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pc:L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer
- To: news@peacelink.it
- Subject: pc:L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer
- From: "Arianna Editrice" <arianed@tin.it>
- Date: Sun, 18 Nov 2001 18:02:10 +0100
Corriere della Sera
Venerdì 16 Novembre 2001
LETTERA DAL FRONTE ISLAMICO
L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer
di TIZIANO TERZANI
QUETTA (Pakistan) - Nelle conversazioni con tanti e diversi
tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo
riferimento a una sorta di violenza di cui molti dicono ora di
sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A
torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come
uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica»
che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa
sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una
certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese
vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il conferimento
del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco
all'Islam. Da qui la reazione difensiva e il ricorrere
all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma
ideologica contro la modernità, vista come
occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i
tablighi, senza voler essere jihadi , finiscono per
simpatizzare con i talebani e con Osama.
Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un problema che non
si risolve con le bombe, che non si risolve andando in giro
per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per
rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di
convenienza messe assieme in qualche lontana capitale.
Osama può anche venir stanato dall'Afghanistan; i talebani
possono anche essere sgominati e ridotti ad una forza annidata
nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma il
problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più
virulento.
A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente
numero di gente che non aspira ad essere come noi, che non
insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i
nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni,
incontrato al raduno dei missionari tablighi me lo ha detto
con grande semplicità: «Non vogliamo vivere come voi, non
vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non
vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia
retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra economia
non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla
fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio
fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a
comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi
ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta quella enorme
massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e
mezzo - la pensasse davvero come lui?
Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah,
ed ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare
a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da Chaman, una
cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada
fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il
centro spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è
praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è
in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso
speciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa
locanda.
Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho scoperto che
ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano
i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E lì
ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di
missile Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello
scritto a mano ed attaccato al muro scortecciato dietro il suo
letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come
un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno
penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba
ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una
granata. Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato
quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre
l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene
compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno.
Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità
non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che
serve sapere che i missili Cruise che hanno ammazzato gli
amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e fatto tutti i
disgraziati che giacciono immobili e muti in questo sudicio
ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla
fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a
causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili
dovremmo semplicemente smettere di produrli.
Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte
no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di
giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare
al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I
pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti
traffici che avvengono a quel confine e si dice che
incoraggino i ragazzini dei campi profughi a prendere a
sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di
visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due
studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non
ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante
di stoffe. Ci ha salvati una delle piccole ambulanze di Abdul
Saddar Edhi, il «santo» di Karachi, che vanno oltre la
frontiera a prendere i feriti. Nel pomeriggio sono riuscito ad
incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una
richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho
potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e,
dopo qualche calcio ai miei studenti ed un po' di diplomazia
da parte mia, siamo stati rilasciati.
Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tornando a
Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando
la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha
forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò
una grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e
della assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in
testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato ed una
mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di
pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte
violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde
di un oceano congelato dall'eternità. Su una vetta vicina, una
decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da
preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro
quell'immensità si inchinavano ritmicamente verso Occidente,
sapendo che altri milioni di musulmani in quello stesso
momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con
lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che
li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge.
Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11
settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giusto per
sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione. Da
San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i
sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti
facevano gli stessi generici discorsi, senza un solo
riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle angosce
della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in
Pakistan ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma
con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di
sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa
preferisce ancora tacere, invece che rompere i ranghi
dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua
voce di pace.
Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi
rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli americani
trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde
Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel
lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari
livelli. Ed anche se lo trovano? La guerra, così come è stata
annunciata, non finirà qui.
Pensata da quel passo fra le montagne l'Europa mi pareva
lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui
pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene
in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la
caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi
dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima
fase». L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini.
Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo
fatto i conti con i musulmani che vivono fra di noi e che ora
possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma
meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche
noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti
quelli che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere?
Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Europa
dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari governi a
fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington,
si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed
alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola
afghana. Giorni fa un giornale in lingua Urdu argomentava
convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un
altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan,
in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si impantanino
e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in
discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso
Pakistan, hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati
Uniti e grandi preoccupazioni per questa nuova presenza
militare americana nel cuore dell'Asia Centrale. L'Europa non
è in alcun modo in questa posizione.
Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto
indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti perseguano,
dietro il paravento di questa guerra internazionale al
terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un
nuovo ordine mondiale che persegua esclusivamente l'interesse
nazionale americano.
Il gruppo ora al potere a Washington, formato principalmente
da veterani della Guerra Fredda, con in testa il Segretario
alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa
essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi
dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati
per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede
l'abrogazione; è quel gruppo che ha sostenuto la necessità
della superiorità nucleare americana ed ha in passato detto
che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per
restare per sempre ferme nei silos. Con la fine della Guerra
Fredda e la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha
visto con preoccupazione il ridursi progressivo della spesa
militare Usa ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo
nemico che giustificasse il rottamaggio dei vecchi armamenti e
la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici
«intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del
ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di
«nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto
che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto
improbabile che si mettesse a sfidare la potenza americana.
Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile
sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di
Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo
raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam,
«nemico» contro cui difendersi nell'appena inventato «scontro
di civiltà».
Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente
credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una
politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico
è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di
demonizzazione nei confronti di quelli che Washington
definisce tali è cominciato. I primi a farne le spese sono
stati i talebani ex mujaheddin ed Osama Bin Laden creature
loro stesse, non va dimenticato, dell'America quando questa
aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica.
L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione,
l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria
storia, alla propria esperienza di diversità al fine di
trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di
civiltà.
La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità.
Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili
innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su chi non
è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici
come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero
stati riconosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan
nel 1996 quando presero il potere, forse le statue di Bamyan
sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama Bin Laden non
sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i talebani vivono
nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi.
Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per
sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar, il
diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania
un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime
notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe
rimasto al suo posto, ora che Kabul è caduta.
Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salutare Abdul
Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con
nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un
uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia.
Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato.
Raccoglie faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a
bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna».
Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustificazioni,
delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi
ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo
conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti
e morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo
ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie
pallottole. E mi vergogno davvero.
© Corriere della Sera