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Quarantotto ore a Ramallah - Pasqua 2002
Cari....
vi mando la lettera che mia cognata Angela mi ha inviato da Ramallah.
E' molto istruttiva e particolarmente coinvolgente, proprio perche' e' una
lettera privata per i familiari.
Come documento mi sembra bello e vorrei, se lo ritenete opportuno, che
fosse divulgato.
Maria e Yussuf, che vengono nominati nella lettera, sono rispettivamente
l'altra mia cognata e suo marito sociologo palestinese.
Vi ringrazio, con affetto Enrico
Quarantotto ore a Ramallah
Pasqua 2002
Siamo partiti per Ramallah perche' sentivamo il bisogno di essere vicini ai
nostri amici palestinesi e di essere la' dove loro ci chiedevano di essere.
Il giorno prima eravamo passati in massa attraverso il check-point di
Betlemme, cogliendo di sorpresa i soldati di guardia ed eravamo sfilati in
quattrocento attraverso la citta'.
La gente si faceva sulla porta e ai balconi e ci diceva: "Non e' qui che
dovete venire, dovete andare a Ramallah dal nostro presidente".
A Betlemme si aspettavano l'arrivo dell'esercito di ora in ora, ma
pensavano che il posto importante fosse Ramallah, dove c'e' Arafat.
Con i tempi palestinesi un po' elastici e quelli del gruppo ancora piu'
elastici, ci siamo avviati dall'albergo Ambassador di Gerusalemme alle 9 di
mattina.
Io avevo anche una missione privata da compiere, dovevo assolutamente
vedere mia sorella Maria e suo marito Yussuf e portare a loro la mia
solidarieta'.
Io non sono per niente abituata alla guerra.
Sul pulmino che ci trasportava verso i due check-point avevo un po' di paura.
Siamo passati dal primo ufficialmente, quello di el-Ram.
Abbiamo superato il secondo come tutti i palestinesi fanno, a piedi, un po'
affannati, su un sentiero piuttosto scosceso e accidentato.
Non e' per la sicurezza loro che gli israeliani impongono i check-point; i
check-point si superano con una certa disinvoltura se non si e' vecchi,
malati, partorienti o se non si devono fare trasporti.
I check-point hanno unicamente la funzione di molestare la gente e di
umiliarla, di farla aspettare in coda per ore per poi dire: "no, oggi non
ti faccio passare", affinche', per percorrere 20 chilometri, ci si
impieghino sei ore e si perdano giornate di lavoro, di studio, di vita.
Al di la' del check-point di Qalandya ci aspettavano altri due pulmini e
abbiamo incominciato l'avvicinamento alla zona effettivamente sotto assedio.
I giovani palestinesi che ci conducevano avanzavano, spiavano dagli angoli,
facevano marcia indietro, avvistavano un carro armato, svoltavano
bruscamente a destra o a sinistra.
Ad un certo punto la situazione era un po' tesa e abbiamo dovuto fermarci
per una mezz'oretta in una zona sicura per aspettare che passasse il
momento critico.
E' arrivata un'ambulanza con la bandiera della Croce Rossa e si e' messa
davanti al nostro piccolo convoglio.
Sali e scendi, gira e svolta ancora per un po' e alla fine eravamo in salvo
all'Hotel Ramallah dove dovevamo incontrare il gruppo dei francesi e degli
italiani che ci avevano preceduto il giorno prima.
Quelli che erano gia' li' ci hanno messo al corrente di cio' che avevano
fatto e di quello che si apprestavano a fare.
I francesi avevano in mente di andare al Mukata, il cosiddetto quartier
generale di Arafat, passando per gli ospedali per donare il sangue e vedere
di che cosa ci fosse bisogno.
Siamo partiti in un gruppo di circa cinquanta persone; i francesi sono
molto organizzati e determinati, un po' arroganti.
Loro andavano a passo serrato, quasi di corsa.
La regola in zona di guerra e' di camminare in mezzo alla strada, di farsi
vedere e di stare insieme il piu' vicini possibile.
Avevano i nostri pettorali bianchi e tutto quello che di bianco potevamo
portare.
Avevo parlato con Maria al telefono e sapevo che dovevo essere nei
dintorni, ma non sapevo dove e mi prendeva l'ansia di non riuscire a
incontrarla o vederla.
Le strade erano vuote, la citta' completamente deserta, si sentiva e si
sarebbe sentito per tutti i due giorni lo spaventoso sferragliare dei
carri, si sentivano gli scoppi, gli spari.
Dietro ad una curva, eravamo quasi agli ospedali in cima alla salita c'era
un carro armato con il suo bel cannone puntato su di noi.
Era in mezzo alla strada, tra i due ospedali che sono uno di fronte all'altro.
Aveva una voce, il carro, che diceva:"Go away", in tono assai minaccioso,
"Go Away", veniva fuori dal mostro, "go away".
La capa della delegazione francese, molto tosta, che si chiama Claude, ha
lasciato il gruppo ed e' andata avanti adagio; gridava: "I want to talk to
you", aveva le mani come le deve tenere la gente in questi casi, allargate
ma non alte.
Diceva: "I want to talk to you" con aria altrettanto imperiosa, ogni volta
che dal carro proveniva il "go away".
Mi sono ricordata in quel momento che in Africa una studiosa di leoni ci
aveva detto che se si incontra un leone aggressivo bisogna alzare la voce e
gridargli di andarsene con tono deciso.
Andavamo avanti piano piano tra un "go away" e un "I want to talk to you".
Strano, ma il carro andava indietro.
Siamo arrivati all'altezza del cancello del primo ospedale sulla sinistra e
ci siamo accorti di quello che stava succedendo.
L'esercito era li' per occupare gli ospedali, c'erano due cingolati nel
cortile e dei soldati gia' dentro.
Infermiere, infermieri e dottori erano seduti per terra davanti al mezzo,
con una fila di soldati che gli puntava addosso il fucile, con i loro corpi
volevano impedire al mezzo di entrare e ai soldati di passare.
Ci siamo infilati con loro e ci siamo messi li' davanti ai soldati.
La situazione si e' inasprita quando su due barelle spinte a mano sono
arivati due ragazzi morti, giovani, uno con un buco nella tempia, e l'altro
con un buco nel torace grande come un cratere.
Il personale dell'ospedale si e' messo a gridare, ha preso i morti e li ha
portati davanti ai soldati, i soldati si sono spaventati, Roberto Giudici
si e' messo in mezzo per proteggere i dottori e gli infermieri.
I morti sono stati portati dentro l'ospedale, la tensione era alta.
Fuori alcuni parlamentavano con i soldati del carro armato.
Poi miracolosamente i soldati hanno cominciato a ritirarsi indietro,
liberando il cortile, il carro armato a iniziato a indietreggiare, i due
cingolati li hanno seguiti, i militari che erano gia' dentro all'ospedale
sono usciti e tutti se ne sono andati giu' per la strada verso il centro
citta'.
Siamo stati festeggiati come dei liberatori.
Una forza di protezione di pensionati, studenti, impiegati, insegnanti,
preti, sbucati fuori dalla curva, all'improvviso avevano scacciato l'esercito.
I francesi hanno proseguito, sono arrivati al Mukata, si sono uniti al
presidente Arafat, e alcuni sono ancora la' con lui.
Se non ci fossero, forse Arafat sarebbe gia' morto.
Noi siamo rimasti agli ospedali, la gente temeva che l'esercito sarebbe
ritornato.
E' successo infatti nel pomeriggio quando e' comparso un carro che ci ha
visto, ha fatto un elegante giro a U e se ne e' ripartito.
Intanto noi avevamo offerto di donare il sangue.
A poco serve il sangue perche' e' raro che la gente arrivi ferita.
In genere l'esercito di occupazione fa in modo che arrivi gia' morta.
Comunque la nostra offerta di sangue e' stata gradita, solo che siamo tutti
mezze calzette e quasi nessuno di noi aveva un sufficiente tasso di
emoglobina, forse per la gran paura.
Ci hanno dato da mangiare, ci hanno fatto un esame gratuito del sangue,
sani, ma debolucci, e ci hanno detto: " Restate con noi".
Abbiamo deciso di passare la notte con loro, facendo turni di guardia.
Ci hanno dato le coperte estraendole da loro magazzino e ci hanno dato un
posto per dormire con anche il bagno.
Lisa Clark e io siamo uscite in una missione di protezione di un infermiere
che andava in una casa del vicinato a prendere la chiave del magazzino.
Avevamo una paura tremenda.
Nel buio, anche solo attraversare la strada ci sembrava un salto nell'ignoto.
Cinque minuti di passeggiata velocissimi ci sono sembrati eterni e abbiamo
tirato tutti e tre un gran fiato quando siamo rientrati.
Poco prima avevamo visto le infermiere di un turno con i loro veli islamici
bianchi avviarsi verso casa strette l'una all'altra per farsi coraggio e
poi girare a destra e sparire inghiottite nella notte.
Nella notte, durante il mio turno di guardia, chiacchieravo con questi
medici e questi infermieri che ormai vivono all'ospedale perche' non
possono tornare a casa.
Di notte il cecchino diventa cattivo e nervoso e spara giu' dai piani alti
e i rastrellamenti non hanno comunque mai sosta.
Sono gente dolce e colta, amante del suo lavoro e fiera del suo ospedale.
L'esercito di occupazione sta cercando di distruggere tutte le
infrastrutture dell'Autorita' Palestinese.
Nella notte fredda, passeggiavo in su e in giu' con un tecnico della
riabilitazione e parlavamo dei cosiddetti terroristi suicidi.
Non ho trovato nessuno, mai nessuno che non fosse pronto a giustificare, a
sostenere i gesti di questi martiri.
E' inutile starsi a raccontare storie.
Al piu' ti dicono che non lo farebbero personalmente, al massimo dichiarano
di non essere ancora arrivati al limite della disperazione.
Ammettono che politicamente magari e' controproducente o perfino dannoso,
ma la rabbia, la disperazione, l'umiliazione, non si possono sempre
incanalare in direzioni razionali.
Anche lui diceva quello che dicono tutti.
Ci sono tre ragazzini, forse di diciassette, diciotto anni che si stringono
tremebondi l'uno all'altro.
Sono poliziotti, mi dicono, che si sono tolti la divisa e sono scappati dal
centro.
Sono terrorizzati.
Sanno che se i militari li prendono per loro sara' la fine.
I medici non li possono far entrare nell'ospedale perche', se vengono a
fare un rastrellamento e li scoprono, anche per tutti gli altri e' la fine.
Gli dico di stare li' con noi, perche' probabilmente qui l'esercito non si
avvicinera' troppo.
C'e' anche uno stremato giornalista palestinese con giubbetto antiproiettile.
Da oggi ce l'hanno anche con i giornalisti e lui, essendo palestinese, teme
piu' degli altri.
Qualcuno di noi gli offre delle sardine sott'olio e dei biscotti, poi lo
vedo dormire su una sedia, con la sua telecamera stretta al petto come un
neonato.
La notte e' poi passata tranquilla, solo a un certo punto si e' visto
transitare un carro e subito il fischietto della sentinella ha lacerato la
notte.
Ma poi il carro se ne e' andato per i nevrotici fatti suoi e tutto e'
tornato tranquillo.
La mattina eravamo discretamene riposati.
Parte un drappello composto da Roberto Giudici, Floriana e Giordano per
l'albergo Ramallah dove sono arrivati altri italiani, per riportarli
all'ospedale.
Floriana si e' aggregata perche' vuole andare a far visita alla sua amica
Nadia che con il marito Milud e i due bambini vive a pochi passi
dall'albergo Ramallah.
Io mi sono aggregata perche' sono determinata a vedere Maria.
Ed eccoci in casa di Milud e Nadia che ci fanno una festa grandissima.
Ogni visitatore dall'esterno che riesce a rompere l'assedio e' visto come
un liberatore.
Io sono nervosissima.
Con l'aiuto di Milud riesco a capire quale e' la casa di Yussuf e Maria,
proprio la' a cento metri piu' in basso.
E telefono.
Lei viene alla finestra.
Grande commozione.
Ci sventoliamo bandiere bianche.
Vicinissime e lontanissime.
Sotto, nella strada, ronzano troppi carri armati per potersi fidare ad
attraversare i duecento metri che ci separano.
Abita su un cruciale incrocio a pochi passi dalla citta' vecchia, con il
municipio davanti e la zona e' presidiatissima.
Ad un certo punto mi sembra che la situazione si alleggerisca. Milud mi
dice: " Dai, proviamo, ti accompagno un pezzetto".
Corro giu' per una scaletta, attraverso la strada piu' in la', percorro
altri cinquanta metri.
La gente si affaccia e mi prepara la porta aperta in caso di bisogno.
Maria scende in strada incontro a me e finalmente possiamo abbracciarci.
Andiamo di sopra, prendiamo un the' nervosamente, mi accorgo di aver
dimenticato le sigarette che le avevo comprato, le consegno i soldi che le
ho portato, visito l'appartamento e sono pronta a ripartire dopo non piu'
di venti minuti.
Gia' i carri armati stanno di nuovo scendendo la collina di fronte e in
pochissimo tempo la zona ne e' tutta di nuovo piena.
Ma non solo: arrivano dei blindati per il trasporto truppe che vomitano
decine di militari che corrono da tutte le parti in pieno assetto di guerra.
Preoccupati, li guardiamo dal balcone.
Telefono: "Maria, li vedi?" "Si'"- mi risponde con voce rotta- " Che
vogliono?" "Niente di buono." C'e' tutto un correre, acquattarsi, i carri
si fanno piu' sotto alla casa.
Vogliono proprio loro, mi terrorrizzo.
Infatti, altra telefonata.
"Hanno preso Yussuf, lo hanno portato fuori con fucile piantato addosso".
Maria e' stata chiusa in una camera con la vicina.
Telefono a tutti quelli che posso, telefono al giornalista Paolo Colombo
facendogli una scenata e lui mi mette giu' il telefono.
Milud vede che sono entrati nell'appartamento e stanno andando avanti e
indietro.
Quando perquisiscono tirano giu' le tapparelle.
Poi sapremo che lo fanno perche' nessuno dal di fuori veda che stanno rubando.
Sapremo in seguito che hanno portato via i 500 dollari che Yussuf aveva in
un cassetto chiuso a chiave.
Non hanno sfondato le porte, perche' prudentemente erano state lasciate
aperte; non hanno rubato i soldi della colletta, perche' Maria se li era
messi in borsa, sapendo bene che il furto e' una prassi abituale delle
perquisizioni.
Quando tutto finisce si tira un sospiro di sollievo, il dente e' stato tolto.
Tanto il destino ineluttabile del Palestinese e' quello di subire
rastrellamenti interrogatori e arresti ogni due o tre giorni e quindi,
quando succede, ci si puo' rilassare per un po'.
Cala la sera; nella casa di Milud e Nadia i bambini giocano come tutti i
bambini, vanno e vengono dal vicinato, guardano la televisione, non
andranno a scuola ne' domani ne' dopo, ne' chissa' per quanto tempo,
collezionano bossoli, contano i carri armati che sferragliano, dicono
parolacce se sentono il nome di Sharon, indicano gli incendi, sentono le
bombe, vedono i razzi sparati dagli elicotteri.
La televisione e' sempre accesa su el-Jazeera, oppure su Dubai.
Il canale internazionale della Rai ogni tanto trasmette quei classici
servizi bipartisan in cui domina la voce di Amos Luzzato e si vedono vere e
proprie falsita'.
Interpretano la consueta cerimonia funebre palestinese come una festa in
onore del martire suicida.
Milud spiega che invece tutte le cerimonie sono uguali, qualsiasi sia la
ragione della morte.
I parenti e gli amici (qui le famiglie sono tutte allargate, con anche
centinaia di persone) vanno a fare visita alla casa del morto, dove
qualcuno, la madre se e' il figlio, canta le lodi dello scomparso, anche se
e' morto di polmonite e dice quanto era bello, bravo, coraggioso e valente.
Tutti si abbracciano e si baciano, per confortarsi; i palestinesi, come
tutti i popoli di qui, sono molto corporei.
"Noi grandi parliamo della difficolta' di essere palestinesi, del doverlo
negare ad ogni controllo, di politica, di religione, di ebrei, di arabi, di
Palestina, di Palestina, di Palestina.
Ne dovranno passare degli anni prima che le ferite delle umiliazioni, delle
offese, degli insulti alla dignita', della privazione di ogni diritto
possano cicatrizzare.
Il segno restera' sempre".
Durante la giornata un altro gruppo e' andato in aiuto a Moudstafa
Barghouti al Medical Relief Committee.
Moudstafa ha telefonato dicendo che ha bisogno di "internazionali" da
mandare sulle ambulanze per proteggere i medici e gli infermieri che girano
portando medicine e aiuti in cibo.
Infatti i militari fermano le ambulanze e, se I palestinesi sono soli, li
malmenano, li picchiano, li arrestano, li minacciano o semplicemente
impediscono loro di fare il loro mestiere.
La televisione trasmette in diretta la scena del fermo di una di quelle
ambulanze.
Riconosco uno dei nostri, Francesco, dallo zainetto rosso e dal pettorale
di "Action for Peace".
Sono tutti inginocchiati contro un muro con le mani dietro la nuca.
Poi li lasciano sedere.
Evidentemente i prigionieri ottengono il permesso di fumare e capiamo che
si tratta di un'azione morbida.
Li fanno sedere per terra, poi dopo un po' li portano tutti via.
Chissa' dove? Sappiamo che Luisa, Albino, Lisa, Alberta, Walter sono invece
in trappolati al Medical Relief, dove i soldati hanno accerchiato
l'edificio e intimano a tutti di uscire, altrimenti bombardano.
I soldati sono convinti che nell'ospedaletto siano nascosti dei poliziotti
armati.
Ora, essere poliziotti comporta necessariamente essere armati, ma qui
l'esercito ha gia' giustiziato con esecuzioni sommarie diversi poliziotti.
Le regole non ci sono piu'.
Il medico Mohamed esce fuori a dire che non c'e' nessun uomo armato.
Lo prendono come scudo e lo portano in giro a fare la perquisizione.
Ad un certo punto in cantina trovano una porta chiusa della quale, nella
confusione, non si trova la chiave.
Cio' basta per intimare a tutti di abbandonare l'edificio con le mani
alzate, uomini di qui, bambini di la', donne con i bambini.
E poi cominciano a sparare colpi di cannone.
Dall'edificio vicino provengono degli spari.
Cannoneggiano anche quello.
Un uomo, un civile, salta dalla finestra, il dottore e Luisa vanno per
soccorrerlo, ma gli viene intimato di non avvicinarsi.
C'e' una vera e propria rissa attorno al ferito, con i militari che lo
tirano da una parte e i nostri che lo tirano dall'altra.
Andiamo a dormire, mentre verso Betunia il cielo e' rosso fuoco e le bombe
assordano.
Stanno assalendo la sede della Forza di protezione palestinese dove sono
asserragliati 400 palestinesi con donne e bambini.
Andranno avanti per tutta la notte, tenendo svegli tutti, tranne me che
dormo il sonno dell'innocenza.
Fuori dalla finestra a cinque metri dal mio letto, staziona un grosso carro
armato.
Al risveglio ci telefonano che arrivano a prenderci.
Parlo un'ultima volta al telefono con Maria.
La saluto dalla finestra.
Le raccomando "Stai attenta".
Mi raccomanda "Stai attenta".
Ritorniamo a piedi indietro all'ospedale, camminando in mezzo alla strada,
senza guardare in giro, senza rispondere alla gente che si affaccia sulle
porte chiedendo, implorando un po' di cibo, pane, latte, acqua.
Mandate qualcuno, venite a vedere, la mia mamma e' anziana, malata.
Non possiamo fermarci.
Come sempre tutti gridano "welcome", agitano le due dita a V.
Arriviamo all'ospedale.
Arriva qualcuno dicendo che fuori in strada c'e' una donna ferita.
Un cecchino le ha sparato, mentre se ne tornava dopo una medicazione.
E' in terra; tre dei nostri cercano di avvicinarsi per soccorrerla.
Sparano anche su di loro per tenerli lontani.
Poi la finiscono.
Continua ad arrivare gente.
Qui non si capisce piu' se siamo noi a proteggere l'ospedale o l'ospedale a
proteggere i giornalisti, i poliziotti, gli "internazionali".
Un gruppo di noi decide di tornare a Gerusalemme.
A piedi, se necessario.
Luisa ci organizza una guida, ma dobbiamo raggiungerla perche' e' troppo
pericoloso per lei venire fino a qui.
Ci aspetta alla stazione televisiva palestinese che da mesi e' stata fatta
saltare in aria: ne restano solo dei ruderi anneriti.
L'attraversamento della citta' spettrale, sotto una pioggia sferzante, e'
piuttosto impressionante.
Abbiamo vaghe indicazioni della strada da percorrere, ma non siamo sicuri
di dove andare.
La gente si affaccia e grida "Avete bisogno di aiuto?" Noi sappiamo che e'
meglio non rispondere per non mettere in pericolo noi e loro.
Dopo una camminata di un'oretta, alla stazione televisiva non vediamo
nessuno, poi vediamo venire su per la strada una ragazzina con uno straccio
bianco e un piccolo ombrello.
Lei e' la nostra guida.
Ne arriva anche un'altra, senza ombrello.
Ci guidano per la strada delle montagne, cosi' dicono, che non dobbiamo
rivelare a nessuno.
Attraversiamo campi sentiamo il profumo del timo, ci sono i fiori di
primavera gialli e rosa, ci teniamo sotto gli ulivi ben potati e fioriti,
quando ci sono; un pastore con un gregge fa un po' di tragitto con noi, a
cavallo di un asinello.
Dico a Massimo: siamo come Ulisse che scappa da Polifemo insieme alle pecore.
Il fango del terreno argilloso si appiccica alle scarpe e si scivola.
Attraversiamo fossi e ci arrampichiamo per muretti.
Sembriamo una misera armata brancaleone, guidata da due Giovanne d'Arco
piccoline e magre, con l'ombrello.
Alla fine vediamo davanti a noi il paese di Qalandia.
Abbiamo aggirato il check point e siamo ormai in salvo.
La gente viene fuori dalle case: "Thank you", "Welcome", segni di vittoria.
Ancora qualche chilometro e arriviamo al check-point di el-Ram.
I soldati non ci fermano, ci dicono delle parole di scherno che non
capiamo: ridono di noi.
Effettivamente siamo proprio buffi, tutti infangati e bagnati come pulcini.
Al di la', ci e' stato annunciato, dovrebbero esserci le macchine consolari
e anche la stampa.
Sono certa che invece non vedremo nessuno.
Il console di Gerusalemme si e' sempre distinto per il suo indomito coraggio.
Prendiamo un taxi.
CON LA PALESTINA NEL CUORE.
Angela