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Walter Peruzzi: "Effetti collaterali" - Editoriale G&P marzo 2003



"Guerre&Pace" - n. 97 - marzo 2003

Editoriale di Walter Peruzzi

"Effetti collaterali"

Non e' dato sapere, mentre chiudiamo il numero, se entro il 1°, il 7 o il 
14 marzo gli Stati uniti saranno riusciti a comprare, come resta pur sempre 
probabile, oltre alle basi turche anche il prossimo rapporto di Blix e i 
voti del Consiglio di Sicurezza necessari per condurre sotto l'egida delle 
Nazioni unite una guerra sfacciatamente "americana".
Quel che risulta chiaro finora e' l'inedito  isolamento della superpotenza 
Usa sia nel Consiglio di sicurezza o nell'Assemblea dell'Onu, sia di fronte 
all'assemblea dei paesi africani, al vertice dei paesi non allineati e, 
soprattutto, all'opinione pubblica mondiale. Mai il movimento per la pace 
e' stato infatti cosi' forte e cosi' apertamente schierato contro 
l'arrogante politica statunitense.
"Abbasso Cristoforo Colombo", recitava un piccolo cartello che un bambino 
portava al collo il 15 febbraio per le vie di Roma: quasi uno sberleffo a 
quanti raccomandano di non cadere nel cosiddetto "antiamericanismo", 
anziche' domandarsi perche' esso sia tanto diffuso e perche' "sempre piu' 
persone pensano che George Bush rappresenti una minaccia per la pace piu' 
grave di Saddam Hussein", come sconsolatamente registrava il "Washington Post".

MAI TANTA GENTE CONTRO UNA GUERRA
Fra le ragioni di questa enorme mobilitazione contro la guerra - la piu' 
ampia mai vista nella storia e prima ancora che il conflitto sia iniziato - 
vi e' sicuramente la futilita' dei motivi con cui gli Stati uniti tentano 
di giustificarla. "Perche' proprio Saddam, tra tanti manigoldi?", si 
domanda fra gli altri perfino Beppe Severgnini sul "Corriere" del 23 
febbraio, osservando a proposito della disinformazione dei media Usa: "In 
America ve lo chiedete in pochi. Forse perche' la maggioranza ritiene che 
gli attentatori dell'11 settembre fossero iracheni (quand'erano sauditi)".
Ne' vale a coprire questa totale assenza di ragioni, e perfino di pretesti 
credibili, il rituale richiamo alla necessita' di "fermare" il nuovo 
Hitler: "ogni paragone con la conferenza di Monaco e' aria fritta", nota 
Eric Hobsbawm. "Nessuno storico potrebbe crederci per un istante. Questa 
non e' una guerra contro un aggressore, ancor meno contro qualcuno in grado 
d'invadere l'Europa. Non e' in alcun senso una guerra di difesa, ma di 
aggressione da parte della piu' grande potenza militare della terra contro 
una piccola dittatura, sebbene molto cattiva" ("Corriere della sera", 
21/2/2003).
Del resto Bush, per giustificarla, ha dovuto ricorrere all'aberrante teoria 
della guerra "preventiva", condannata anche dalle chiese cristiane e 
definita dal papa un "crimine contro la pace".
"È una guerra", rileva sempre Hobsbawm, "che gli Usa vogliono e che nessun 
altro al mondo vuole, tranne il governo di Sharon e il gabinetto di Blair. 
Se non l'avessero sostenuta gli Stati uniti, nessuno ci avrebbe pensato." 
La vastita' dell'opposizione alla guerra si spiega anche con questa 
mancanza di condivisione internazionale. Essa fa piu' nettamente emergere 
come uniche ragioni del conflitto i brutali interessi petroliferi o 
geopolitici e l'arroganza imperiale degli Stati uniti, portando centinaia 
di milioni di progressisti e moderati, credenti e non credenti, a unirsi 
con i pacifisti "assoluti" o "a senso unico" nella speranza di poter questa 
volta evitare il massacro.

L'ANTIAMERICANISMO DEI POPOLI...
In questa lotta per la pace si intrecciano due tipi di opposizione - quella 
dei popoli e quella dei governi - all'egemonismo Usa. Due tipi, per dirla 
col linguaggio dei media, di "antiamericanismo".
Il primo e' cresciuto negli ultimi anni, attraverso l'impetuoso sviluppo 
del movimento "per un altro mondo possibile" e di grandi lotte popolari, 
operaie, contadine che hanno prodotto anche importanti mutamenti politici 
in alcuni paesi latino-americani. Si tratta dell'opposizione alla 
globalizzazione capitalista cioe' a un potere economico-politico (delle 
multinazionali, degli organismi internazionali e degli stati), che cerca di 
imporre le sue disastrose ricette neoliberiste anche col ricorso, 
permanente, alla guerra. Tale opposizione, in se' non specificamente 
"antiamericana", si rivolge principalmente contro il governo (non contro il 
popolo) degli Stati uniti perche' e' tale governo a guidare la 
globalizzazione capitalistica nel quadro di un disegno di egemonia globale 
e grazie a una schiacciante supremazia militare.
Ma la necessita' di contrastare l'egemonia Usa viene oggi affermata con 
inattesa durezza anche da paesi che sono loro alleati nel governo della 
globalizzazione e nella "lotta al terrorismo". È questo, come abbiamo gia' 
sottolineato in piu' occasioni (vedi "G&P" nn. 93, 96), un importante 
elemento di novita' emerso nel corso della crisi irachena.

... E QUELLO DEI GOVERNI
Questo "antimericanismo" dei governi non a caso si manifesta nel vivo di 
una grave crisi economica e sociale planetaria, come risposta al tentativo 
statunitense di accaparrarsi voracemente territori e risorse anche a spese 
degli alleati e di metterli sbrigativamente in riga per ridefinire "a 
esclusivo vantaggio del grande capitale nordamericano", come diceva gia' 
nel 1999 Dominique Vidal, "le regole del gioco che devono valere nel mondo 
intero" ("G&P" n. 70-71).
A loro volta, i governi schierati con la "vecchia" Europa di Chirac non 
sono animati dall'aspirazione a "un altro mondo possibile" ma dall'esigenza 
di ritagliarsi in questo mondo globalizzato uno spazio imperialista 
autonomo (Francia, Germania) o di giocarvi un ruolo di grande potenza 
(Russia, Cina), o di evitare un conflitto potenzialmente destabilizzante 
(e' il caso di molti paesi arabi e non allineati). "La divisione tra Europa 
e Stati uniti e' strategica, non morale", scrive Gary Younge sul "Guardian" 
del 10 febbraio. "Non c'e' niente nella cultura politica europea che la 
renda piu' liberale e meno imperialista di quella americana".
Questi governi rifiutano il prepotente unilateralismo e la dottrina della 
guerra preventiva di Bush, che non solo li esclude dalle decisioni ma 
costituisce una "pistola fumante" usabile contro ognuno di loro. Si tratta 
di una deriva militarista che allarma lo stesso Vaticano perche' mette a 
rischio, favorendo il proliferare di risposte terroristiche e lo "scontro 
di civilta'", anche le prospettive della presenza cattolica nei paesi 
islamici. Ma questi governi hanno al contempo forti interessi comuni con la 
superpotenza che garantisce la globalizzazione e ne temono per diversi 
motivi le ritorsioni; per cui possono essere convinti o piegati ad a una 
guerra multilaterale "benedetta dall'Onu" in cambio di qualche vantaggioso 
compromesso con gli Stati uniti.

L'EGEMONIA USA IN DIFFICOLTÀ
L'accordo peraltro non sembra facile. Lo scontro da tempo in atto da' 
l'impressione di non dipendere solo, ne' principalmente, dalla rozzezza 
dell'amministrazione Bush, che preferisce la diplomazia del bastone alla 
ricerca del consenso e tratta da vassalli gli alleati, ma da una profonda 
crisi economico-sociale, che aggrava i contrasti d'interesse fra i diversi 
paesi imperialisti e i differenti stati.
Smentendo quanti leggono il mondo come un unico "impero" delle 
multinazionali, senza centro e senza stati, o come un sistema capitalista 
unificato sotto il comando di uno stato solo, le vicende di questi mesi 
sembrano indicare un acuirsi delle contraddizioni interstatali e 
interimperialiste. E cio', insieme alla crescente avversione mondiale verso 
la politica Usa, potrebbe portare a una crisi della loro egemonia globale e 
degli strumenti fin qui usati per esercitarla, come la Nato (si pensi 
all'inusuale veto franco-belga-tedesco sugli aiuti alla Turchia), anche al 
di la' del tipo d'intesa che si potra' stabilire sull'attacco all'Iraq.

L'ONU IN LIQUIDAZIONE
Quanto all'Onu - da sempre utilizzata per imporre la volonta' degli Usa e 
messa in mora, rimpiazzata dalla Nato o disattesa (come nel caso delle 
risoluzioni contro Israele) quando non serviva allo scopo - essa e' stata 
"preventivamente" privata di ogni residua credibilita' dagli ultimatum con 
cui Bush ha avvertito che sara' "credibile" solo se vota la guerra gia' 
decisa dalla Casa bianca. Una guerra, ha aggiunto, che si fara' comunque 
anche se l'Onu non la vota, cioe' se dovesse fallire la campagna avviata da 
Washington, a suon di dollari e di ricatti, per comprare i membri del 
Consiglio di Sicurezza.
L'Onu viene ridotta cosi' a organismo superfluo, come devono constatare 
anche commentatori non certo antimericani: "quando l'unica iperpotenza 
mondiale decide di decidere da sola", scrive Eugenio Scalfari, "le 
istituzioni internazionali declinano rapidamente al rango di una bocciofila 
di quartiere. Con quel che costano le metteranno presto in liquidazione" 
("La Repubblica", 23/2/2003). Ne' d'altra parte nessun voto dell'Onu, 
comunque comprato, tanto meno quello di una bocciofila, puo' convertire in 
"giusta" guerra di difesa un'aggressione preventiva.

SENZA SE E SENZA MA
Lo slogan "contro la guerra senza se e senza ma", cioe' "con o senza la 
copertura dell'Onu", lanciato dal Social Forum Europeo e raccolto dai 
manifestanti del 15 febbraio, non e' dunque soltanto politicamente 
corretto. Si e' mostrato, nella sua radicalita', capace di interpretare lo 
spontaneo sdegno popolare contro la guerra di Bush (e Berlusconi); quindi 
ben piu' unificante dei balbettii vergognosi dei Rutelli e dei Fassino - 
pronti a marciare per la guerra (cosi' come ad applicare un embargo 
criminale) se lo ordina l'Onu.
Occorre adesso far crescere ancora la mobilitazione contro la guerra 
americana. Cio' mettera' non solo in difficolta' i governi interventisti, 
come quello italiano, ma esercitera' il massimo condizionamento su quelli 
raccolti intorno a Chirac, perche' rendera' loro piu' impopolare, cioe' 
politicamente piu' costoso e quindi piu' difficile fare marcia indietro e 
votare l'uso della forza contro l'Iraq.
Radicalizzare lo scontro, in forma assolutamente pacifica, inventando e 
moltiplicando le iniziative di propaganda, di protesta e di disobbedienza 
civile, e' quanto d'altra parte il movimento sta mostrando di saper fare 
con una maturita' e una unita' mai viste prima: con la campagna delle 
bandiere, i dibattiti, le manifestazioni di piazza e di strada, il blocco 
dei treni della morte, l'annunciata confluenza in questa iniziativa dei 
ferrovieri e dei portuali - fino allo sciopero generale. Se scoppiera' la 
guerra.
Walter Peruzzi