| Primo Gennaio 2003 Per tutta la gente che vuole 
verità di Lorenzo Oggi si apre un nuovo anno. La 
chiesa nel mondo, oggi, festeggia la Pace e le consacra un giorno per riflettere 
e incoronarla come sogno, bisogno e necessità primaria dell'uomo. Il mondo 
accoglie l'invito inneggiando agli ideali, cosciente di quanto sia ancora una 
realtà che tarda ad affermarsi, insediarsi nella storia, dimentico di quanto il 
fine giustifichi i mezzi, in ogni occasione. E purtroppo è ancora troppo 
consolidata l'idea che la pace possa fiorire dalla superiorità militare dei 
contingenti armati, dalle guerre camuffate da operazioni di sicurezza 
internazionale e disseminate per il mondo, che si fanno scudo delle ingiustizie 
per compiere le medesime azioni che ipocritamente hanno condannato e ripugnato 
fino ad attirare il consenso ingenuo della gente comune necessario alla 
propaganda. E' ancora irresistibilmente dogmatizzata la convinzione che la pace 
sia cessazione momentanea delle ostilità quando le cause dell'odio e della 
volontà di vendetta e rivendicazione covano ancora accese sotto la "cenere" 
delle bandiere internazionali e dell'apparente soluzione. L'opposto di pace non 
è guerra, bensì violenza. Oggi, qui nella Striscia di Gaza, in 
quella Palestina ancora soggiogata, vediamo chiaramente il vero volto della 
vergogna, mentre il mondo consacra i suoi sforzi e benedice le sue menzogne. 
Mentre una flebile voce canta e supplica la pace di un crocifisso, noi vediamo 
la vera faccia dell'ipocrisia azzannare la gola di questo popolo ormai alla 
fame, sfinito nell'animo e terrorizzato nello sguardo, pietrificato dalla cinica 
strategia di sterminio e diaspora dei propri aguzzini, da menzogne e verità 
taciute. Mi trovo immerso in una guerra che già in partenza è segnata da 
differenze e disparità. Su un territorio dalle dimensioni insignificanti, si 
fronteggiano due popoli, si confrontano culture sorelle. Da una parte è 
schierata la democrazia, la ricchezza, la strategia, il braccio armato. Di 
fronte si ha un popolo senza terra, senza ragioni, senza potere e potenza se non 
quella della disillusione, della fievole speranza che combatte contro la 
quotidiana disperazione di tanti, troppi. Un esercito di sbandati che affronta 
la battaglia inseguendo il sogno di uno stato proprio, di libertà e di 
pace. Dall'altra parte una ferrea volontà 
politica imprigiona ogni sforzo, anche interno a se stessa, per un equilibrio 
delle parti, per la fine di una guerra che ha ormai perso qualsiasi ragione 
storica e si nutre di crimini giovani perpetuandosi quotidianamente. E' 
significativo, strano, come gli "uomini di buona volontà" non vengano mai 
interpellati pur facendo loro la storia. Oggi, qui in terra santa, questa 
constatazione, questo impeto rivoluzionario, si spegne sopraffatto dalle logiche 
di potere, dalle strategie militari e dagli interessi economici. Poco importa se 
a pagarne il prezzo sono e saranno sempre i poveri, gli oppressi. Poco importa 
se proprio a loro verranno additati gli errori, le incompetenze e le incapacità 
sotto cui vengono tenuti segregati. L'importante sembra non sentirsi toccare 
dalle responsabilità che ad ognuno spettano, dando per scontata e immutabile la 
realtà in cui viviamo, e subiamo, purtroppo sempre più passivamente ed 
indifferentemente. Sembra non ci si riconosca la forza morale di sfidarsi, 
scandagliando il proprio coraggio di guardarsi in faccia senza rimorsi. Sono 
nauseato, disgustato da questo stato di cose, da questo modo di pensare, da 
questo modo di agire. Mi sento cinico e duro pur sforzandomi di credere in un 
mondo migliore dove crescere i nostri pensieri di pace, giustizia e verità. 
Un'isola felice senza più né ladri né gendarmi, niente odio né violenza, né 
soldati né armi. E vedo i segni di questo mondo diverso, sicuramente migliore. 
Vedo tante persone che lavorano per costruire i loro sogni in modo nonviolento, 
dove non c'è odio per il nemico come la propaganda ha bisogno di farci credere, 
ma il bisogno di capire se stessi e soprattutto l'avversario, di confrontarsi 
lavorando insieme, di comprendere le motivazioni che non portino il sapore amaro 
della vanità e dell'inconsistenza della ragione e del cuore. Cento anni di 
guerra creano muri molto profondi, molto resistenti e sia dall'una che 
dall'altra parte il diverso è un nemico e non una persona. In questa situazione 
è nocivo cercare esclusivamente le proprie ragioni ed è soprattutto deleterio 
additare i torti dell'altro, semplicemente condannandoli. La propaganda si  serve di questi meccanismi, 
stigmatizzando le proprie sofferenze distruggendo quelle dell'altro. Come sempre 
accade la verità è la prima vittima di ogni guerra e si finisce per leggere la 
realtà in modo deformato, parziale e falso. Come se si dovessero legittimare le 
proprie azioni e giustificarle senza tenere conto delle ragioni e dei diritti 
dell'altro. Distruggendo anzi la loro stessa esistenza, negando in questo modo 
la capacità anche solo di ascoltare qualsiasi motivazione. Ciò che conta è 
smaterializzare chi ti fronteggia, etichettandolo in modo funzionale (il nemico 
che ci vuole annientare) per non vederlo più quale realmente è: una persona. E' 
generalizzare i comportamenti e gli estremismi, così tutti i palestinesi sono 
terroristi e gli israeliani sono tutti consapevolmente carnefici dei loro 
crimini. Ciò che conta è enfatizzare, strumentalizzandolo, il proprio dolore e 
disumanizzare quello altrui [..e per tutti il dolore degli altri è un dolore a 
metà..(F. De Andrè)]. 
Diventa necessario non 
ammettere pensieri diversi, le obiezioni, additando i valori della sicurezza 
della patria a sostegno della propria ragione e a disfatta delle argomentazioni 
contrarie, mistificare e imbestialire i tratti degli oppositori esterni con la 
legge tanto banale quanto dittatoriale dell'esistenza del solo bianco o del solo 
nero. E basta. In questo modo tutto diventa legittimo e permesso, nel silenzio 
tacente dell'opinione pubblica complice nell’acriticità della propria coscienza. 
In questo contesto di militarizzazione della società israeliana è difficile per 
coloro che lavorano e si propongono per il dialogo, la pace, la riconciliazione 
e i diritti, trovare sostegno e consenso. In questo contesto di militarizzazione 
subita, e malamente copiata, è ancora più difficile crescere nella società 
palestinese, secondo principi di rispetto della diversità, di una possibile 
riconciliazione e della pacifica convivenza. Le armi si respirano fin da piccoli 
e sono ormai pane quotidiano. Vedo comunque tanti segni, piccole e 
fragili luci, di una possibile resurrezione. U., ragazzo israeliano che dopo 
avere prestato servizio nell'IDF  
proprio nella Striscia di Gaza, ha deciso di obiettare all'azione 
militare di occupazione e oppressione del suo esercito. Ha scoperto durante i 
tre anni di servizio nell'IDF (Israeli Defence Force) che la sicurezza del suo 
paese non avesse - né abbia -niente a che vedere con la politica terroristica 
che viene perpetuata nei confronti della popolazione civile palestinese 
materializzata nella distruzione della case effettuata per appropriarsi della 
terra necessaria alla costruzione di nuove colonie, incarnata negli omicidi 
extragiudiziari che quotidianamente colpiscono i palestinesi, nell'impossibilità 
di costruire una società democratica a causa di condizioni inumane della vita. 
Oggi studia per diventare assistente sociale e porta avanti insieme ad altre 
centinaia di refusenik, un lavoro di sensibilizzazione della società israeliana 
avvalorata dalla propria esperienza e testimonianza, continuando ad obiettare e 
a pagare sulla propria pelle anche con la prigione la scelta a non servire con 
le armi il proprio paese nei Territori Occupati. Abbiamo visitato il Kibbutz 
Metzer a nord di Tulkarm, in territorio israeliano ma immediatamente a ridosso 
della linea di confine internazionale del '67. La sua popolazione intrattiene 
buonissimi rapporti con quella palestinese dei villaggi vicini, festeggiando 
insieme alcune festività e ponendosi in modo molto concreto ed apertamente 
critico nei confronti del proprio governo. Si sono opposti all'espropriazione 
delle terre palestinesi necessarie alla costruzione di un muro di separazione 
tra Israele e Cisgiordania perché, semplicemente, non lo ritengono giusto. Non 
sono contrari a priori alla costruzione del muro, ma vogliono che l'esproprio 
sia effettuato parimenti per le proprietà di entrambe le parti: le loro e quelle 
palestinesi. Per l'undici novembre scorso era organizzato un incontro con il 
delegato del mistero della difesa per discutere di questo progetto, la notte del 
dieci un attentatore è entrato nel Kibbutz e ha ucciso due bambine e tre adulti. 
Un operazione pianificata e attuata con estrema professionalità tanto da 
convincere tutti che la causa di questo attentato fosse il tentativo di rompere 
definitivamente gli stretti rapporti fra le parti. "L'unico modo per non fare la 
politica degli assassini era mantenere la pace tra le comunità confinanti", ci 
dice il responsabile del Kibbutz, "e in quest'ottica si sono incentrati gli 
sforzi di tutti". La notte stessa sono giunti le manifestazioni di solidarietà e 
condanna per l'eccidio dai villaggi palestinesi vicini. La notte stessa, prima 
volta nella storia della comunità, Sharon in persona ha fatto visita al Kibbutz 
probabilmente per constatare che l'indignazione della sua gente legittimasse, 
ora, la repressione. Così non è stato, e le comunità continuano a sentirsi 
vicine nonostante le divisioni che cercano di imporsi. Nonostante ciò il governo 
israeliano continua ad espropriare terre palestinesi in West Bank anche diversi 
chilometri all'interno della linea di confine internazionale del '67 e 
l'edificazione procede inesorabile. Abbiamo conosciuto J. M., rabbino israeliano 
che insieme ad altri rabbini, lavora per il rispetto dei diritti umani della 
popolazione palestinese, che continuano ad essere violati crudelmente e 
quotidianamente. Abbiamo avuto incontri, e partecipato insieme a manifestazioni, 
con associazioni israeliane quali "Woman in Black", "New Profil", Ta’ayush, ed è 
stato un bellissimo regalo di speranza ritrovarsi insieme, palestinesi, 
israeliani e internazionali, nella piazza della chiesa della Natività la vigilia 
di Natale per manifestare uniti contro l'occupazione e tutto ciò che si porta 
con sé in termini di vite distrutte e speranze lacerate. Conosciamo 
personalmente tante persone nella società palestinese, anche nostri cari amici, 
che si fanno in quattro contro la povertà nei propri villaggi, per l'educazione 
dei bambini per toglierli alla spirale di odio e ritorsione di cui si è facili 
vittime in situazioni così disumane e di  
violenza imperitura, che lavorano per l'emancipazione femminile, per i 
diritti della famiglia, delle donne e per la democratizzazione e laicizzazione 
della società. Di fronte a questo però c'è una 
quotidianità che non posso, nemmeno nei miei pensieri, correre il lusso di 
considerare normale. Anche se a fatica. Rimangono fissi negli occhi i volti dei 
bambini che si affrettano a crescere per strada perché le famiglie non hanno 
abbastanza soldi per pagare le tasse scolastiche e diventa più redditizio 
portarsi a casa pochi shekel guadagnati a fare avanti e indietro attraverso il 
check point di Abu Holi, perché i soldati non fanno passare mezzi con meno di 
tre persone a bordo. Ho in mente il volto di F., di suo fratello e di sua madre 
che vivono sotto una tenda da quando un anno e mezzo fa l'esercito di difesa 
israeliano gli ha demolito la loro casa, lì da sempre, perché troppo vicina al 
cavalcavia della Kussufin Road, costruito dopo l'inizio della seconda intifada 
(2000) per permettere alle macchine dei coloni di transitare senza 
preoccupazione dalla colonia di Gush Katif verso Israele. E rabbrividisco 
pensando che anche dopo essere state private dell'abitazione, sono state 
torturate dalla pazzia militare che gli ha sradicato una volta anche le tende. 
Ho negli occhi il bimbo tremante sul lettino della camera di terapia intensiva 
dell'ospedale Nasser di Khan Younis, tatuato di schegge su tutto il corpo 
martoriato nell'infanzia rubata da un colpo di tank che lo ha bersagliato nel 
giardino di casa mentre giocava con fratelli e amici. Ho nelle orecchie le 
parole di A. che rassicurano la piccola figlia spaventata dagli spari che 
rimbalzavano intorno a noi e che per addormentarla in un abbraccio rassicurante, 
cercava di rasserenarla dicendole di non avere paura che a sparare erano suoi 
amici, mentendo ad un'evidenza troppo schiacciante di ogni parola, anche per la 
sua bambina. Penso agli alberi di ulivo, unico sostegno per molte famiglie, 
sradicati come la stessa essenza della pace e trasformati in croci di fame, 
miseria e disperazione. Sento il rombo assordante delle pale degli apache, 
spettatore di un opera già scritta, molto tempo fa, arrivata a chissà quale 
rappresentazione ma che, come fosse sempre la Prima, tiene tutti con il fiato 
sospeso, lo sguardo levato in alto e le orecchie tappate da mani che tremano al 
ritmo, in armonia, dei rotori degli elicotteri da guerra. E così avanti fino a 
perdermi tra i tanti episodi che segnano la nostra presenza nella Striscia di 
Gaza e che non voglio dimenticare per rispetto verso chi li ha sofferti sulla 
propria pelle, nella propria vita. Guardo fuori, e quel che vedo è abbastanza 
per far piangere gli angeli.  Ah che sarà che sarà che tutti i 
loro avvisi non potranno evitare che tutte le risate andranno a sfidare che 
tutte le campane andranno a cantare e tutti i figli insieme a consacrare, e 
tutti i figli insieme a purificare, e i nostri destini ad incontrare, perfino il 
Padre Eterno da così lontano, guardando quell'inferno dovrà benedire, quel che 
non ha governo ne mai ce l'avrà, quel che non ha vergogna ne mai ce l'avrà, quel 
che non ha giudizio. (F. Mannoia) |