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La nonviolenza e' in cammino. 385



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it



Numero 385 del 15 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

1. Aldo Capitini, piu' forti della bomba atomica

2. Dorothee Soelle, il senso della vita di Marilyn Monroe

3. Martin Luther King, pellegrinaggio alla nonviolenza

4. Franco Fortini, marxismo

5. Peppe Sini, cinque note per Franco Fortini

6. Riletture: Laura Boella, Cuori pensanti

7. Riletture: Laura Boella, Le imperdonabili

8. Riletture: Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione

9. Riletture:Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto

10. Riletture: Juergen Moltmann, Teologia della speranza

11. Riletture: Paul Ricoeur, La critica e la convinzione

12. La "Carta" del Movimento Nonviolento

13. Per saperne di piu'



1. MAESTRI. ALDO CAPITINI: PIU' FORTI DELLA BOMBA ATOMICA

[Da Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, p.
53; e' la conclusione di un articolo apparso su "Epoca" il 17 agosto 1945,
e poi ripreso in Italia nonviolenta. Aldo Capitini e' stato l'apostolo
della nonviolenza in Italia]

Se useremo la nonviolenza, saremo piu' forti della bomba atomica.



2. MAESTRE. DOROTHEE SOELLE: IL SENSO DELLA VITA DI MARILYN MONROE

[Questa breve riflessione della prestigiosa teologa e costruttrice di pace
abbiamo estratto dalla sua postfazione a una grande poesia di Ernesto
Cardenal, in Ernesto Cardenal, Dorothee Soelle, Oracion por Marilyn Monroe,
Editorial Nueva Nicaragua - Ediciones Monimbo', Managua 1985, p. 60. Abbamo
tradotto lo spagnolo "deseo" con l'italiano "desiderio", ma e' evidente che
altre scelte di traduzione potevano essere fatte (peraltro la Soelle ha
scritto in tedesco, ma noi abbiamo a disposizione solo il testo spagnolo)]

E in cosa consistette il senso della vita di Marilyn Monroe? Forse in quel
desiderio di essere santa. Poiche' senza quel desiderio probabilmente
sarebbe ancora viva e continuerebbe ad essere una stella di Hollywood.
Questo desiderio di oltrepassare lo "status quo" - un cattivo "status quo"
- incarna gia' una gran parte del senso della vita.



3. MAESTRI. MARTIN LUTHER KING: PELLEGRINAGGIO ALLA NONVIOLENZA

[Il seguente scritto abbiamo ripreso dall'opuscolo: Martin Luther King,
Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza,
Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1993. Riportiamo qui di seguito
la premessa al testo contenuta a p. 17 dell'opuscolo citato: "Il saggio
"Pellegrinaggio alla nonviolenza", scritto da M. L. King nel 1958, fu
rivisto e pubblicato nello stesso anno nel volume Stride toward freedom
(traduzione italiana: Marcia verso la liberta', Ando', Palermo 1968). In
seguito il testo fu nuovamente rielaborato per la pubblicazione sulla
rivista "The Christian Century" del 13 aprile 1960 e quindi ristampato nel
libro antologico di Peter Mayer, The Pacifist Conscience. In Italia e'
stato tradotto e pubblicato, in due differenti versioni, nel volume La
forza di amare (Sei, Torino 1967) e sulla rivista "Azione nonviolenta"
dell'aprile-maggio 1968. Questa che presentiamo, nella traduzione integrale
di Claudio Cardelli, e' la versione originale del 1958 del "Pellegrinaggio"
di King, tratta dal volume antologico curato da Staughton Lynd, Nonviolence
in America: a documentare history (The Bobbs-Merrill Co., Indianapolis -
New York 1966); la divisione in paragrafi ed i titoletti di essi sono
redazionali"]

Spesso e' sorto il quesito del mio pellegrinaggio intellettuale verso la
nonviolenza. Per rispondere a questo quesito e' necessario tornare indietro
alla mia prima adolescenza in Atlanta. Ero cresciuto aborrendo non solo la
segregazione ma anche gli atti oppressivi e barbari che si sviluppavano da
essa. Avevo attraversato luoghi in cui i neri erano stati selvaggiamente
linciati, ed avevo assistito alle cavalcate notturne del Ku Klux Klan.
Avevo visto con i miei occhi la brutalita' della polizia e i neri ricevere
la piu' tragica ingiustizia nei tribunali. Tutte queste cose avevano
influito in qualche modo sulla mia personalita' in formazione. Ero giunto
pericolosamente vicino al rancore verso tutti i bianchi.

Avevo anche imparato che l'inseparabile gemella dell'ingiustizia razziale
era l'ingiustizia economica. Sebbene provenissi da una famiglia
economicamente sicura e relativamente benestante, non ho mai potuto
togliermi di mente l'insicurezza economica di molti miei compagni e la
tragica poverta' di coloro che mi vivevano intorno. Durante gli ultimi anni
dell'adolescenza lavorai per due estati, contro la volonta' di mio padre
(egli non ha mai voluto che mio fratello ed io lavorassimo fra gente bianca
a causa delle condizioni oppressive), in una fabbrica che assumeva neri e
bianchi. Qui vidi di prima mano l'ingiustizia economica e capii che i
bianchi poveri erano sfruttati proprio come i neri. Attraverso queste
precoci esperienze crebbi profondamente conscio della verita' delle
ingiustizie nella nostra societa'.

Cosi' quando nel 1944 entrai come matricola al Collegio Morehouse di
Atlanta, il mio interesse per l'ingiustizia razziale ed economica era gia'
consistente. Durante gli studi al Morehouse lessi per la prima volta il
Saggio sulla disobbedienza civile di Thoreau. Affascinato dall'idea del
rifiuto di cooperare con un sistema ingiusto, fui colpito cosi'
profondamente che rilessi l'opera diverse volte. Questo fu il mio primo
contatto intellettuale con la teoria della resistenza nonviolenta.

* La filosofia sociale

Comunque, finche' non entrai al Seminario teologico Crozer, nel 1948, non
cominciai una seria ricerca intellettuale di un metodo per eliminare il
male sociale. Sebbene il mio maggior interesse fosse nel campo della
teologia e della filosofia, trascorsi molto tempo a leggere le opere dei
grandi filosofi sociali. Una delle mie prime letture fu Cristianesimo e
crisi sociale di Walter Rauschenbusch, che lascio' un'impronta indelebile
nel mio pensiero col darmi una base teologica per l'interesse ai problemi
sociali, che era gia' sorto in me come risultato delle mie prime
esperienze. Naturalmente, vi erano punti sui quali dissentivo da
Rauschenbusch. Sentivo che egli era stato vittima del "culto
dell'inevitabile progresso" proprio del XIX secolo, che lo portava a un
superficiale ottimismo nei riguardi della natura umana. Per di piu', egli
giungeva pericolosamente vicino all'identificazione del Regno di Dio con un
particolare sistema sociale ed economico - una tendenza che non dovrebbe
mai trovarsi nella Chiesa. Ma, a dispetto di queste manchevolezze,
Rauschenbusch aveva reso un grande servizio alla Chiesa Cristiana
sostenendo che il Vangelo si occupa dell'uomo intero; non solo della sua
anima ma del suo corpo, non solo del suo benessere spirituale ma del suo
benessere materiale. Dopo la lettura di Rauschenbusch, ho sempre conservato
la convinzione che qualsiasi religione, che professa l'interesse per le
anime degli uomini e non per le condizioni sociali ed economiche che
sfregiano l'anima, e' una religione spiritualmente moribonda in attesa del
giorno della sepoltura. E' stato affermato giustamente: "Una religione che
finisce con l'individuo, muore".

Dopo aver letto Rauschenbusch, mi volsi a un serio studio delle teorie
sociali ed etiche dei grandi filosofi, da Platone e Aristotele fino a
Rousseau, Hobbes, Bentham, Mill e Locke. Tutti questi maestri stimolarono
il mio pensiero - quale che fosse - e, mentre trovavo affermazioni da
discutere in ciascuno di essi, nondimeno imparai moltissimo dal loro studio.

* Lo studio dei marxismo

Durante le vacanze di Natale del 1949 decisi di impiegare il mio tempo
libero leggendo Marx per tentare di comprendere l'attrazione del comunismo
su molte persone. Per la prima volta esaminai attentamente Il Capitale e il
Manifesto dei comunisti. Lessi anche alcuni saggi critici sul pensiero di
Marx e Lenin. Durante la lettura di questi scritti di comunisti, tracciai
certe conclusioni che sono rimaste in me fino ad oggi come convinzioni.
Anzitutto, respinsi la loro interpretazione materialistica della storia. Il
comunismo, dichiaratamente laico e materialista, non ha posto per Dio.
Questo non ho mai potuto accettarlo perche', come cristiano, credo
nell'esistenza in questo universo di un potere personale creativo, che
costituisce il fondamento e l'essenza di tutta la realta' - un potere che
non puo' essere spiegato in termini materialistici. La storia e'
fondamentalmente governata dallo spirito, non dalla materia. In secondo
luogo, dissentivo fortemente dal relativismo etico del comunismo. Poiche'
per i comunisti non c'e' un governo divino, ne' un ordine morale assoluto,
non esistono principi fissi e immutabili; di conseguenza quasi tutto -
forza, violenza, assassinio, menzogna - e' un mezzo giustificabile per
raggiungere il fine ultimo. Questo genere di relativismo era ripugnante per
me. Fini costruttivi non possono mai dare assoluta giustificazione morale a
mezzi distruttivi, per la ragione che, in ultima analisi, il fine e'
preesistente nel mezzo. In terzo luogo, ero contrario al totalitarismo
politico del comunismo. Nel comunismo l'individuo finisce per essere
soggetto allo Stato. In verita', i marxisti sostengono di solito che lo
Stato e' una realta' "provvisoria", che deve essere eliminata quando sorge
la societa' senza classi; ma lo Stato, finche' e' in vita, e' il fine e
l'uomo soltanto un mezzo verso quel fine. E se i cosiddetti diritti o
liberta' di ogni uomo fanno opposizione al raggiungimento di quel fine,
essi vengono semplicemente spazzati via. La sue liberta' di espressione, la
sua liberta' di votare, di ascoltare le notizie che preferisce o di
scegliere i libri, vengono tutte limitate. Nel comunismo, difficilmente
l'uomo diventa piu' di un ingranaggio privo di personalita' nella ruota
dello Stato.

Questa negazione della liberta' individuale era riprovevole secondo me.
Sono convinto, ora come allora, che l'uomo e' un fine in quanto e' figlio
di Dio. L'uomo non e' fatto per lo Stato; lo Stato e' fatto per l'uomo.
Privare l'uomo della liberta' significa relegarlo alla condizione di cosa,
piuttosto che elevarlo allo stato di persona. L'uomo non deve mai essere
trattato come un mezzo al servizio dello Stato, ma sempre come un fine in
se stesso.

* La sfida del comunismo

Tuttavia, a dispetto del fatto che la mia risposta al comunismo era ed e'
negativa e che lo consideravo fondamentalmente dannoso, c'erano punti nei
quali lo trovavo stimolante. Il defunto Arcivescovo di Canterbury, William
Temple, si riferiva al comunismo come ad un'eresia cristiana. Con cio' egli
intendeva dire che il comunismo ha afferrato certe verita' che sono parti
essenziali della concezione cristiana, ma che ha unito ad esse concetti e
pratiche che nessun cristiano potrebbe mai accettare o professare. Il
comunismo sfidava il defunto Arcivescovo e dovrebbe sfidare ogni cristiano
- come sfidava me - ad un crescente interesse per la giustizia sociale. Pur
con le sue false ipotesi e i cattivi metodi, il comunismo crebbe come una
protesta contro le sofferenze dei poveri. Il comunismo in teoria metteva in
evidenza una societa' senza classi e l'interesse per la giustizia sociale,
sebbene il mondo sappia da una dolorosa esperienza che in pratica ha creato
nuove classi e un nuovo genere di ingiustizia. Il cristiano dovrebbe sempre
essere stimolato da qualsiasi protesta contro l'ingiusto trattamento dei
poveri, poiche' il Cristianesimo e' esso stesso una tale protesta, in
nessun luogo espressa piu' eloquentemente che nelle parole di Gesu': "Lo
Spirito del Signore e' su di me, perche' Egli mi ha consacrato a predicare
il Vangelo ai poveri; Egli mi ha inviato a sanare i sofferenti, e ad
annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione della vista ai
ciechi, a mettere in liberta' coloro che sono oppressi, a proclamare l'anno
di grazia dei Signore".

Cercai anche risposte sistematiche alla critica di Marx della moderna
cultura borghese. Egli presentava il capitalismo essenzialmente come una
lotta fra i proprietari dei mezzi di produzione ed i lavoratori, che Marx
considerava i veri produttori. Marx interpretava le forze economiche come
il processo dialettico mediante il quale la societa' muoveva dal
feudalesimo al socialismo attraverso il capitalismo, essendo la lotta tra
classi economiche dagli interessi inconciliabili il motore principale di
questo movimento storico. Ovviamente questa teoria non teneva conto di
numerosi e significativi aspetti - politici, economici, morali, religiosi e
psicologici - che hanno giocato un ruolo vitale nel foggiare la
costellazione di istituzioni e di idee, nota oggi come la "civilta'
occidentale". Inoltre, era una concezione invecchiata nel senso che il
capitalismo descritto da Marx presentava una somiglianza solo parziale col
capitalismo che conosciamo oggi in questo paese.

* Critica dei comunismo e del capitalismo

Ma, nonostante le deficienze della sua analisi, Marx aveva sollevato alcune
questioni fondamentali. Fin dalla prima adolescenza fui profondamente
turbato dall'abisso esistente fra la ricchezza superflua e la poverta'
abietta, e la lettura di Marx mi rese ancor piu' consapevole di questo
abisso. Sebbene il capitalismo americano moderno avesse grandemente ridotto
tale divario attraverso riforme sociali, c'era ancora bisogno di una
migliore distribuzione della ricchezza. Inoltre, Marx aveva rivelato il
pericolo della ricchezza e del profitto come unica base di un sistema
economico: il capitalismo corre sempre il pericolo di ispirare gli uomini
ad essere piu' interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere. Noi siamo
inclini a giudicare il successo dall'indice dei nostri salari o dalle
dimensioni delle nostre automobili, piuttosto che dalla qualita' del nostro
servizio e delle relazioni verso l'umanita' - in questo modo il capitalismo
puo' portare a un materialismo pratico, che e' dannoso quanto il
materialismo insegnato dal comunismo.

In breve, ho letto Marx come lessi tutti gli autorevoli pensatori storici -
da un punto di vista dialettico, combinando un parziale "si'" ed un
parziale "no". In quanto Marx ha posto un materialismo metafisico, un
relativismo etico e un totalitarismo che strangola, ho risposto con un
deciso "no"; ma in quanto ha mostrato la debolezza del capitalismo
tradizionale, ha contribuito allo sviluppo di una determinata autocoscienza
nelle masse e ha stimolato la coscienza sociale delle Chiese cristiane, ho
risposto con un preciso "si'".

La lettura di Marx mi convinse anche che la verita' non si trova ne' nel
marxismo ne' nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verita'
parziale. Storicamente il capitalismo non riusci' a vedere la verita'
nell'impresa collettiva e il marxismo non riusci' a vederla nell'iniziativa
privata. Il capitalismo del XIX secolo non capi' che la vita e' anche
sociale e il marxismo non comprese e ancora non comprende che la vita e'
anche individuale e personale. Il Regno di Dio non e' ne' la tesi
dell'iniziativa individuale ne' l'antitesi dell'impresa collettiva, ma la
sintesi che riconcilia le verita' di entrambe.

Durante la mia permanenza al Crozer, venni anche a contatto per la prima
volta con la posizione pacifista attraverso una conferenza del Dr. A. J.
Muste. Fui profondamente commosso dal discorso del Dr. Muste, ma per niente
convinto della possibilita' di mettere in pratica la sua posizione. Come la
maggior parte degli studenti del Crozer, sentivo che la guerra, mentre non
poteva mai essere un bene positivo o assoluto, poteva servire come un bene
negativo nel senso di impedire la diffusione e la crescita di una forza
malvagia. La guerra, per quanto orribile, poteva essere preferibile alla
resa a un sistema totalitario nazista, fascista o comunista.

* Lo studio di Nietzsche e di Gandhi

Durante questo periodo avevo quasi disperato del potere dell'amore di
risolvere i problemi sociali. Forse la mia fede nell'amore era
temporaneamente scossa dalla filosofia di Nietzsche. Avevo letto parti
della Genealogia della morale e tutta la Volonta' di potenza. L'esaltazione
di Nietzsche della potenza - secondo la sua teoria tutta la vita esprime la
volonta' di potenza - era una conseguenza del suo disprezzo per la morale
comune. Egli attaccava l'intera etica ebraico-cristiana - con le sue virtu'
di pieta' e umilta', il suo ascetismo e il suo atteggiamento verso la
sofferenza - come la glorificazione della debolezza, poiche' essa trasforma
in virtu' la necessita' e l'impotenza. Egli mirava allo sviluppo di un
superuomo che superasse l'uomo come l'uomo ha superato la scimmia.

Allora, una domenica pomeriggio, andai a Philadelphia per ascoltare un
sermone del Dr. Mordecai Johnson, presidente della Howard University. Egli
si trovava la' per predicare per la "Fellowship House" di Philadelphia. Il
Dr. Johnson era appena tornato da un viaggio in India e, con mio grande
interesse, parlo' della vita e dell'insegnamento del Mahatma Gandhi. Il suo
messaggio era cosi' profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e
acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi.

Come la maggior parte delle persone, avevo sentito parlare di Gandhi, ma
non lo avevo mai studiato seriamente. Come procedetti nella lettura, fui
profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta. Fui
particolarmente commosso dalla "marcia del sale" verso il mare e dai suoi
numerosi digiuni. Tutto il concetto di Satyagraha (Satya e' verita' che
equivale ad amore e agraha e' forza; Satyagraha, percio', significa forza
della verita' o forza dell'amore) era profondamente significativo per me.
Via via che studiavo piu' profondamente la filosofia di Gandhi, il mio
scetticismo riguardo la potenza dell'amore gradualmente diminui' e giunsi,
per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma
sociale. Prima di leggere Gandhi, avevo quasi concluso che l'etica di Gesu'
fosse efficace soltanto nei rapporti individuali. La filosofia del "porgi
l'altra guancia" e dell'"amate i vostri nemici" sentivo che era valida solo
quando gli individui erano in conflitto con altri individui; quando invece
erano in conflitto gruppi razziali e nazioni, sembrava necessario un
comportamento piu' realistico. Ma dopo aver letto Gandhi, vidi che ero
completamente in errore.

Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l'etica
dell'amore di Gesu' al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla
in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace. L'amore, per
Gandhi, era uno strumento potente per operare un mutamento sociale
collettivo. Fu in questa insistenza gandhiana sull'amore e la nonviolenza
che scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla
ricerca per tanti mesi. La soddisfazione intellettuale e morale che non
avevo saputo ricavare dall'utilitarismo di Bentham e Mill, dai metodi
rivoluzionari di Marx e Lenin, dalla teoria del contratto sociale di
Hobbes, dall'ottimismo del "ritorno alla natura" di Rosseau e dalla
filosofia del superuomo di Nietzsche, la trovai nella filosofia della
resistenza nonviolenta di Gandhi.

Giunsi a sentire che questo era l'unico metodo, moralmente e praticamente
valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la
liberta'.

* La lettura di Reinhold Niebuhr

La mia odissea intellettuale verso la nonviolenza non fini' qui. Durante il
mio ultimo anno nella scuola teologica, cominciai a leggere le opere di
Reinhold Niebuhr. Mi attraevano gli elementi profetici e realistici
nell'appassionato stile di Niebuhr e il profondo pensiero; e mi innamorai
tanto della sua etica sociale che quasi caddi nella trappola di accettare
acriticamente tutto cio' che egli scriveva.

Circa in questo periodo lessi la critica di Niebuhr alla posizione
pacifista. Niebuhr stesso in passato era stato membro del movimento
pacifista. Per diversi anni era stato presidente del Movimento per la
Riconciliazione. La sua rottura con il pacifismo avvenne all'inizio degli
anni trenta, e la prima completa esposizione della sua critica del
pacifismo si trovo' in Uomo morale e societa' immorale. Qui egli
argomentava che non c'era alcuna intrinseca differenza morale fra la
resistenza violenta e nonviolenta. Le conseguenze sociali dei due metodi
erano differenti, egli sosteneva, ma le differenze erano di grado piuttosto
che di genere. Piu' tardi Niebuhr comincio' a mettere in evidenza la
irresponsabilita' di confidare sulla resistenza nonviolenta, quando non
c'era alcun fondamento per credere che essa avrebbe avuto successo
nell'impedire la diffusione della tirannide totalitaria. Essa potrebbe
avere successo, egli sosteneva, soltanto se i gruppi contro cui tale
resistenza avveniva possedessero in qualche misura una coscienza morale,
come era il caso della lotta di Gandhi contro gli inglesi. Il rifiuto
finale del pacifismo, da parte di Niebuhr, era basato principalmente sulla
concezione dell'uomo. Egli sosteneva che il pacifismo non era in grado di
rendere giustizia alla dottrina della Riforma della giustificazione per
fede, sostituendo ad essa un perfezionismo settario che crede "che la
grazia divina realmente solleva gli uomini fuori dalle immorali
contraddizioni della storia e pone l'uomo al di sopra dei peccati del
mondo".

In un primo momento, la critica del pacifismo, fatta da Niebuhr, mi lascio'
in uno stato di confusione. Via via che continuai a leggere, nondimeno,
giunsi a vedere sempre piu' chiaramente le deficienze della sua posizione.
Per esempio, molte sue affermazioni rivelavano che egli interpretava il
pacifismo come una specie di non-resistenza passiva al male, che
manifestava ingenua fiducia nel potere dell'amore. Ma questo era un grande
fraintendimento. Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero
pacifismo non e' non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al male.
Fra le due posizioni c'e' enorme differenza. Gandhi fece resistenza al male
con altrettanto vigore e potenza del resistente violento, ma egli
resistette con l'amore al posto dell'odio. Il vero pacifismo non e' ingenua
sottomissione al potere del male, come sostiene Niebuhr. E' piuttosto un
coraggioso confronto col male attraverso la potenza dell'amore, nella
convinzione che e' meglio essere chi riceve violenza e non chi la infligge,
dal momento che quest'ultimo moltiplica soltanto l'esistenza della violenza
e del dolore nell'universo, mentre il primo puo' sviluppare un senso di
vergogna nell'avversario e con cio' determinare una trasformazione e un
cambiamento del cuore.

* Aspetti positivi di Niebuhr

A dispetto del fatto che trovai molte cose che lasciavano a desiderare
nella filosofia di Niebuhr, c'erano diversi punti nei quali egli influenzo'
il mio pensiero in maniera costruttiva. Il grande contributo di Niebhur
alla teologia contemporanea consiste nel suo rifiuto del falso ottimismo,
caratteristico di una grande parte del liberalismo protestante, senza
cadere nell'anti-razionalismo del teologo continentale Karl Barth o nel
semi-fondamentalismo di altri teologi dialettici. Inoltre, Niebhur studia
con straordinario acume la natura umana, specialmente il comportamento
delle nazioni e dei gruppi sociali. Egli e' acutamente consapevole della
complessita' delle motivazioni umane e della relazione fra moralita' e
potere. La sua teologia e' un persistente richiamo della realta' del
peccato ad ogni livello dell'esistenza dell'uomo. Questi elementi nel
pensiero di Niebhur mi aiutarono a riconoscere le illusioni di un
superficiale ottimismo concernente la natura umana, e i pericoli di un
falso idealismo. Mentre credevo ancora nella potenzialita' di bene, insita
nell'uomo, Niebhur mi fece altresi' comprendere la sua potenzialita' di
male. Inoltre, Niebhur mi aiuto' a riconoscere la complessita' delle
implicazioni sociali dell'uomo e l'evidente realta' del male collettivo.

Sentivo che molti pacifisti non riuscivano a vedere questo. Quasi tutti
avevano un ottimismo infondato riguardo all'uomo e tendevano inconsciamente
verso l'ipocrisia. La mia rivolta contro questi atteggiamenti, sotto
l'influsso di Niebhur, spiega il fatto che - a dispetto della mia forte
inclinazione verso il pacifismo - non entrai mai a far parte di
un'organizzazione pacifista. Dopo aver letto Niebhur, cercai di arrivare a
un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione
pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali
circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero
maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi morali
che i non-pacifisti cristiani affrontano.

* All'Universita' di Boston

Lo stadio successivo del mio pellegrinaggio intellettuale alla nonviolenza
venne durante i miei studi per il dottorato all'Universita' di Boston. Qui
ebbi l'occasione di parlare a molti esponenti della nonviolenza, sia
studenti sia professori ospiti dell'Universita'. La Scuola di teologia
dell'Universita' di Boston, sotto l'influenza di Dean Walter Muelder e del
professor Allen Knight Chalmers, aveva una profonda simpatia per il
pacifismo. Sia Dean Muelder che il Dr. Chalmers avevano una passione per la
giustizia sociale, che derivava non da un superficiale ottimismo, ma da una
fede profonda nelle possibilita' degli esseri umani quando permettono a se
stessi di divenire cooperatori di Dio. Fu all'Universita' di Boston che
giunsi a comprendere che Niebhur aveva sopravvalutato la corruzione della
natura umana. Il suo pessimismo riguardo la natura umana non era bilanciato
da un ottimismo concernente la natura divina. Egli era cosi' immerso a
diagnosticare la malattia del peccato nell'uomo, che aveva trascurato la
cura della grazia.

Studiai filosofia e teologia all'Universita' di Boston sotto la guida di
Edgar S. Brightman e L. Harold De Wolf. Entrambi stimolarono moltissimo il
mio pensiero. Fu principalmente sotto questi insegnanti che studiai la
filosofia personalistica - la teoria che la soluzione del significato della
realta' ultima si trova nella personalita'. Questo idealismo personale
rimane tuttora la mia fondamentale posizione filosofica. L'insistenza del
personalismo che soltanto la personalita' - finita e infinita - e' in
definitiva reale rafforzo' in me due convinzioni: mi diede un fondamento
metafisica e filosofico per l'idea di un Dio personale, e mi diede una base
metafisica per affermare la dignita' e il valore di ogni personalita' umana.

* Lettura di Hegel e conclusione degli studi

Poco prima della morte del Dr. Brightman, cominciai a studiare con lui la
filosofia di Hegel. Sebbene il corso fosse principalmente uno studio
dell'opera monumentale di Hegel, Fenomenologia dello Spirito, passai il mio
tempo libero leggendo la sua Filosofia della storia e la Filosofia del
diritto. C'erano punti nella filosofia di Hegel coi quali mi trovavo in
forte disaccordo. Per esempio, il suo idealismo assoluto era, secondo me,
razionalmente imperfetto, poiche' tendeva ad annullare i molti nell'uno. Ma
c'erano altri aspetti del suo pensiero che trovai stimolanti. La sua
affermazione che "la verita' e' il tutto" mi guido' a un metodo filosofico
di coerenza razionale. La sua analisi del processo dialettico, a dispetto
delle sue manchevolezza, mi aiuto' a capire che lo sviluppo avviene
attraverso la lotta. Nel 1954 terminai la mia educazione formale con tutte
queste forze intellettuali relativamente divergenti, orientandomi verso una
positiva filosofia sociale. Uno degli aspetti principali di questa
filosofia era la convinzione che la resistenza nonviolenta era uno dei
mezzi piu' potenti accessibili alla gente oppressa nella sua ricerca di
giustizia sociale. In quel tempo, tuttavia, avevo semplicemente una
comprensione e un apprezzamento intellettuale di questa posizione, senza
nessuna ferma decisione di metterla in pratica in una situazione reale.

Quando mi recai a Montgomery come pastore, non avevo la minima idea che
piu' tardi mi sarei trovato coinvolto in una crisi in cui la resistenza
nonviolenta sarebbe stata applicabile. Non fui io ad iniziare la protesta
ne' a suggerirla. Semplicemente risposi alla richiesta di un portavoce
della popolazione. Quando la protesta comincio', la mia mente, consciamente
o inconsciamente, fu ricondotta al Discorso della Montagna, con i suoi
sublimi insegnamenti sull'amore, e al metodo gandhiano della resistenza
nonviolenta. Col passare dei giorni, giunsi a vedere sempre piu'
chiaramente il potere della nonviolenza. Vivendo attraverso la reale
esperienza della protesta, la nonviolenza divenne piu' di un metodo a cui
davo il mio assenso intellettualmente; essa divenne dedizione ad una forma
di vita. Molte questioni che non avevo chiarito intellettualmente riguardo
alla nonviolenza furono risolte nella sfera dell'azione pratica.

* Sei aspetti fondamentali della nonviolenza

Dal momento che la filosofia della nonviolenza ha avuto un tale ruolo
positivo nel movimento di Montgomery, puo' essere saggio volgersi ad una
breve discussione di alcuni aspetti fondamentali di questa filosofia.

In primo luogo, si deve sottolineare che la resistenza nonviolenta non e'
un metodo per codardi; essa e' autentica resistenza. Se uno usa questo
metodo perche' ha paura o semplicemente e' privo degli strumenti di
violenza, costui non e' un vero nonviolento. Questa e' la ragione per cui
Gandhi spesso diceva che se la vilta' e' l'unica alternativa alla violenza,
e' meglio combattere. Egli fece questa affermazione conscio del fatto che
c'e' sempre un'altra alternativa: non e' necessario che un individuo o un
gruppo si sottomettano a qualche ingiustizia, ne' che usino la violenza per
riparare tale ingiustizia; c'e' la via della resistenza nonviolenta. Questa
e' in definitiva la via dell'uomo forte. Non e' un metodo di stagnante
passivita'. La frase "resistenza passiva" offre spesso la falsa impressione
che questo e' una sorta di "metodo del far niente", in cui il resistente
accetta il male quietamente e passivamente. Ma nessuna affermazione e' piu'
lontana di questa dalla verita'. Perche', mentre il resistente nonviolento
e' passivo nel senso che non e' fisicamente aggressivo verso il suo
avversario, la sua mente e le sue emozioni sono sempre attive,
costantemente cercando di persuadere l'avversario che egli e' nel torto.
Questo metodo e' passivo fisicamente, ma fortemente attivo spiritualmente.
Non e' non-resistenza passiva al male, e' invece attiva resistenza
nonviolenta al male.

Un secondo fatto fondamentali che caratterizza la nonviolenza e' che essa
non cerca di sconfiggere o umiliare l'avversario, ma di conquistare la sua
amicizia e comprensione. Il resistente nonviolento deve spesso esprimere la
sua protesta attraverso la non-cooperazione o il boicottaggio, ma egli
comprende che questi non sono fini in se stessi; essi sono semplicemente
mezzi per svegliare un senso di vergogna morale nell'avversario. Il fine e'
la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza e' la
creazione della comunita' nell'amore, mentre la conseguenza della violenza
e' la tragica amarezza.

Una terza caratteristica di questo metodo e' che l'attacco e' diretto
contro le forze del male piuttosto che contro le persone alle quali succede
di stare facendo il male. E' il male che il resistente nonviolento cerca di
sconfiggere, non le persone ingannate dal male. Se sta combattendo
l'ingiustizia razziale, il resistente nonviolento ha l'intuito di capire
che la tensione fondamentale non e' fra le razze. Come mi piace dire alla
gente di Montgomery: "La tensione in questa citta' non e' fra la gente
bianca e quella nera. La tensione e', in fondo, tra giustizia e
ingiustizia, fra le forze della luce e le forze delle tenebre. E se ci
sara' una vittoria, sara' una vittoria non semplicemente per cinquantamila
neri, ma una vittoria per la giustizia e le forze della luce. Noi siamo
fuori per sconfiggere l'ingiustizia e non uomini bianchi che eventualmente
siano ingiusti".

Un quarto punto che caratterizza la resistenza nonviolenta e' una
disponibilita' ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le
percosse dell'avversario senza restituirle. "Fiumi di sangue devono forse
scorrere prima che conquistiamo la liberta', ma deve essere sangue nostro",
diceva Gandhi ai suoi compatrioti. Il resistente nonviolento e' disposto ad
accettare la violenza se necessario, ma mai ad infliggerla. Non cerca di
evitare il carcere. Se andare in prigione e' necessario, egli entra in
prigione "come uno sposo entra nella camera della sposa".

Qualcuno potrebbe chiedere giustamente: "Qual e' la giustificazione del
resistente nonviolento per questa prova alla quale invita gli uomini, per
questa applicazione politica di massa dell'antica dottrina di offrire
l'altra guancia?". La risposta si trova nel riconoscimento che la
sofferenza non meritata e' capace di redimere. La sofferenza (lo capisce il
resistente nonviolento) ha tremende possibilita' di educare e trasformare.
"Le cose di fondamentale importanza per il popolo non sono assicurate dalla
sola ragione, ma devono essere acquistate con la sua sofferenza", affermava
Gandhi. Egli aggiunge: "la sofferenza e' infinitamente piu' potente della
legge della giungla per convertire l'avversario e aprire le sue orecchie,
che altrimenti sono chiuse alla voce della ragione".

Il quinto punto riguardante la resistenza nonviolenta e' che essa evita non
solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello
spirito. Il resistente nonviolento non solo rifiuta di sparare
all'avversario, ma rifiuta anche di odiarlo. Al centro della nonviolenza
sta il principio dell'amore. Il resistente nonviolento sostiene che, nella
lotta per la dignita' umana, i popoli oppressi del mondo non devono
soccombere alla tentazione di divenire pieni di rabbia o di indulgere a
campagne di odio. Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che
intensificare l'esistenza dell'odio nell'universo. Lungo il corso della
vita, qualcuno deve avere giudizio e moralita' sufficienti per troncare la
catena dell'odio. Questo puo' essere fatto soltanto proiettando l'etica
dell'amore al centro delle nostre vite.

Parlando di amore, a questo punto, non ci stiamo riferendo a qualche
emozione sentimentale o affettiva. Sarebbe privo di senso esortare gli
uomini ad amare i loro oppressori in un senso affettivo. Amore in questo
contesto significa comprensione, buona volonta' redentrice. Qui la lingua
greca viene in nostro aiuto. Ci sono tre parole per esprimere amore nel
Nuovo Testamento in greco. La prima e' eros. Nella filosofia di Platone
eros significa l'aspirazione dell'anima al regno del divino. Essa e' giunta
oggi ad esprimere una specie di amore estetico o romantico. La seconda
parola e' philia che significa affetto intimo tra amici personali. Philia
denota una specie di amore reciproco; la persona ama perche' e' amata.
Quando diciamo di amare i nostri oppositori non ci riferiamo ne' ad eros
ne' a philia; parliamo di un amore che e' espresso dal termine greco agape.
Agape significa comprensione, buona volonta' redentrice per tutti gli
uomini. E' un amore traboccante, puramente spontaneo, non motivato,
ingiustificato e creativo. Non e' messo in moto da qualche qualita' o
funzione del suo oggetto. E' l'amore di Dio operante nel cuore umano.

Agape e' amore disinteressato. E' amore nel quale l'individuo non cerca il
proprio bene, ma il bene del prossimo (1 Cor. 10, 24). Agape non comincia
col discriminare fra persone degne o indegne, o le qualita' che le persone
possiedono. Comincia con l'amare gli altri per il loro bene. E' un
"interesse completamente altruistico per gli altri", che scopre il prossimo
in ogni uomo che incontra. Percio', agape non fa nessuna distinzione fra
amico e nemico; si dirige verso entrambi. Se uno ama un individuo
semplicemente a causa della benevolenza che riceve, lo ama per i benefici
da guadagnare attraverso l'amicizia, piuttosto che per il bene dell'amico.
Di conseguenza, il miglior modo di assicurarvi che l'Amore e'
disinteressato e' di provare amore per il prossimo-nemico, dal quale non
potete attendervi nessun bene in cambio ma solo ostilita' e persecuzione.

Un altro punto fondamentale riguardante l'agape e' che nasce dal bisogno
dell'altra persona - il suo bisogno di appartenere alla parte migliore
della famiglia umana. Il samaritano che aiuto' l'ebreo sulla strada di
Gerico fu "buono" perche' rispose al bisogno umano che gli fu presentato.
L'amore di Dio e' eterno e non viene meno, perche' l'uomo ha bisogno di
questo amore. S. Paolo ci assicura che l'atto di amore della redenzione fu
compiuto "mentre eravamo ancora peccatori" - cioe' nel momento del nostro
piu' grande bisogno di amore. Poiche' la personalita' dell'uomo bianco e'
grandemente distorta dalla segregazione, e la sua anima e' grandemente
sfregiata, egli ha bisogno dell'amore del nero. Il nero deve amare il
bianco, perche' il bianco ha bisogno del suo amore per rimuovere le proprie
tensioni, insicurezze e paure.

Agape non e' amore debole, passivo. E amore in azione. Agape e' amore che
cerca di preservare e creare comunione. E' insistenza sulla comunione anche
quando qualcuno cerca di romperla. Agape e' disposizione a percorrere
qualunque distanza per restaurare la comunione. Non si ferma al primo
miglio, ma fa anche il secondo per restaurare la comunione. E' disposizione
a perdonare, non sette volte, ma settanta volte sette per restaurare la
comunione. La croce e' l'eterna espressione della distanza alla quale Dio
andra' allo scopo di restaurare la comunione infranta. La resurrezione e'
un simbolo del trionfo di Dio su tutte le forze che cercano di ostacolare
la comunione. Lo Spirito Santo e' la comunione continua, creante la
realta', che si muove attraverso la storia. Colui che opera contro la
comunione, sta operando contro l'intera creazione. Percio', se rispondo di
ricambiare l'odio, non faccio altro che intensificare la spaccatura nella
comunione infranta. Posso soltanto sanare la rottura della comunione
affrontando l'odio con l'amore. Se affronto l'odio con l'odio, divengo
privo di personalita', perche' la creazione e' cosi' concepita che la mia
personalita' puo' realizzarsi soltanto nel contesto della comunione. Booker
T. Washington aveva ragione: "Non lasciatevi spingere da nessuno cosi' in
basso da giungere al punto di odiarlo". Quando vi spinge cosi' in basso, vi
porta ad operare contro la comunione; vi trascina al punto di sfidare la
creazione e cosi' diventare privi di personalita'.

In conclusione, agape significa il riconoscimento del fatto che tutta la
vita e' in correlazione. Tutta l'umanita' e' coinvolta in un singolo
processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del
male al mio fratello non importa cosa egli mi stia facendo - faccio del
male a me stesso. Per esempio, i bianchi spesso rifiutano il sussidio
federale all'educazione allo scopo di non concedere ai neri i loro diritti;
ma poiche' tutti gli uomini sono fratelli, essi non possono escludere i
bambini dei neri senza far del male ai propri. Finiscono per danneggiare se
stessi, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Perche' accade
questo? Perche' gli uomini sono fratelli. Se mi fai del male, lo fai a te
stesso.

L'amore, agape, e' l'unico che puo' ripristinare la comunione, quando e'
spezzata. Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la
comunione, di resistere all'ingiustizia, e di andare incontro ai bisogni
dei miei fratelli.

Un sesto fatto fondamentale riguardo alla resistenza nonviolenta e' che
essa si basa sulla convinzione che l'universo e' dalla parte della
giustizia. Di conseguenza, il credente nella nonviolenza ha profonda fede
nel futuro. Questa fede e' un'altra ragione per cui il resistente
nonviolento puo' accettare la sofferenza senza vendicarsi. Poiche' egli sa
che nella sua lotta per la giustizia ha un alleato cosmico. E' vero che ci
sono devoti credenti nella nonviolenza che trovano difficile credere in un
Dio personale. Ma anche queste persone credono nell'esistenza di qualche
forza creativa che lavora per la totalita' universale. Sia che la chiamiamo
processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di
impareggiabile potenza e infinito amore, c'e' una forza creativa in questo
universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realta' in un
tutto armonioso.



4. MAESTRI. FRANCO FORTINI: MARXISMO

[Abbiamo estratto questo articolo del 1983 da Franco Fortini, Non solo
oggi, Editori Riuniti, Roma 1991 (una bella raccolta di testi brevi e
dispersi curata da Paolo Jachia, qui fine editore ma anche autore di egregi
studi - vedi ad esempio le sue belle monografie laterziane su Bachtin e De
Sanctis). Li' il testo che riportiamo e' alle pagine 145-149. Era
primieramente apparso sul "Corriere della sera" del 29 marzo 1983. Franco
Fortini (1917-1994) e' stato uno dei nostri maestri piu' grandi]

Quelli che hanno la mia eta' Marx l'hanno letto alla luce delle nostre
guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi,
del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. "E tu come li
chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?", mi si chiedera' ora;
forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo.
Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal
Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a
Shanghai, a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut... I
cacciatori di "bestie marxiste" (cosi' si esprimono) devono sempre aver
avuto difficolta' ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano,
marxista, socialista, comunista, bolscevico e cosi' via.

Mi spieghero' meglio, per loro beneficio. C'e' una foto russa, del tempo
della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli,
cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall'arm i fucili
dello zar. Questo e' marxismo. C'e' un'altra foto, Varsavia 1956, un
giovane magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una
sterminata folla operaia che il giorno dopo l'Armata rossa, come a
Budapest, puo' volerli morti o deportati. Anche questo e' marxismo. Con chi
queste cose dice di non capirle, di marxismo e' meglio non parlare neanche.

Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia
della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze
dell'ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sul miei scaffali
invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di
venire trascinato alla tortura e alla fossa com'e' accaduto e ogni giorno
accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco
e' mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero,
come lo stadio di Santiago del Cile, le "bestie marxiste". So chi mi
avrebbe aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi
conoscono perche' hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste
righe per salutare Alaide Foppa, mia collega di letteratura italiana a
Citta' di Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l'ha
ammazzata, in Guatemala. Anche questo e' marxismo.

Cominciai nel 1940 col Manifesto, per consiglio di Giacomo Noventa e
Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Trockij e
Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo
pratico. A Zurigo, nell'inverno 1943-44, non so quanti libri lessi,
riassunsi e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico.
Si faceva fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo,
mi fu molto utile; l'aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo,
seppi poi, di Saragat. L'apprendistato comprendeva testi anche troppo
disparati: Malraux e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard...

A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche (Le lotte
di classe in Francia, Il diciotto brumaio, La guerra civile in Francia),
parte della Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza
sintetica, della Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del
Capitale, e a partire dal 1949 quei Manoscitti economico-filosofici del
1844 oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro
capacita' di guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e di
dirci parole di incredibile attualita'. E altro ancora.

Dopo vent'anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo Marx;
dopo Lukacs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao e gli
amici torinesi di "Quaderni rossi", a quelle pagine non ho piu' sentito il
bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia
intitolata, appunto, "Il pensiero nelle opere dei classici":

Non si cura

che tu gia' lo conosca; gli basta

che tu l'abbia dimenticato...

senza l'insegnamento

di chi ieri ancora non sapeva

perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.

Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se fondamentale, quel
pensiero non e' se non un passaggio dell'ininterrotto processo che porta da
luce a oscurita' poi ad altra luce, e dal credere di sapere al sapere di
credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per
la gioia dei piu' sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di aver
detto sempre e cioe' di non aver creduto mai che il pensiero di Marx
potesse fungere da chiave interpretativa del mondo piu' o meglio di quanto
lo faccia, ad esempio, la poesia dell'Alighieri?  Una educazione alla
storia ci faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben
prima e sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.

Quando, per l'Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci viene
ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx e' filosofia superata, non ho
difficolta' ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa significa
superare la filosofia di Platone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la
teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di
profitto sono manifestamente errate, non ho difficolta' ad ammetterlo;
anche perche' mai l'ho impiegata per capire come vadano le cose di questo
mondo. Quando mi si dimostra che l'idea, certo marxiana, di un passaggio
dalla preistoria umana alla storia mediante la fine della proprieta'
privata, dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia
fallace e senz'altro smentita dai "socialismi reali", apertamente lo
riconosco; anche perche' ho sempre attribuita la figura d'un progresso
illimitato all'errore che afferma la indefinita perfettibilita' dell'uomo,
un errore illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.

Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie e' falsa, che la lotta
delle classi e' una favola e che il socialismo e' una utopia senza neanche
l'utilita' pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento di
istruttoria. Primo, perche' il pensiero epistemologico contemporaneo, dalla
critica psicanalitica del soggetto fino alla semiologia, conferma la fine
d'ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realta', come fra mondo e
concezioni del mondo; secondo, perche' a tutt'oggi e' difficile negare - e
lo si sapeva ben prima di Marx - l'esistenza di ininterrotti conflitti di
interessi fra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione e la
ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi del
produrre e determinanti l'assetto, o lo sconvolgimento, dell'intera
societa'. Per quanto e' del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che
esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.

La volonta' di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo grazie
alla mediazione dell'etica e della religione. Marx non ne ha data nessuna
ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista, credo si
debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre piu'
sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il "sogno di una
cosa" e' la realizzata capacita' dei singoli e delle collettivita' di
operare sul rapporto fra necessita' e liberta', fra destino e scelta, fra
tempo e attimo.

Il movimento socialista e comunista si e' fondato per cent'anni su quel che
si chiamava l'insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l'idea che il
passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo delle
forze produttive, della industrializzazione e della crescita della classe
operaia; e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi
di verita' e di errore si e' legato il "socialismo reale". Oggi gli esiti
del passato ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici non
solo per cadute politiche, economiche o culturali ne' solo per costi umani;
ma perche', anche al di fuori dei paesi comunisti, il "marxismo reale" ha
accettato il quadro mentale del suo antagonista: primato della tecnologia,
etica della efficienza, sfruttamento dei piu' deboli. Sembrano falliti
tutti i tentativi per uscire da questa logica: massimo quello cinese.
Eppure, Bloch dice, non e' stata data nessuna prova che quella uscita sia
impossibile. L'eredita' marxiana e' divisa: una meta' e' ancora nostra,
l'altra e' dei nemici del socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera,
anche rossa.

Quanto alla mente geniale morta cent'anni fa, e' anche grazie ad essa che
e' stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalita' e dei loro
sepolcri. Pero' ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a
Nanchino la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi
fosse possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una
medesima parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici.
Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera
implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le
societa' che preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli
scavino, quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per
aver voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a
volere. Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta,
interpretata, "salvata". E o lo sara' o non ci sara' piu' - sappiamo che e'
possibile - nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti "salvi" o
non sarai esistito mai.

L'amico di Federico Engels non e' stato davvero il primo a dircelo.
L'ultimo si'. E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso, "il
movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" (Ideologia tedesca,
1845-46, I, a). Anche questo e' marxismo.



5. GRATITUDINE. PEPPE SINI: CINQUE NOTE PER FRANCO FORTINI

[Non si dovrebbero scrivere queste cose, lo so]

1. Ero un ragazzino quando lessi per la prima volta Franco Fortini; sapevo
che era un grande poeta, sentii che diceva parole aspre di verita'. Mi
dissi: cosi' si deve scrivere.

2. Giunsi presto all'eta' delle scelte, e della ragione. Avevo due fari, e
li ho ancora: Leopardi e Cervantes. Indignato dalla menzogna e
dall'ingiustizia, entrai nell'impegno politico, e non ne sono piu' uscito:
ho vissuto anni in cui per scaldarmi andavo a leggere nelle stazioni, e
lunghi periodi in cui mi sono nutrito solo a pane e acqua; ed ho subito
pestaggi ed avuto idee, mi hanno processato per aver scritto la verita' e
un giorno per qualche ora ho fermato i decolli dei bombardieri che andavano
a far strage; ho trovato amici nelle cui mani metterei la mia vita e visto
morire persone che amavo. Da Franco Fortini piu' che da ogni altro imparai
la serieta' e la virtu' di dire di no.

3. Tra le cose piu' care che ho in casa, ci sono alcune lettere di Franco
Fortini, brevi biglietti di generose parole e di una solidarieta' cosi'
magnanima che mi fa ancora arrossire (in uno ricorda anche la sua
partecipazione alla marcia per la pace di Aldo Capitini e quel che ne
segui'). Non tradiro' mai l'uomo che le ha scritte. Come non tradiro' mai
Primo Levi.

4. Quando Fortini mori', ne feci a Viterbo una commemorazione, aprendo una
seduta del Consiglio Provinciale. E pensavo a quanto tagliente sarebbe
stato Fortini se lo avesse potuto immaginare, quel consesso di noi meschini
barbogi che si levo' in piedi e in silenzio in suo onore.

5. Tra i ricordi piu' belli della mia vita c'e' il giorno in cui nel centro
sociale occupato di Viterbo, al termine di un training di formazione alla
nonviolenza, cantammo insieme l'Internazionale scritta da Fortini, con
l'emozione che avevo provato quando - anni prima - una notte cantammo
l'Internazionale di Potter con alcuni amici e compagni di lotta sudafricani
esuli mentre ancora imperava il regime dell'apartheid, in un coro di lingue
diverse, fraterne e sororali, che era figura di quella futura umanita' che
e' gia' presente ogni volta che tu compi l'azione buona. Anche questo e'
nonviolenza.



6. RILETTURE. LAURA BOELLA: CUORI PENSANTI

Laura Boella, Cuori pensanti, Edizioni Tre Lune, Mantova 1998, pp. 136,
lire 22.000. La grande studiosa tratteggia i ritratti di Hannah Arendt,
Simone Weil, Edith Stein e Maria Zambrano.



7. RILETTURE. LAURA BOELLA: LE IMPERDONABILI

Laura Boella, Le imperdonabili, Tre Lune Edizioni, Mantova 2000, pp. 148,
euro 11,36. Qui la finissima studiosa propone i ritratti di Etty Hillesum,
Cristina Campo, Ingeborg Bachmann, Marina Cvetaeva.



8. RILETTURE. GUSTAVO GUTIERREZ: TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

Gustavo Gutierrez, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972,
1981, pp. 320. Un libro fondamentale.



9. RILETTURE. LAURANA LAJOLO: GRAMSCI UN UOMO SCONFITTO

Laurana Lajolo, Gramsci un uomo sconfitto, Rizzoli, Milano 1980, 1981, pp.
224. Una acuta e appassionata narrazione biografica, densa di pensiero e
umanita'.



10. RILETTURE. JUERGEN MOLTMANN: TEOLOGIA DELLA SPERANZA

Juergen Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, 1981,
pp. 392. Un testo classico della riflessione contemporanea.



11. RILETTURE. PAUL RICOEUR: LA CRITICA E LA CONVINZIONE

Paul Ricoeur, La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997, pp. 264,
lire 38.000. Conversando con Franois Azouvi e Marc de Launay, Ricoeur
ripercorre la sua vita, la sua opera, la sua riflessione.



12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



13. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it



Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it



Numero 385 del 15 ottobre 2002