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recensione di After capitalism



Invio la recensione di After capitalism, di Seymour Melman, che esce su Le 
monde diplomatique-il manifesto giovedi 18 aprile.
Ciao
Mario


Mario Pianta
Universita' di Urbino e
ISRDS-CNR, Via De Lollis 12, 00185 Roma, Italy
tel. (39) 06 44879207, fax 06 4463836, e-mail pianta@isrds.rm.cnr.it

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Articolo per Le Monde Diplomatique-Il Manifesto, 2 aprile 2002
(versione lunga)

Democrazia contro capitalismo

di Mario Pianta

Michael Eisner, amministratore delegato della Walt Disney, ha guadagnato 
nel 1998 oltre 15 mila volte il salario medio di un operaio americano. La 
somma delle spese militari degli Stati Uniti tra 1945 e 1995 è superiore al 
valore di tutto il patrimonio di ricchezza tangibile e capitale fisso del 
paese. Come possiamo spiegare questi estremi del capitalismo americano?
La risposta comincia da un'altra domanda: chi decide?
Nell'economia come nella politica questo semplice quesito rivela molto su 
che cosa succede e perché. E' una domanda rimossa dalla politica, che 
rimanda alle regole delle costituzioni formali, e ancor più dimenticata 
nell'economia dove il potere dei manager è considerato un dato di natura. 
Eppure nei rapporti politici internazionali non ci sono regole formali che 
definiscono i poteri globali, e nei rapporti sociali legati alla produzione 
il gioco è assai più intricato di quanto non facciano pensare le gerarchie 
aziendali.
Profitti e potere sono obiettivi congiunti di chi decide nell'economia come 
nella politica, e definiscono il sistema sociale e produttivo che da tre 
secoli chiamiamo capitalismo. Il loro intreccio si è fatto sempre più 
stretto, nelle grandi imprese come nei paesi ricchi. Qui i profitti si 
investono in posizioni di potere - nei mercati, nella comunicazione, nella 
politica nazionale e internazionale - e il potere assicura a sua volta il 
flusso di profitti. Un ruolo chiave ce l'ha l'economia militare, così 
importante negli Stati Uniti: le armi trasformano il capitale investito 
direttamente in potere (e profitti) senza passare per la produzione di 
beni, servizi, consumi e investimenti.
Parte da qui l'ultimo libro di Seymour Melman, After capitalism. From 
mangerialism to workplace democracy ("Dopo il capitalismo. Dal potere 
manageriale alla democrazia sul lavoro"). Melman, professore emerito alla 
Columbia University di New York, autore di decine di testi sulla produzione 
industriale, sull'economia militare, su disarmo e riconversione, a lungo 
presidente del Sane, la principale organizzazione pacifista degli Stati 
Uniti, raccoglie in questo volume i temi di una vita di lavoro.
L'asse che percorre l'intero libro è il contrasto tra l'alienazione 
prodotta dalle decisioni di chi ha il potere economico e politico - i 
manager privati e di stato - e lo sforzo per recuperare il controllo sul 
proprio lavoro e la propria vita che da sempre anima le classi subalterne. 
Il cuore del capitalismo viene individuato (con Marx) nei rapporti sociali 
che espropriano i lavoratori, e la ricerca del "dopo-capitalismo" sta nelle 
strade, per nulla ideologiche, ma fortemente politiche, che consentono a 
lavoratori e cittadini di recuperare controllo sul loro destino.
La prima metà del volume analizza l'insostenibilità della concentrazione di 
risorse, ricchezza e potere nelle mani dei manager del "capitalismo di 
stato" americano. Dietro la facciata un'economia americana in crescita 
record negli ultimi anni, Melman raccoglie l'evidenza di una realtà ben 
diversa. La disoccupazione effettiva, misurata con standard europei, è 
quasi doppia di quella "ufficiale" (l'11% nel 1996), nel 1997 c'erano due 
milioni e mezzo di lavoratori temporanei, 31 milioni di lavoratori a tempo 
parziale, mentre quasi tre quarti delle famiglie Usa hanno vissuto un 
licenziamento dagli anni '80 a oggi. E poi il 18% di americani sono senza 
assicurazione sanitaria, 1 milione e 200 mila sono carcerati, di cui 100 
mila occupati nell'emergente complesso "carcerario-industriale", quasi un 
quarto degli americani, compresi molti che un lavoro ce l'hanno, vivono in 
povertà.
Non è solo un disparato elenco di miserie: è il frutto delle strategie di 
globalizzazione dell'economia, di riduzione della base industriale 
americana, di crescente diseguaglianza.
Tra il 1970 e il 1995 solo il 20% più ricco del paese ha aumentato la 
propria quota del reddito, dal 43 al 49%, e guadagna ora 13 volte di più 
del 20% più povero. Il 5% più ricco ha visto crescere la propria quota del 
50% se consideriamo i dati delle dichiarazioni dei redditi. Considerando il 
potere di acquisto del tempo di lavoro, tra il 1993 e il 1998 gli americani 
devono lavorare di più per acquistare lo stesso paniere di beni essenziali; 
soltanto abbigliamento, scarpe e benzina sono diventati meno cari.
Il rovescio della medaglia è la concentrazione di risorse nel settore 
militare. Un milione e mezzo di persone nelle forze armate, 725 mila 
dipendenti civili del Pentagono, oltre 2 milioni e 200 mila dipendenti 
nelle industrie militari, la metà della spesa del governo federale 
destinata alla difesa, il 55% della spesa pubblica per ricerca e sviluppo 
che se va in nuovi armamenti (1). L'eredità della guerra fredda ha 
presentato un conto preciso: tra il 1940 e il 1996 la spesa militare Usa è 
stata (a prezzi del 1996) di 17 mila miliardi di dollari, di cui 5.800 
miliardi spesi sulla armi nucleari, prodotte in oltre 70 mila pezzi (p.99). 
Solo questo dato è oltre il doppio del valore attuale di tutti gli impianti 
dell'industria manifatturiera Usa.
Gli effetti di questa spesa militare hanno sostenuto la domanda nelle 
politiche keynesiane del dopoguerra, ma hanno indebolito la capacità 
produttiva Usa in campo civile. La produzione militare si basa su una 
logica di rigonfiamento dei costi, sprechi e sottrazione di risorse scarse 
come i ricercatori e gli specialisti delle tecnologie avanzate. Il 
risultato è che il nuovo bombardiere B2 - prezzo due miliardi di dollari 
l'uno - costa più del suo peso in oro. Ci ricorda qualcosa tutto questo? Un 
capitolo del libro ripercorre la traiettoria dell'Unione sovietica 
sprofondata sotto il peso della militarizzazione della sua economia e della 
centralizzazione del potere nelle mani dei manager di stato.
La seconda parte del libro è dedicata alla ricerca di alternative al potere 
manageriale, ricondotte alla categoria di "democrazia sul lavoro" 
(workplace democracy) contrapposta alla logica gerarchica ed espropriatrice 
del potere manageriale. Secondo Melman, i fondamenti per far entrare la 
democrazia nel lavoro sono la ricomposizione tra chi prende le decisioni e 
chi le esegue, la solidarietà e la fiducia tra i lavoratori, e 
l'uguaglianza di fronte alle regole sulla produzione.
Le tracce di questa alternativa vengono trovate nei nuovi contratti 
sindacali dei macchinisti, dell'auto e dell'acciaio negli Usa che tutelano 
le condizioni di lavoro, nell'esperienza della Saturn, la fabbrica GM 
costruita sulla base di rapporti cooperativi con forza lavoro e sindacato, 
nella crescita della sindacalizzazione nei servizi "poveri" (assistenza, 
pulizia, etc.) come nelle professioni "alte" (medici, docenti universitari, 
etc.), nelle corporate campaigns con cui il sindacato attacca l'immagine e 
il consenso delle aziende con cui sono in lotta. Si criticano invece le 
strade illusorie, come gli Esop (Employee stock ownership plan) americani 
che distribuiscono ai dipendenti pezzi di proprietà delle imprese senza 
riconoscere loro alcun potere di controllo.
Fuori dagli Usa si guarda alle esperienze delle cooperative di Mondragon 
nei Paesi Baschi, ai kibbutz israeliani di ispirazione egualitaria, alle 
reti di piccole imprese nell'Emilia Romagna, alla co-determinazione 
tedesca, ai nuovi fondi d'investimento sindacali del Canada, fino alle 
piccole esperienze di auto-organizzazione, di cooperative comunitarie, di 
scambi non monetari, di economia partecipata che, secondo Melman, "stanno 
trasformando "dal basso" il capitalismo di stato" (p.439).
In questo approccio, questo volume è in straordinaria sintonia con i 
movimenti globali che non cercano il potere, ma vogliono trasformarne la 
natura, non vogliono rimpiazzare le persone al vertice, ma cambiare il modo 
in cui si prendono le decisioni collettive. E i movimenti nati a Seattle 
sono citati proprio per segnalare l'ampiezza della ricerca di 
quest'alternativa. Perché - ci ricorda Melman - "né l'economia dei mercati 
globali nè il neoliberismo promettono un viaggio tranquillo. La stessa 
concentrazione delle scelte dei manager aziendali e di stato su queste 
strategie promette non solo una successione senza fine di crisi 
internazionali, ma il percorso turbolento di guerre senza fine" (p.15). 
Scritto prima dell'11 settembre e della "guerra infinita" di Bush, questa 
capacità di anticipazione è il regalo che ci viene da un intransigente 
radicale di 85 anni.

Seymour Melman, After capitalism. From managerialism to workplace 
democracy. New York, Knopf, 2001, pp-529


Nota
(1) Su questi temi si veda anche Claude Serfati, La mondialisation armée. 
Le désequilibre de la terreur. Parigi, Textuel, 2001, 173 pp.