essere partiti i terroristi.
Non e' un'iperbole, e' la realta'.
Questo e' quello che accade, ogni sacrosanto giorno, in Palestina.
Questo e' quello che ho visto.
Non voglio sapere chi ha ragione, non mi interessa discutere su chi possa 
avere diritto su questa terra, non e' mia intenzione tirare in ballo le 
cause storiche o le motivazioni politiche.
Quello che ho visto mi basta.
Quello che ho visto mi e' sufficiente per prendere posizione: io sto da 
parte degli esseri umani.
Ogni giorno noi occidentali siamo bombardati da una valanga di bugie, di 
parole, di false notizie o di storie manipolate.
Ogni giorno lo stato di Israele pratica una guerra di rappresaglia contro 
popolazioni civili.
Ogni giorno un cecchino israeliano decide di sparare su qualcuno, che sia 
un bambino che va a scuola o un pacifista inglese, non importa.
I palestinesi vivono nella terra che Dio ha promesso al popolo di Israele, 
e per questo vanno puniti.
Altro che diritto internazionale, altro che convenzione di Ginevra, altro 
che rispetto dell'umanita'.
Certi concetti, in Palestina, sono solo maledizioni contro il mondo intero.
Essere palestinesi vuol dire soffrire in eterno.
Restare fermi ad un check point per cinque ore con i pantaloni abbassati, 
essere arrestati e torturati senza ragione, vedersi portare via un figlio 
di 14 anni e non rivederlo per sei mesi, vedersi bombardare casa senza 
ragione, vedere che hanno sparato a tuo figlio di 16 anni e vederlo morire 
dissanguato per quattro ore senza poterti avvicinare a lui, essere 
arrestato da un gruppo di soldati ubriachi e sorteggiare, coi bigliettini, 
se ti spezzeranno una gamba od un braccio, perdere il novanta percento 
della tua famiglia a causa "dell'operazione chirurgica" di un cowboy 
gonfiato di anfetamine ai comandi  di un F16, vedere la tua vecchia madre 
in attesa ad un posto di blocco aspettare sotto la pioggia per due ore, non 
poter viaggiare, percorrere 15 chilometri in 6 ore e poi essere chiamato 
assassino terrorista dal mondo intero: questo vuol dire essere palestinese.
Non e' un'iperbole.
Altro che Enduring Freedom, altro che Saddam o Bush o Blair o Bin Laden, 
altro che combattenti per la liberta', convenzioni internazionali, aiuti 
umanitari, bombardamenti preventivi, lotte contro la dittatura, Fondo 
Monetario Internazionale, globalizzazione, Nato e Nazioni Unite.
Tutte belle favole.
La realta' e' un'altra.