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Tiziano Terzani - Il soldato di ventura e il medico afghano








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fonte: Corriere della Sera
31 Ottobre 2001
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Il soldato di ventura e il medico afghano
di TIZIANO TERZANI

PESHAWAR - Sono venuto in questa citta' di frontiera per essere piu' vicino 
alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; 
ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se e' salata o meno, ora 
ho l'impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di 
follia umana che, con questa guerra, sembra non avere piu' limiti.
Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di 
prevedere quel che succedera' e di non poterlo evitare, l'angoscia di 
essere un rappresentante della piu' moderna, piu' ricca, piu' sofisticata 
civilta' del mondo ora impegnata a bombardare il Paese piu' primitivo e 
piu' povero della Terra; l'angoscia di appartenere alla razza piu' grassa e 
piu' sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al gia' 
stracarico fardello di disperazione della gente piu' magra e piu' affamata 
del pianeta. C'e' qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - 
mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall'inizio dei bombardamenti 
anglo-americani dell'Afghanistan la situazione mondiale e' molto piu' tesa 
ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e 
palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono sul punto di 
rottura; l'intero mondo islamico e' in agitazione e ogni regime moderato di 
quel mondo, dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la 
montante pressione dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei 
commandos, mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci 
credere che la guerra e' solo un videogame, i talebani sono ancora 
saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno 
dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il 
senso della nostra sicurezza.
"Sei musulmano?", mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare 
una focaccia di pane azzimo.
"No".
"Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti".
Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.
Lo chiamano Kissa Qani, il "bazar dei raccontastorie". Ancora una ventina 
d'anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell'Asia pieno delle 
piu' varie mercanzie e varie genti. Ora e' una sorta di camera a gas con 
l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre piu' in mal arnese 
a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci 
si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura 
arrivato qui a meta' dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato 
governatore di questa citta'. Per tenerla in pugno, ogni mattina all'ora di 
colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto piu' alto della 
moschea e per decenni ai bambini di Peshawar e' stato detto: "Se non sei 
buono, ti do ad Avitabile". Oggi le storie che si raccontano al bazar sono 
tutte sulla guerra americana.
Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington e' stato 
opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano 
sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e quella 
secondo cui l'antrace per posta e' una operazione della Cia per preparare 
psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono gia' 
vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L'ultima 
e' che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono 
a piegare l'Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di 
dollari sulla gente. "Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno 
gia' tirati piu' di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, 
i talebani non sarebbero piu' al potere", dice un vecchio rifugiato 
afghano, ex comandante di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a 
sedersi accanto a me.
L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi 
con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte e' diffusissima. Giorni 
fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunita' afghana in 
esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per 
discutere del futuro dell'Afghanistan "dopo i talebani". Per ore e ore dei 
bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni 
occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di "pace e unita", 
ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna 
convinzione. "Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di 
raccogliere fondi americani", diceva un vecchio amico, un intellettuale 
pakistano, di origine pashtun come quella gente. "Ognuno guarda l'altro 
chiedendosi "e tu quanto hai gia' avuto?". Quel che gli americani 
dimenticano e' un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non 
si compra".
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per 
quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del 
problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un 
governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani 
moderati - e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di 
Al Qaeda, risparmiando cosi' il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie 
quando questo terreno e' l'Afghanistan.
Gia' l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent'anni, 
possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese e' una illusione di chi 
crede di poter rifare il mondo a tavolino, e' una pretesa di quei 
diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta 
andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di 
quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana - 
gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non 
aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di 
indifferenza per la sofferenza del suo popolo. "Bastava che al tempo 
dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano 
ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice l'amico 
-... e poi, poteva almeno l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio 
alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di 
rilievo anche dal punto di vista religioso".
A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per il loro 
gioco era Abdul Haq, uno dei piu' prestigiosi comandanti della resistenza 
anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che segui'. "Non e' 
qui. E' andato in Afghanistan" si diceva durante la conferenza di Peshawar, 
alludendo ad una "missione" che sarebbe stata decisiva per il futuro. 
L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande 
ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe 
staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe 
potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale 
fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non 
vogliono assolutamente vedere al potere.
La "missione" di Abdul Haq non e' durata a lungo. I talebani lo hanno 
seguito appena quello e' entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo 
hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un 
"traditore" assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro 
attrezzatura elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a 
salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica 
era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la 
pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse 
un vuoto di potere. Ma tutto questo non e' successo. Anzi. Ogni indicazione 
e' che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti 
occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per 
scoraggiare altri tentativi, di non avere piu' spazio, ne' cibo per 
detenerne altri. "Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti 
giudicati secondo la sharia, la legge coranica", dicono, come farebbe un 
qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per 
smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non 
cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il 
nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, 
fa si' che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora 
si schiera dalla loro parte. "Quando un melone vede un altro melone, ne 
prende il colore", dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo 
come invasori, gli afghani diventano sempre piu' dello stesso colore.
Per gli americani, gia' sotto enorme pressione internazionale per la 
stupidita' delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente 
inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'e' 
rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, 
"vivo o morto", e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il 
Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare 
il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche 
centinaio di vittime civili, e' terrorizzare la popolazione delle citta' 
gia' ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto 
fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza 
tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni 
che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano gia' "a rischio" per mancanza 
di cibo e protezione prima dell'11 settembre.
"Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario 
internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo, 
quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro 
non sanno neppure che cosa e' successo alle Torri Gemelle".
Quel che tutti sanno invece e' che bombe, le bombe che giorno e notte 
distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le 
bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo di 
lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo 
coagula l'odio dei pashtun, degli afghani e piu' in generale dei musulmani 
contro gli stranieri. Ogni giorno di piu' l'ostilita' e' ovvia sulla faccia 
della gente.
Ero andato al bazar perche' volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla 
manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar 
dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l'amico pashtun mi aveva avvertito 
che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. "I duri non 
marciano piu', si arruolano. Vai nei villaggi", m'aveva detto.
L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti 
universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho 
gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non e' 
misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a 
fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato e' a due ore di macchina da Peshawar, a mezza 
strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la 
frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un 
funzionario inglese - non esiste.
Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra 
identiche montagne vive un'identica gente: i pashtun (detti anche pathan) 
che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I 
pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un 
Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non e' mai 
completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri 
dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a 
sconfiggere. "Un pashtun ama il suo fucile piu' di suo figlio - dicevano 
dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maesta' -.
Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come bambini". I 
talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui 
ora cadono le bombe americane.
"Mio padre e' sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i 
bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c'e' 
alternativa alla jihad", diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo 
Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le 
prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi 
slogan dipinti di fresco. "La jihad e' il dovere della nazione", "Un amico 
degli americani e' un traditore", "La jihad durera' fino al giorno del 
giudizio". Il piu' strano era: "Il profeta ha ordinato la jihad contro 
l'India e l'America".
Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni 
fa, l'India e l'America esistessero gia'. Ma e' appunto questa accecante 
mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso 
la piu' semplicistica e fondamentalista versione dell'Islam, quella 
devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po' 
troppo avventatamente, di venirci a confrontare.
"Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, 
prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, 
mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto li', 
nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno 
morire cosi'?". Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi 
da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad 
alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'Italia si e' 
offerta di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la 
sua sfida: "...e voi italiani allora? Siete pronti a morire cosi'? Perche' 
anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre 
moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se 
venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?". Siamo in una sorta di 
rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri 
dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose 
medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui e' 
scritto "Jihad". Attorno al "dottore" che mi parla si sono riuniti una 
decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per 
andare. Uno e' appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perche' sparano dal cielo, scappano e 
non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai 
profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti 
di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle 
piu' semplici cure.
L'atmosfera e' tesa. Qui, ancora piu' che al bazar, tutti sono 
assolutamente convinti che quella in corso e' una grande congiura-crociata 
dell'Occidente per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan e' solo il primo 
obbiettivo e che l'unico modo di resistere e' per tutto il mondo islamico 
di rispondere all'appello per la guerra santa. "Vengano pure gli americani, 
cosi' ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - 
dice uno dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non 
sconfiggerete mai l'Islam".
Cerco di spiegare che la guerra in corso e' contro il terrorismo, non 
l'Islam, cerco di dire che l'obbiettivo della coalizione internazionale 
guidata dagli americani non sono gli afghani, ma Osama Bin Laden ed i 
talebani che lo proteggono.
Non convinco nessuno. "Io non so chi sia Osama - dice il "dottore" - non 
l'ho mai incontrato, ma se Osama e' nato a causa delle ingiustizie commesse 
in Palestina ed in Iraq, sappiate che le ingiustizie ora commesse in 
Afghanistan faranno nascere tanti, tanti altri Osama".
Di questo sono convinto e la prova e' dinanzi ai miei occhi: l'ambulatorio 
e' un centro di reclutamento per la jihad, il "dottore" e' il capo di un 
gruppo di venti giovani che domani partira' per l'Afghanistan. Ognuno 
portera' con se' un'arma, del cibo e del danaro. In ogni villaggio ci sono 
gruppi cosi'. Il "dottore" parla di alcune migliaia di mujaheddin che da 
questa regione, formalmente in Pakistan, stanno per andare a combattere a 
fianco dei Talebani.
L'addestramento? Tutti, dice il "dottore", han fatto due mesi per imparare 
l'uso delle armi e delle tecniche di guerriglia.
Ma quel che conta e' l'istruzione religiosa ricevuta nella tante piccole 
scuole coraniche, le madrasse, sparse nella campagna. Mi han portato a 
visitarne una. Disperante.
Seduti per terra, davanti a dei tavolinetti di legno, una cinquantina di 
bambini - c'erano anche alcune bambine - dai tre ai dieci anni, tutti 
pallidi, magri e consunti, cantilenavano senza interruzione i versetti del 
Corano. Nella loro lingua? No, in arabo che nessuno sa. "Sanno pero' che 
chi riesce a imparare tutto il Corano a memoria lui e tutta la sua famiglia 
andranno in paradiso per sette generazioni!", mi ha spiegato il giovane 
barbuto che faceva da istruttore.
Trentacinque anni, sposato con cinque figli, ammalato di cuore, fratello 
del capo della locale moschea, diceva che nonostante le sue condizioni di 
salute, anche lui sarebbe andato a combattere. Aspettava solo che gli 
americani scendessero dai loro aerei e si facessero vedere al suolo. "Se 
non smettono di bombardare costituiremo piccole squadre di uomini che 
andranno a mettere bombe e a piantare la bandiera dell'Islam in America. Se 
verranno presi dall'Fbi si suicideranno", diceva con un sorriso invasato.
A parte la memorizzazione del Corano le madrasse insegnano poco o nulla, ma 
per le famiglie povere della regione quella, pur miserissima, e' l'unica 
educazione possibile. Il risultato sono i giovani che oggi vanno alla jihad 
e il crescente potere che i mullah, ugualmente ignoranti e ottusi, hanno 
sulla popolazione delle campagne grazie al loro monopolio sulla religione e 
sui fondi dei paesi musulmani come l'Arabia Saudita.
Dovunque ci siamo fermati in quelle ore non ho sentito che discorsi carichi 
di fanatismo, di superstizione, di certezze fondate sull'ignoranza. Eppure 
sentendo parlare questa gente, mi chiedevo quanto anche noi, pur colti e 
rimpinzati di conoscenze, siamo pieni di preteso sapere, quanto anche noi 
finiamo per credere alle bugie che ci raccontiamo.
A sette settimane degli attacchi in America le prove che ci erano state 
promesse sulla colpevolezza di Osama Bin Laden, e di riflesso dei talebani, 
non ci sono state ancora date, eppure quella colpevolezza e' ormai data per 
scontata. Anche noi ci facciamo illudere dalle parole e abbiamo davvero 
creduto che la prima operazione delle forze speciali americane in 
Afghanistan era intesa a trovare il centro di comando dei talebani, senza 
pensare che, come dice il mio amico pashtun "quel centro non esiste o e' al 
massimo una capanna di fango con un tappeto da preghiera e qualche piccione 
viaggiatore, ora che i talebani non possono piu' usare le loro radioline 
facilmente intercettabili dagli americani".
E non e' il fanatismo di questi fondamentalisti, simile al nostro arrogante 
credere che abbiamo una soluzione per tutto? Non e' la loro cieca fede in 
Allah, pari alla nostra fede nella scienza, nella tecnica, nella abilita' 
di mettere la natura al nostro servizio? E' con queste certezze che andiamo 
oggi a combattere in Afghanistan con i mezzi piu' sofisticati, gli aerei 
piu' invisibili, i missili piu' lungimiranti e le bombe piu' "ammazzauomo" 
per rifarci di un atto di guerra commesso da qualcuno armato solo di 
tagliacarte e di una ferma determinazione a morire.
Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a 
uccidere innanzitutto degli innocenti e con cio' ad aizzare ancor piu' un 
cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella 
direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che 
con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di piu' dalla 
via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad, quella fra 
me e me e' continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi 
lontano le zanzare. Certo che non e' invidiabile una societa' come quella 
che produce dei ragazzi cosi' ottusi e disposti a morire. Ma lo e' forse la 
nostra? Lo e' quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di 
Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli 
attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto 
cresce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui 
avevo appena gettato uno sguardo era una societa' carica d'odio. Ma e' da 
meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani 
sulle riserve naturali dell'Asia Centrale, bombarda un paese che vent'anni 
di guerra han gia' ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per 
proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, 
si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno 
esperto in definizioni, che differenza c'e' fra l'innocenza di un bambino 
morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul? 
La verita' e' che quelli di New York, sono i "nostri" bambini, quelli di 
Kabul invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo 
l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, 
sono i bambini "loro". E quei bambini loro non ci interessano piu'. Non si 
puo' ogni sera, all'ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un 
piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si e' gia' 
visto tante volte; non fa piu' spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo 
gia' abituati. Non fa piu' notizia e i giornali richiamano i loro 
corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui 
collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di 
Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l'attenzione e' gia' 
stata anche troppa.
Eppure l'Afghanistan ci perseguitera' perche' e' la cartina di tornasole 
della nostra immoralita', delle nostre pretese di civilta', della nostra 
incapacita' di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una 
forza di pace e non la forza delle armi puo' risolvere il problema che ci 
sta dinanzi.

"Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed e' nella mente degli 
uomini che bisogna costruire la difesa della pace", dice il preambolo della 
costituzione dell'Unesco.
Perche' non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia 
quella brutale e banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato 
una grande conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor 
meno quella della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di 
scacciare le zanzare.
La notte e' fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un 
altoparlante comincia a salmodiare dall'alto di un minareto vicino; altre 
rispondono in lontananza.
Partiamo.
Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione e' gia' accesa la 
televisione. La prima notizia, all'alba, non e' piu' la guerra in 
Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del "piu' grande contratto di 
forniture belliche nella storia del mondo".
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione 
della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi 
per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in 
funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 
2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in mente una frase dell'invasato 
"dottore": "Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi 
siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo 
pronti".
E noi? Questo e' davvero il momento di capire che la storia si ripete e che 
ogni volta il prezzo sale.





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Mi scuso con tutti coloro che hanno gia' ricevuto questo testo,
e con tutti per l'arbitrio che mi prendo nel mandarvi questo tipo di documenti.
Chiedo a chi non vuole riceverli di mandarmi un cenno.
I contenuti qui espressi non corrispondono necessariamente col mio punto di 
vista.

sdv
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