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immigrati in Puglia: le polemiche al Regina Pacis



IL REGINA PACIS TRA PROTESTE E SOLIDARIETA’

Michele DI SCHIENA

“Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me”: questa sublime identificazione di Cristo con i poveri e gli infelici, questa accorata esortazione alla solidarietà ed alla condivisione della sofferenza, questo forte monito annunciatore di suprema giustizia dovrebbe, per il suo alto valore umano, scuotere le coscienze e toccare il cuore di tutti. Per i credenti dovrebbe essere poi una vera e propria stella polare, un fondamentale ed illuminante punto di riferimento per le loro scelte ed i loro comportamenti sia nella dimensione ecclesiale che in quella civile e politica.

Ma questo grande monito non campeggia, come forse dovrebbe, sul recinto, le mura e le cancellate sormontate da filo spinato del “Regina Pacis”, il centro di accoglienza di San Foca diventato un “Centro di permanenza temporanea” e gestito per conto e col finanziamento dello Stato dalla Curia della Diocesi di Lecce, un luogo di segregazione per gli immigrati “irregolari” finalizzato non all’accoglienza ma all’espulsione. E diciamo tutta la verità: i centri di permanenza temporanea sono diventati recinti di sofferenza dove vengono ammassati, spesso in situazioni di sovraffollamento ed in precarie condizioni igienico-sanitarie, gli immigrati clandestini, quasi sempre rei soltanto d’essere fuggiti dall’indigenza o dalla persecuzione e sbrigativamente puniti con una pena detentiva “impropria” inflitta per via amministrativa senza processo e quindi sottratta, durante la sua esecuzione, a qualsiasi “sorveglianza” o controllo da parte dell’autorità giudiziaria.

Questi centri per come collocati nella logica della Legge Bossi-Fini sono strutture che limitano duramente la libertà personale e che evocano tempi assai bui; strutture che si pongono in aperto contrasto con i principi fondamentali della civiltà giuridica e della cultura democratica e che sono, per la loro stessa natura, destinate a ferire la dignità personale di chi vi è ristretto così come sono esposte costantemente al rischio di degenerazioni, discriminazioni, soprusi e violenze. La protesta del Social Forum ha dunque per suo obiettivo fondamentale la critica e la ripulsa della logica, del modo d’essere e delle finalità del “Regina Pacis” e di tutti gli altri centri del genere e, solo in aggiunta, pretesi atti e comportamenti illeciti oggetto di specifiche denunce sulla cui fondatezza solo l’autorità giudiziaria potrà fare in qualche modo luce dopo accertamenti indubbiamente difficili. Ma, invece di cogliere le ragioni profonde di giustizia e di solidarietà che muovono la protesta, che cosa fa larga parte del ceto politico locale? Trasforma le notizie filtrate da quel dolorante recinto in atti di accusa che attribuisce al movimento e che definisce pregiudizialmente infondati ed utilizza qualche reazione emotiva sopra le righe per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal nucleo fondamentale della protesta e per inondare di dichiarazioni di solidarietà non i reclusi privati di “patria ed onore” ma la Chiesa gerarchica locale che gestisce una struttura biasimata dalla cultura democratica e dalla sensibilità religiosa di tante coscienze.

Tornando poi all’esortazione evangelica perché ciascuno si faccia prossimo ad ogni uomo e, più ampiamente, al messaggio cristiano, corre il pensiero al Concilio Vaticano II che di quel messaggio si è reso interprete presso la gente del nostro tempo ricordando il dovere di condividere la condizione degli ultimi come l’affamato, l’escluso ed “il lavoratore straniero ingiustamente disprezzato o l’emigrante”. Ed ha raccomandato che, nell’esercizio della carità, “si abbia riguardo, con estrema delicatezza, alla libertà ed alla dignità della persona che riceve l’aiuto”, che il servizio non sia macchiato “dalla ricerca della propria utilità o dal desiderio di dominio” e che siano “innanzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia”. Il Concilio ha ricordato anche che la missione della Chiesa non è di ordine sociale o politico ma di ordine religioso e che essa si deve servire “delle cose temporali nella misura che la propria missione lo richiede” senza porre “la sua speranza nei privilegi offerti dall’autorità civile” ma anzi rinunziando “all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza”.

Ed allora, come credenti chiediamo all’arcivescovo di Lecce perché mai la Chiesa debba essere coinvolta nella gestione di una struttura sostanzialmente carceraria, voluta da politiche e da leggi che sono lontane dallo spirito evangelico e dall’insegnamento conciliare. Vorremmo risposte, spiegazioni, aperture al dialogo e non vittimismi conditi da una impropria disponibilità a perdonare secondo il precetto cristiano, ricordato dal presule in una sua dichiarazione, del “porgere l’altra guancia”. Forse siamo noi occidentali e noi Chiesa d’Occidente che abbiamo da chiedere perdono alle moltitudini di affamati e diseredati che ci chiedono un aiuto perché vittime di un sistema che sfrutta ed emargina. Ma quei diseredati non potranno mai, perdonandoci, porgere l’altra guancia perché il nostro sistema già da tempo gliele percuote tutte e due e con brutale violenza.

Brindisi, 7 dicembre 2002