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La nonviolenza e' in cammino. 357



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it



Numero 357 del 17 settembre 2002



Sommario di questo numero:

1. Peppe Sini, col cuore tra i denti

2. Sosteniamo "Qualevita"

3. Un libriccino di Danilo Dolci

4. Alcune riviste e newsletter diffuse per e-mail

5. Agnes Heller, Otto massime morali

6. Ernesto Balducci, Introduzione a "La pace. Realismo di un'utopia"

7. Luigi Ferrajoli, democrazia privata

8. La "Carta" del Movimento Nonviolento

9. Per saperne di piu'



1. EDITORIALE. PEPPE SINI: COL CUORE TRA I DENTI

Ho questo vantaggio: quando Saddam Hussein massacrava i kurdi bombardandone
i villaggi, quando Saddam Hussein scatenava la mostruosa guerra con l'Iran,
e il cosiddetto occidente chiudeva un occhio sulla dittatura e plaudiva
alla carneficina, e l'Italia riforniva di armi l'Iraq (ed anche l'Iran,
naturalmente), ebbene, io ero di quelli che organizzavano le manifestazioni
nonviolente contro la mostra mercato armiera di Monteromano, in cui col
patrocinio del Ministero della Difesa i mercanti di morte italiani
esibivano le loro merci affinche' i dittatori del sud del mondo potessero
apprezzarne le virtu' e farne incetta.

Ho questo vantaggio: a tutte le guerre illegali e criminali a cui l'Italia
ha partecipato dagli anni '90 in qua ho cercato di organizzare
un'opposizione rigidamente nonviolenta. Perche' solo la nonviolenza puo'
contrastare la guerra. E la guerra consistendo nell'uccidere masse di
esseri umani (e disponendo oggi di strumenti sufficienti a distruggere la
civilta' umana tutta) e' il massimo crimine contro l'umanita'. E contro la
guerra occorre opporsi nel modo piu' limpido ed intransigente: e questo
modo e' la nonviolenza (poiche' tutti gli altri in qualche misura
compartecipano della guerra, le sono subalterni, ne riproducono forme e
quote e ne espandono la contaminazione).

Ho questo vantaggio: che non sono mai stato complice della retorica delle
"guerre giuste" e della "violenza necessaria"; che mi sono sempre opposto
ai criminali, ai violenti, ai soverchiatori, e ai loro complici e
giustificatori, quale che fosse la loro casacca.

*

Coloro che intendono provocare la fine della civilta' umana sostengono che
un governo che aiuta i terroristi, che uno stato che ha o si sta procurando
armi di sterminio di massa, siano ragion sufficiente a giustificare lo
scatenamento di una guerra che portera' devastazioni e massacri di
dimensioni immani.

E' facile vedere le terribili incongruenze di questo loro scellerato
ragionamento.

Se il governo iracheno ha aiutato i terroristi di Bin Laden responsabili
della strage dell'11 settembre 2001, cosa che mi pare non sia ancora stata
dimostrata ed e' quindi incerta, e' certo che il governo degli Stati Uniti
d'America aiuto' i terroristi di Pinochet responsabili del golpe dell'11
settembre 1973 e delle carneficine e degli orrori che si prolungarono in
Cile per molti anni.

Se l'Iraq possiede o sta cercando di procurarsi armi di sterminio di massa,
cosa che non mi pare sia gia' stata dimostrata, e' certo che gli Usa tali
armi hanno e producono alacremente (ed hanno usato a Hiroshima e Nagasaki).

E ancora: se un singolo atto di terrorismo che provoca un eccidio e' un
crimine mostruoso, la guerra, che consiste di una catena di eccidi, e' un
terrorismo all'ennesima potenza, ed e' il pi mostruoso dei crimini.

E ancora: se l'esistenza di un regime oppressivo merita una guerra, allora
l'oppressione che i potenti del nord ricco del mondo esercitano sulla quasi
totalita' dell'umanita' quale reazione dovrebbe provocare?

Chi propugna la guerra ha smarrito non solo il senso morale, ma il
principio di realta'.

*

Come e' possibile che gli Usa possano minacciare una guera in flagrante
violazione del diritto internazionale e dei piu' elementari principi di
umanita', e l'Onu invece di inviare una forza di polizia internazionale ad
arrestare Bush e la sua cricca di dottori Stranamore si adegua, guaendo
appena appena, alla volonta' onnicida del governo statunitense?

E come e' ammissibile che l'Italia, la cui Costituzione vieta esplcitamente
di partecipare a questa guerra (come gia' a quelle degli anni novanta e a
quella che tuttora continua in Afghanistan a riflettori spenti), si trovi
gia' praticamente arruolata al soldo e al seguito degli hitleriani di
Washington?

Occorre opporsi alla guerra, occorre resistere in difesa del diritto e
dell'umanita'.

Occorre denunciare la guerra come massimo crimine contro l'umanita', e
contrastarla quindi come il peggior nemico dell'umanita' intera. Occorre
contrastarla nel modo piu' intransigente, che e' anche il solo limpido ed
efficace: con la nonviolenza.

*

Occorre dir chiare alcune cose.

- Che l'Onu deve rispettare la sua carta fondamentale, che l'Onu faceva
nascere per opporsi al flagello della guerra; se l'Onu non si oppone alla
guerra viene meno alla sua unica fonte di legittimazione, e diventa una
spelonca di ladri e di assassini.

- Che l'Italia deve rispettare la sua Costituzione, che ripudia la guerra
di aggressione (e poiche' si sa che gli aggressori dicono sempre di essere
gli aggrediti, ripudia anche quella ammantata dell'inganno della
"risoluzione delle controversie internazionali": i costituenti usciti dalla
catastrofe della seconda guerra mondiale scrissero chiaro tra i principi
fondamentali del nostro paese il ripudio di tutte le guerre, solo
ammettendo l'azione rigorosamente difensiva, che oggi puo' e deve attuarsi
senza eserciti ne' armi ne' guerre, ma con la Difesa popolare nonviolenta);
se governo e parlamento e presidente della Repubblica trascinano ancora il
nostro paese in guerra nuovamente si collocano contro la legge fondamentale
del nostro ordinamento giuridico, precipitano l'Italia nell'illegalita',
rompono il patto che lega i cittadini: cancellano la vigenza delle leggi,
distruggono lo stato di diritto, e con la loro condotta autorizzano tutti a
seguirli sulla via del disprezzo sia delle leggi che della vita altrui, del
crimine e dell'omicidio, in una guerra di tutti contro tutti che e' la fine
della societa' e dell'umanita'.

- Che il governo statunitense deve essere denunciato alle competenti corti
di giustizia che perseguono i crimini contro l'umanita' ovunque commessi.
La piu' grande potenza del mondo, che gia' tanti crimini ha compiuto, non
puo' essere nelle mani di una banda di cinici e insensati che mettono in
pericolo l'umanita' intera. La popolazione statunitense ha anche una grande
tradizione di democrazia, rispetto alla quale l'attuale leadership e'
altrettanto eterogenea quanto l'attuale governo italiano rispetto alle
espressioni piu' alte della vita civile nel nostro paese.

- Che occorre un piano straordinario di aiuti umanitari al popolo iracheno
(anche a molti altri popoli del mondo, certo): il popolo iracheno e' gia'
tre volte vittima: del regime dittatoriale di Saddam Hussein; della guerra
del Golfo del '91; dell'embargo stragista voluto dall'Onu (un crimine
insensato e ingiustificato che si prolunga da un decennio con la
complicita' di tutti gli stati piu' potenti del mondo); e quindi una nuova
guerra contro di esso popolo sarebbe aggiungere crimine a crimine, strage a
strage, disumanita' a disumanita'; ma anche lasciarlo privo di soccorsi e
sotto embargo e' un crimine, una strage, una disumanita': se la comunita'
internazionale volesse promuovere la democrazia in Iraq la strada c'e' ed
e' la piu' semplice: cooperazione decentrata, aiuti diretti alle
popolazioni, cessare di torturare il popolo iracheno con l'embargo. La
democrazia e i diritti umani nel mondo si promuovono solo con la
cooperazione internazionale, l'aiuto umanitario, facendo cessare la rapina
del nord sul sud, restituendo ai poveri cio' che abbiamo loro rubato; a
tutti gli esseri umani riconoscendo i dirtti umani, il primo dei quali e'
quello di vivere.

*

Sta alle donne e agli uomini di volonta' buona di tutto il mondo fermare la
guerra.

E noi che ci troviamo qui in Italia possiamo e dobbiamo fare molto; ma per
fare molto occorre che innanzitutto facciamo chiarezza in noi stessi.

E fare chiarezza in noi stessi significa separarci da quanti si proclamano
pacifisti e poi riproducono la stessa logica dei potenti, separarci da
quanti fanno carriera sul sangue versato dagli altri, separarci da quanti
condannano la violenza degli altri ed esaltano la propria, separarci da
quanti sono contrari alla guerra quando stanno all'opposizione e invece
sono a favore quando stanno al governo, separarci da quanti gestiscono le
manifestazioni pubbliche come delle piccole guerre, separarci da quanti si
dicono per la pace e poi hanno come riferimento i leader militari,
separarci da quanti tacciono sui poteri oppressivi da cui hanno ricevuto o
si aspettano prebende, separarci da quanti riproducono razzismo e
totalitarismo sovente senza neppure rendersene conto.

Separarci da quanti si dicono oppositori della guerra ma non vogliono e non
sanno e non possono essere costruttori di pace.

Occorre opporsi alla guerra nell'unico modo logicamente corretto,
moralmente possibile e politicamente efficace: con la nonviolenza.

Ma per opporsi alla guerra con la nonviolenza occorre formarsi alla
nonviolenza, conoscerla ed esserne persuasi, studiarla e sperimentarla,
prepararsi con la necessaria profondita' e il necessario rigore all'azione
diretta nonviolenta.

E' il compito piu' urgente che abbiamo.



2. UN APPELLO. SOSTENIAMO  "QUALEVITA"

"Qualevita" e' una rivista bimestrale di riflessione e informazione
nonviolenta e una casa editrice fortemente impegnate per la nonviolenza;
nelle Edizioni Qualevita sono apparsi molti libri di straordinaria
importanza per una cultura e una prassi della pace, della solidarieta' e
della dignita' umana; ogni due mesi la rivista documenta e promuove la
ricerca e le iniziative degli amici della nonviolenza, ed e' una delle voci
piu' qualificate della nonviolenza in Italia (con poche altre, come "Azione
nonviolenta" e "Mosaico di pace").

Alcuni mesi fa un allagamento della sede e del magazzino ha danneggiato
gravemente la casa editrice, provocando la perdita di libri, archivi e
materiale.

A tutti i nostri interlocutori amici della nonviolenza chiediamo di inviare
un tangibile segno di solidarieta' concreta in forma di sostegno economico
agli animatori generosissimi di "Qualevita", anche nella forma
dell'acquisto di libri, della sottoscrizione di abbonamenti alla rivista,
della prenotazione dell'agenda "Giorni nonviolenti" 2003 (di cui abbiamo
parlato nel notiziario di ieri).

Per inviare contributi e per ulteriori informazioni: Edizioni Qualevita,
via Buonconsiglio 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 086446448,
3495843946, e-mail: sudest@iol.it, conto corrente postale 10750677
(intestato ovviamente a: Qualevita, via Buonconsiglio 2, 67030 Torre dei
Nolfi (Aq), specificando la causale).



3. SEGNALAZIONI: UN LIBRICCINO DI DANILO DOLCI

Per le cure e con una introduzione di Giuseppe Barone, nelle edizioni della
libreria Dante & Descartes di Napoli e' apparso un bel libriccino di
minuscole dimensioni (in trentaduesimo) con due articoli che Danilo Dolci
scrisse su "L'ora" nel 1972: Danilo Dolci, Girando per case e botteghe,
Edizioni libreria Dante & Descartes, Napoli 2002, pp. 72, euro 2,06.

E' una pubblicazione che segnaliamo con particolare attenzione e
consentimento per varie buone ragioni.

Innanzitutto, Danilo. Che e' stato uno dei maestri piu' grandi della
nonviolenza e della maieutica. Ci sia concesso aggiungere qui una minima
scheda informativa: nacque a Sesana (Trieste) nel 1924; arrestato a Genova
nel â43 dai nazifascisti riesce a fuggire; nel â50 partecipa allâesperienza
di Nomadelfia a Fossoli; dal â52 si trasferisce nella Sicilia occidentale
(Trappeto, Partinico) in cui promuove indimenticabili lotte nonviolente
contro la mafia e il sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la dignitˆ.
Subisce persecuzioni e processi. Sociologo, educatore,  tra le figure di
massimo rilievo della nonviolenza nel mondo. Eâ scomparso sul finire del
1997. Ta le molte opere di Danilo Dolci una antologia degli scritti di
intervento e di analisi  Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra
i libri di poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i
libri di riflessione pi recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda,
Torino 1988; La struttura maieutica e lâevolverci, La Nuova Italia, Firenze
1996. Tra le opere su Danilo Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova
Italia, Firenze 1984; Adriana Chemello, La parola maieutica, Vallecchi,
Firenze 1988 (sullâopera poetica di Dolci); Antonino Mangano, Danilo Dolci
educatore, ECP, S. Domenico di Fiesole 1992; Giuseppe Barone, La forza
della nonviolenza. Bibliografia e profilo critico di Danilo Dolci, Libreria
Dante & Descartes, Napoli 2000.

Poi, per la passione con cui Giuseppe Barone, un amico valoroso, prosegue
nel suo lavoro di diffusione della conoscenza di Danilo Dolci anche
recuperando e riproponendo testi come quelli raccolti nel libriccino di cui
stiamo parlando.

Infine per la bella collana edita dalla Libreria Dante & Descartes: in
questa medesima collana denominata "Storie in trentaduesimo" sono gia'
apparsi scritti di testimoni odierni come Ettore Mo e Vicenzo Consolo, e di
indimenticabili luminose figure come Piero Gobetti e Giorgio Caproni.

Per richieste: Libreria Dante & Descartes, via Mezzocannone 75, 80134
Napoli, e-mail: editoria@dantedescartes.it, sito: www.dantedescartes.it



4. STRUMENTI. ALCUNE RIVISTE E NEWSLETTER DIFFUSE PER E-MAIL

[Indichiamo alcuni fogli diffusi per e-mail e per ognuno un indirizzo di
posta elettronica cui richiederli. Ovviamente quasi tutte le maggiori
associazioni, onlus, ong, hanno loro liste di discussione cui ci si puo'
iscrivere e quasi tutte inviano periodicamente dei notiziari a chi ne fa
richiesta, da Peacelink ad Amnesty, da Pax Christi ad Emergency; e'
sufficiente connettersi ai loro siti per trovare le indicazioni per
abbonarsi gratuitamente a newsletter e liste]

- "Bologna social forum - Contropiani", e-mail: info@contropiani2000.org

- "Cds focus", newsletter della Casa dei diritti sociali, e-mail:
info@dirittisociali.org

- "Centomovimenti news", e-mail: info@manipulite.it

- "COS in rete", promosso dall'Associazione amici di Aldo Capitini, e-mail:
capitini@tiscalinet.it

- "Chiama l'Africa news", e-mail: info@chiamafrica.it

- "Donne in viaggio", e-mail: donneinviaggio@tiscalinet.it

- "Emigrazione notizie", e-mail: emigrazione.notizie@email.it

- "Fuoriregistro", newsletter del Didaweb, e-mail: nl-informa@didaweb.net

- "Il grillo parlante", e-mail: grilloparlante@mbservice.it

- "Italialaica", e-mail: info@italialaica.it

- "Lettera", mensile di Ettore Masina, e-mail: ettore.mas@libero.it

- "Misteri d'Italia", e-mail: misteri@misteriditalia.com

- "Namaste", ass.namaste@katamail.com

- "Proteo fare sapere news"; e-mail: mail@proteofaresapere.it

- "Radiolondra", lettera di Critica liberale, e-mail: info@criticaliberale.it

- "Rosso notizie net", e-mail: puntorosso@puntorosso.it

- "Sogni da coltivare'", newsletter dell'Associazione finanza etica,
e-mail: info@finanza-etica.org

- "Tanto per abbaiare", notiziario a cura di Riccardo Orioles, e-mail:
ricc@libero.it

- "Valore scuola news", newsletter della Cgil-scuola, e-mail:
news@cgilscuola.it



5. MAESTRE. AGNES HELLER: OTTO MASSIME MORALI

[Queste massime abbiamo estratto dal libro di Agnes Heller, Le condizioni
della morale, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 56.

Agnes Heller, filosofa ungherese, nata a Budapest nel 1929, allieva e
collaboratrice di Luk‡cs, allontanata dallâUngheria, ha poi insegnato in
Australia ed attualmente in America. In Italia  particolarmente nota per
la ăteoria dei bisogniä su cui si ebbe nel nostro paese un notevole
dibattito anche con riferimento ai movimenti degli anni â70. Su posizioni
democratiche radicali,  una interlocutrice preziosa anche laddove non se
ne condividano alcuni impianti ed esiti teorici. Opere di çgnes Heller:
nella sua vastissima ed articolata produzione segnaliamo almeno La teoria
dei bisogni in Marx, Feltrinelli; Teoria dei sentimenti, Editori Riuniti;
Teoria della storia, Editori Riuniti; Etica generale, Il Mulino; cfr. anche
Apocalisse atomica (con F. FehŽr), Sugarco; ed il volume-intervista Morale
e rivoluzione, Savelli. Opere su çgnes Heller: la rivista filosofica
italiana ăAut Autä ha spesso ospitato e discusso la riflessione della
Heller; cfr. in particolare gli studi di Laura Boella]

- Non scegliere norme che non possano essere rese pubbliche;

- non scegliere norme la cui osservanza implichi - per ragioni di principio
- l'uso degli altri esseri umani come puri mezzi;

- non scegliere norme che non possano essere scelte liberamente da tutti;

- non scegliere norme come norme morali (norme vincolanti) la cui
osservanza non sia uno scopo in se'.

(...)

- Attribuisci uguale riconoscimento a tutte le persone in quanto esseri
liberi e razionali;

- riconosci tutti i bisogni umani esclusi quelli la cui soddisfazione
implichi per definizione l'uso delle altre persone come puri mezzi;

- rispetta le persone solo sulla base delle loro virtu' e dei loro meriti
(morali);

- mantieni la tua dignita' umana in tutto cio' che fai.



6. MAESTRI. ERNESTO BALDUCCI: INTRODUZIONE A "LA PACE. REALISMO DI UN'UTOPIA

[Questo testo e' l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico
Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo
libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del
pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders.
L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al
convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei
punti di elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista
che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e
dell'ovest.

Ernesto Balducci  nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922,
ed  deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote,
insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose
iniziative di pace e di solidarietˆ. Fondatore della rivista
ăTestimonianzeä nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (ECP) nel
1986. Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti,  stato un
pensatore di grande vigore ed originalitˆ, le cui riflessioni ed analisi
sono decisive per unâetica della mondialitˆ allâaltezza dei drammatici
problemi dellâora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo
particolarmente alcuni libri dellâultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di unâutopia (Principato), in collaborazione
con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); Lâuomo planetario
(Camunia, poi ECP); La terra del tramonto (ECP); Montezuma scopre lâEuropa
(ECP). Si vedano anche lâintervista autobiografica Il cerchio che si chiude
(Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una
cosa (ECP); il manuale di storia della filosofia, Storia del pensiero umano
(Cremonese), ed il corso di educazione civica Cittadini del mondo
(Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su Ernesto
Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di ăTestimonianzeä a
lui dedicati: Ernesto Balducci, ăTestimonianzeä nn. 347-349, 1992; ed
Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani, ăTestimonianzeä nn.
373-374, 1995. Unâottima rassegna bibliografica preceduta da una precisa
introduzione biografica  il libro di Andrea Cecconi, Ernesto Balducci:
cinquantâanni di attivitˆ, Libreria Chiari, Firenze 1996. Recente  il
libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la
modernitˆ, Laterza, Roma-Bari 2002. Cfr. anche Enzo Mazzi, Ernesto Balducci
e il dissenso creativo, Manifestolibri, Roma 2002]

Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno,
dinanzi a tale prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli
utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della stessa
smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della
guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come
sempre, puo' essere custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo.

Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha
cominciato a diventare acuto agli inizi dell'eta' moderna.  Nel chiudere il
quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale,
Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento
Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro
l'arte e la natura" ... "e tra le ridde de' suoi piagnoni non vedeva,
povero frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il
pallido viso di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli
e' durato fino ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il
tempo in cui siamo rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi
argomenti del realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di
integrare in se' le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma,
non sono piu' gli emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di
progettare il bene comune. Com'e' noto, il maestro dei realisti affidava
alla virtu' (che nel suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a
ragione) il compito di far fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e
imprevedibile degli eventi. A suo giudizio, fortuna e virtu' potevano
governare la storia umana con una incidenza del 50% ciascuna. Le milizie
cittadine erano lo strumento primo della virtu' di un principe. Uno
strumento peraltro da usare all'interno di una preveggenza multiforme delle
eventualita' della fortuna. "Assomiglio quella - dice Machiavelli
ragionando della fortuna, nel Principe (cap.  XXV) - a uno di questi fiumi
rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano gli alberi e
gli edifizi, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra;
ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, senza potervi in
alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti, non resta pero' che gli
uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo fare provvedimento, e
con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno
canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si' licenzioso ne' si' dannoso.
Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove
non e' ordinata virtu' a resisterle".

Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il
fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun
"provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'" affidata al
principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire
materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra.

Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte
all'imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico,
legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano,
anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.

*

Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate.  L'umanita' e' entrata in
un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al
dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia
di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.

Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e
noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente
allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi
serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si
sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il
riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della
mutazione.

La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un
destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di
natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa
si e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu'
recente e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere
umano e' ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il
Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il
Sud a dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto
per il fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla
metodica rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente,
perche' esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il
persistere, anzi l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano
ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma
cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per
l'appunto, nel solo anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre
meglio conosciuto, che la morte per fame non e' un prodotto fatale
dell'avarizia della natura o dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto
della struttura economica internazionale che riversa un'immensa quota dei
profitti nell'industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto
anno 1979 e cioe' 10 volte di piu' del necessario per eliminare la fame nel
mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi.  Gli uomini
e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa
struttura di violenza, non hanno piu' la coscienza tranquilla.

La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della
pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile,
e' arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo
istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale
e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante
un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti
accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un
malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono
tali che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un
sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola
voce.  Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e
biologia, la storia sta cambiando di qualita'.

La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla
sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata,
salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma
sempre le culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema
ratio, e cioe' come uno strumento limite della ragione.  E difatti, nelle
nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera
attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il
linguaggio di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava
l'"avvenimento" fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non
genererebbe nessun avvenimento. 0 meglio, l'avvenimento morirebbe per
olocausto nel grembo materno dell'accadimento.

*

Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e
nella pratica politica ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano
e' anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con quello tradizionale. Per
pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o
misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle
correnti ideologiche che, nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della
politica la ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo
parlare di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le
culture via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la
inevitabilita' della guerra.

Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico
perche' ebbe le sue prime manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che
potremmo chiamare anche, utilizzando un lessico piu' alla moda, radicale.
Il suo principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello
religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va
posata sulla fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su
cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale, la cui voce
e' la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa
cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle
istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello
spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze.
Cio' che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo
impianto individualistico, e' la disponibilita' al confronto e soprattutto
la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro
capacita', almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al
privilegio e di fornirgli strumenti di diritto per il perseguimento della
giustizia e dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato sempre un
pacifismo elitario, capace di svegliare le coscienze, ma incapace di
mordere realmente sulle cause che generano i conflitti interni ed esterni
alla societa'. Il principio della tolleranza e' senza dubbio necessario a
dar fondamento a una societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con
una militanza politica il cui obiettivo sia la subordinazione delle
istituzioni ai fini del bene comune e della pace.

E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la
formula ideologica che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso
identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la fondazione della
pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la
pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la
liberta' coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi,
rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare
quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo,
una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita',
rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo
dopoguerra essa ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson
che tenne a battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu'
democratica delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco,
quella di Weimar, che prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il
nazismo. Ed oggi noi siamo qui a constatare che un paese di sicura
democrazia formale come gli USA si e' trasformato in una cittadella
atomica, alla cui ombra prosperano in tutto il mondo dittature militari. Il
limite dell'ideologia democratica e' che essa chiama in causa il popolo
senza tener conto delle forze che nel suo seno si contrastano e lo
frantumano piegandolo alla loro logica.

La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data
il pacifismo socialista. L'internazionalismo operaio e' senza dubbio
l'utopia pacifista piu' straordinaria che sia nata nel mondo moderno. Il
suo strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta,
che ha modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che
esso non e' stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali:
anche quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai
funzionato. Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra,
dimostrando che essa e' strutturalmente connessa alla societa'
capitalistica e che percio' vivra' e morira' con questa. La razionalita'
della guerra e' nel fatto di portare al limite l'inevitabile crisi del
capitalismo e di preparar cosi' il suo capovolgimento: la rivoluzione. E'
quanto avvenne, per suo merito, in Russia. Ma la sua tesi, smentita per due
volte, era che una guerra mondiale avrebbe dovuto generare una rivoluzione
mondiale.

La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi,
provocando un collasso estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di
due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato il socialismo, non
solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia
quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica
socialista all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato
provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese della
repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla
logica del capitale, c'e' attualmente lo stato di all'erta: segno, per
molti, che le cause della guerra non sono riducibili all'economia di
mercato.

Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e'
contraddetta almeno da due dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti
all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei paesi
ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze
capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra
parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era ancora succube dello
schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo
Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie
di immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno
scenario storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno, l'ideologia
socialista appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo
all'altezza delle necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato
positivistico della sua origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia
borghese. Non e' forse una tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e'
il naturale erede della cultura della borghesia, che e' intimamente cultura
di violenza? Niente di strano che ben poco sia rimasto oggi, in occidente,
del pacifismo proletario.  Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti nel
cappio delle necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro
anche nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo
industriale, produce armi da esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar
forza ai regimi oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse
scandalizzati, dato che per loro la pace sarebbe stata il risultato di una
rivoluzione mondiale che, dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far
uso della violenza delle armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione
armata, quando le classi dominanti del sistema imperialistico hanno in mano
le armi atomiche?

*

Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno
confusamente, che se ci sara' una reazione all'altezza dell'estremo
discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei
pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un
mutamento culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine,
una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare un'espressione
cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle
nuove manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di
cambiamento, non solo della politica, ma dei termini fondamentali della
presenza dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del
passaggio da una civilta' che aveva assunto la competizione come molla del
suo stesso sviluppo ad una civilta' che ponga la sua radice nell'altra
valenza dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque
inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del
proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo,
della solidarieta' con l'intera specie come condizione del suo essere
persona.

Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi
c'e' anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra
specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano piu' bellicosi di
noi, a volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola
ora la pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di
esse non manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civilta' e
guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una legge
insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla
natura della specie quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un
portato della cultura. Ad esempio, la schiavitu'. L'opinione comune, fino a
due secoli fa, era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale della
societa' umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il
filosofo per eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci
ripugna.  E cosi': appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il
quale e' la natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da
Aristotele a san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono
state incertezze. Oggi anche nel diritto italiano e' stata sancita la
parita' dell'uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che
quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.

Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e'
stata l'eta' della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe
esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della pace?

E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli
autori di questa rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle
cose non puo' non portare alla previsione della catastrofe. Ma cio' che e'
improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che
la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che
invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi),
mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo
istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una
congiuntura del genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha
messo tra le mani, puo' incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di
vita o puo' diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente
nuova della storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente
nell'unica citta' che e' ormai il nostro pianeta.

Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che
essa e' per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa
e' l'unica alternativa alla morte universale Quel che le manca e', appunto,
una cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello
della voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che
succeda alla cultura della guerra di cui noi siamo figli, cosi' come alla
cultura paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura
neolitica che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.

E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo
adoperarsi perche' non sia accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene
chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione
antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa
chiama in causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi -
non dovremmo aver paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le
singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e' una virtu' che non
puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la
fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e
mortificate            dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si
obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della
ragione, perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore,
a nient'altro e' intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le
forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio della fede
morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede,
quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono
come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!

La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza
riscontro nei fatti. Essa ha gia' dalla sua parte alcuni processi in corso,
il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta' della pace
come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che
stanno battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche
della civilta' della guerra. La prima di queste premesse e' che l'uomo sia
per natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi chiamiamo
violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno
condotto ad un punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura
pacifico o che l'uomo e' per natura violento. La natura dell'uomo e' nel
suo farsi, e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi' come
si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato
irreformabile, scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene
nella societa' cresciuta all'ombra del fungo atomico.

- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come
un individuo solo, secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo
con la coscienza ancora dispersa e frazionata nel suo organismo, ma con
strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione
soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono
sempre piu' intollerabili: chi le tollera e' un ominide il cui
sottosviluppo e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli
ominidi, il tempo della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e'
diventata fisicamente impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica
- il Nord - ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si
accorge che il padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il
tempo del padrone e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo'
morire come Sansone o puo' morire di tranquilla morte naturale, e cioe' il
Nord puo' morire sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o
puo' morire risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu'
discriminazioni.

- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere
quello che e' stato, non lo puo' piu' per ragioni fisiche. L'ideologia
dello sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi
fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la
natura che non e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui
batte la luce dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura
umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante della cultura
della pace.

- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e'
proprio il caso di dirlo) della violenza e' il modo storico in cui si e'
determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio della sessualita'
quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'.
L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della
sessualita', segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa
soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della
terra, a partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di
fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico e' un uomo
dimidiato e proprio per questo violento.  L'emancipazione femminile e'
potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.

- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede
nell'uomo, e' la nuova dialettica che si e' aperta all'interno delle grandi
religioni. Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al cristianesimo.
La soglia atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del
genere umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se
l'alternativa della vita trionfera', essa non potra' andare che nel senso
di una composizione unitaria del genere umano. Il che significa che tutto
cio' che e' nato e cresciuto con i segni del "particolare" potra'
sopravvivere solo se sapra' accettare le nuove misure di universalita'
concreta. Alla pari delle altre religioni, il cristianesimo non potra' non
apparire (e gia' appare) come il patrimonio di una porzione del genere
umano. La sua storia, nel bene e nel male, si confonde con quella
dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce come un pungolo sulla forma
storica del cristianesimo, un pungolo che sgretola quel che e' connesso
alla relativita' storico-geografica e, nello stesso tempo, fa emergere il
suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha questo di proprio e forse di
esclusivo: che e' una profezia messianica, investe cioe' la totalita' delle
speranze degne dell'uomo, prima fra tutte la speranza della pace. In questo
senso il cristianesimo trabocca dai confini religiosi e si commisura, senza
sforzi, sulla qualita' laica della storia.

- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre
confessioni che fanno capo al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta
spostando l'asse della propria vita interna o della propria missione
storica dagli spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo
decisivo la giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia'
in atto. Morendo alle sue terribili stagioni di complicita' con le guerre,
il cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di
fondo, che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che
la transizione alla civilta' della pace e' come un appuntamento storico che
Dio ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una chiesa veramente
evangelica e' come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne
viva del mondo. Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro
vertici istituzionali, che sono piu' tardi a muoversi e che d'altronde
hanno ancora un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si
sentono sospinte sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi
il loro no. Secondo alcuni, e' gia' matura la stagione per un Concilio
ecumenico in cui le chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo messaggio
al mondo ma per assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze,
la responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo,
dell'avvento della civilta' della pace.

- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando
un'indagine commissionata dall'UNESCO, riconosceva che la crisi della
scuola era un dato evidente in ogni parte del mondo e osava affermare che,
alla radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli
autori di questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si
tratti. La scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla
rivoluzione borghese e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati,
e' sempre stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al
potere costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti,
per definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioe'
l'occhio che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio
particolare per l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria
espansione colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio
fiero del padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi,
finalmente, l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di
vista conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare
un'eco veramente umana nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e
cioe' se il suo punto di vista non e' il punto di vista del pianeta
divenuto l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la
cultura deve essere cultura di pace.

La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base
della crisi della scuola e' proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola
e' ancora un organo di diffusione della cultura padronale che e', per forza
di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di
crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno
semplici palliativi finche' non scenderanno a questa profondita', per
mettere in questione il presupposto antropologico che ha fatto da dogma
latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla
riforma di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai
processi di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace.

*

Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in
quei processi e' la costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria
storica diversa da quella codificata nel sapere dominante. Ed e' un compito
che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico
che abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era
riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti
critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini
come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale:
ecco il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione
del sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve normalmente per
indicare i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco piu' che
interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La
"verita' effettuale" e' diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel
costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano piuttosto oggetti
che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e'
solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.

E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la
presente rassegna intende offrire una larga documentazione critica. Il
panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e nello
spazio. Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la
politica degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di
vista tecnico, l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta,
salvo qualche sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche'
e' in quest'area che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze
e oggi il suo dilemma mortale.

Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in
queste pagine sempre in un rapporto dialettico con la realta' della guerra
e appare sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo oggi, nell'era di
Hiroshima, le due logiche, quella dell'ideale morale e quella della
necessita' realistica, arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma
di prospettive morali e politiche.

Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a
questo singolare evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro
posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla fin da questa lunga
premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso
oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su
cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo
strumento che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere,
all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il
piu' universale e, sia permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che
fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante per la formazione
dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci
aiutino a colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro
lavoro sempre piu' adatto ad illuminare e ad alimentare, dentro e fuori
della scuola, la cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.



7. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: DEMOCRAZIA PRIVATA

[Questo articolo dell'illustre guirista abbiamo ripreso dal quotidiano "Il
manifesto" del 14 settembre 2002.

Luigi Ferrajoli, nato a Firenze nel 1940, giudice tra il 1967 e il 1975, 
docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli: tra i lavori pi recenti
segnaliamo particolarmente la monumentale monografia Diritto e ragione,
Laterza 1989, giunta alla terza edizione; il saggio La sovranitˆ nel mondo
moderno, Laterza 1997; e La cultura giuridica nellâItalia del Novecento,
Laterza 1999]

Per comprendere la portata dello scontro in atto sulla giustizia non basta
elencare, come del resto e' stato fatto piu' volte, gli aspetti grotteschi
di incostituzionalita' della proposta di legge Cirami sul "legittimo
sospetto": la sostanziale elusione del principio del giudice naturale, in
forza del quale "nessuno puo' essere distolto dal giudice pre-costituito
per legge" scegliendosi i propri giudici; la conseguente lesione
dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di cui la garanzia del
giudice naturale e' un corollario; la violazione infine del principio della
"ragionevole durata" dei processi, dato che la proposta consente di
ripresentare all'infinito sempre nuove richieste di sospensione per
"legittimo sospetto" e percio', di fatto, di bloccare qualunque processo.

Neppure e' sufficiente denunciare le finalita' della legge, chiaramente
diretta, come riconoscono i suoi stessi promotori impegnati in una lotta
contro il tempo, a paralizzare i processi in atto contro Silvio Berlusconi
e Cesare Previti.

Tutto questo, certamente, equivale a un'aggressione senza precedenti ai
principi dello stato di diritto, che non ammettono poteri pubblici non
soggetti alla legge, impongono la separazione dei poteri escludendo
interventi legislativi palesemente rivolti a interferire su processi in
corso, fondano infine, sul rispetto della legalita', l'uguaglianza dei
cittadini e la garanzia contro l'arbitrio.

C'e' pero', in questa pretesa della maggioranza di difendere a qualunque
costo gli interessi privati del suo leader, un'altra e non meno grave
manomissione, di solito ignorata, del nostro sistema costituzionale: la
lesione radicale del principio democratico.

In tutti questi mesi, la fonte di legittimazione monotonamente opposta dai
partiti di governo a qualunque critica al loro operato e' stata
precisamente la loro investitura democratica, ossia il valore della
sovranita' popolare e percio' della rappresentanza politica. Abbiamo vinto
le elezioni - questo l'argomento ricorrente - e percio' facciamo quel che
ci pare: leggi ad personam per risolvere le pendenze giudiziarie del
premier, come la proposta Cirami, la proposta Anedda, la proposta Nitto
Palma e poi quella Pittelli e, prima ancora, le leggi approvate lo scorso
anno sul falso in bilancio e sulle rogatorie; riforme del sistema
radiotelevisivo su misura degli interessi delle aziende televisive e delle
finalita' monopolistiche del presidente del consiglio; proposte di
legge-truffa sul conflitto di interessi; sgravi fiscali e condoni, come
l'abolizione delle imposte sulle successioni e sulle donazioni e la legge
sul rientro anonimo dei capitali illecitamente trasferiti all'estero. Senza
contare l'attacco ai diritti fondamentali delle persone in materia di
lavoro, di salute e di istruzione. Il tutto in nome della sacralita' della
volonta' della maggioranza: come se democrazia politica e stato di diritto,
principio della rappresentanza e principio di legalita' fossero tra loro in
conflitto, e la democrazia costituzionale non consistesse invece proprio
nei limiti e nei vincoli imposti dalla Costituzione (oltre che dall'etica
pubblica) a qualunque rappresentanza, per quanto maggioritaria, a garanzia
dei diritti e degli interessi di tutti.

Ma e' precisamente il principio democratico della rappresentanza, proprio
quello costantemente invocato dalla maggioranza, che risulta dissolto da
questa sistematica gestione della cosa pubblica come cosa privata del
presidente del consiglio. In ambedue i significati, giuridico e politico,
del concetto di "rappresentanza". Ne viene anzitutto violato il principio
della rappresentanza legale, che secondo il codice civile e quello penale
non ammette conflitti di interessi tra rappresentanti e rappresentati
nell'esercizio di qualunque funzione rappresentativa, sia privata che
pubblica, e preclude e come abuso qualunque interesse privato in atti
d'ufficio. Ma, soprattutto, ne risulta vanificata la rappresentanza
politica: la quale e' tale solo se e' rappresentanza degli interessi
pubblici e generali - della "Nazione", cioe' della totalita' dei cittadini,
come dice l'articolo 67 della Costituzione - e cessa di esserlo se viene
degradata a rappresentanza degli interessi privati e personali del leader.

E' questo, a me pare, l'aspetto piu' grave del fenomeno Berlusconi,
stranamente trascurato dal dibattito politico e dalla riflessione teorica.
Il conflitto di interessi, che e' sicuramente il tratto distintivo
dell'attuale governo, e' molto di piu' di una contingente e illegittima
subordinazione di interessi pubblici a un interesse privato. Esso mina alle
radici i presupposti stessi della democrazia rappresentativa, oltre che
dello stato di diritto, dato che incide su quella separazione tra sfera
pubblica e sfera privata, tra sovranita' e proprieta', tra poteri politici
e poteri economici, sulla cui base e' nato lo stato moderno quale stato
politico-rappresentativo. Ne risulta una sorta di regressione pre-moderna,
pre-liberale, al vecchio stato patrimoniale, caratterizzato appunto dalla
confusione delle due sfere. Con tutte le conseguenze che stiamo purtroppo
sperimentando: dall'enorme concentrazione di poteri - economici e politici,
finanziari e mediatici - che non ha precedenti ne' paragoni, fino alla
mancanza di ogni senso del limite, all'aggressivita' famelica e
all'insofferenza per regole e controlli che il nuovo ceto di governo ha
ereditato, geneticamente, dallo spirito di accumulazione che e' proprio
dell'impresa. E' un salto di qualita' rispetto a Tangentopoli, quando la
politica era corrotta, comprata e subordinata agli interessi economici
privati, e tuttavia da questi pur sempre distinta e separata.

Si capisce allora perche' la questione giustizia sia diventata il cuore
della questione istituzionale e il banco di prova della tenuta dello stato
di diritto e della democrazia: perche' la funzione giudiziaria, pur
consistendo nella semplice applicazione della legge, e' rimasta l'unico
potere indipendente e percio' il solo limite istituzionale a un potere
polivalente e pervasivo che, per formazione e vocazione imprenditoriali, si
vuole tendenzialmente "assoluto". Per questo e' importante, su questi temi,
una mobilitazione informata e consapevole, a partire dalla manifestazione
di domani. Nessuno potra' infatti frenare la deriva istituzionale in atto
se non cambiera' prima di tutto, grazie a una battaglia culturale lunga e
difficile, il senso comune, oggi deformato, intorno alle idee di
democrazia, di rappresentanza politica, di legalita' e di sfera pubblica.



8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



9. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org
; per contatti, la e-mail : azionenonviolenta@sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it
; angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it



Numero 357 del 17 settembre 2002