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come hanno raccontato Perugia Assisi - rassegna stampa 15/10/01
DA GENOVA AD ASSISI
CURZIO MALTESE
Una marea di ventenni ha travolto parole e duelli rusticani, luoghi
comuni e ideologie, e ha trasformato la marcia PerugiaAssisi nel più
grande corteo pacifista della storia d'Italia. Erano attese sessantamila
persone, al massimo ottantamila come nel ‘91, l'anno della Guerra del
Golfo. Ne sono arrivate tre, quattro volte tanto, come a Genova. Ma senza
black bloc e cariche di polizia, nessuno ha rovinato la festa.
Neppure le eterne polemiche da talk show nell'Ulivo e nella sinistra fra
leader di ieri, oggi e forse domani, dei quali a questi ragazzi non
importa nulla, poco interessati come sono, secondo il sociologo Diamanti,
«alla personalizzazione della politica» .
Non ci sono stati ceffoni metaforici né reali, né la temuta «replica del
G8», né il rogo di stelle e strisce. L'unica bandiera americana presente
è arrivata sana e salva a destinazione, dopo venticinque chilometri. Così
come Massimo D'Alema, simbolo della sinistra «guerriera», che si è preso
soltanto pochi fischi all'inizio, senza perdersi d'animo. Ulivo e no
global hanno marciato vicini, se non a braccetto, contenti di esserci
tutti, Fassino e Bertinotti, D'Alema e Casarini, Castagnetti e Agnoletto.
In fondo è più nobile una sinistra che si divide sulla guerra che una
destra unita contro le rogatorie.
E' stata un'occasione migliore di Genova, dove la violenza ha oscurato
tutto, per conoscere le ragioni di un movimento che s'identifica con una
generazione, quella dai 18 ai 25 anni. Una generazione cresciuta dopo la
caduta dei muri, che chiede una nuova politica e di fronte alla quale
siamo tutti a corto di argomenti e strumenti. E' ridicolo paragonare
questo pacifismo a quello filo sovietico e «a senso unico» degli anni
Cinquanta, quando non erano nati neppure i loro padri. Altrettanto
assurdo liquidare il fenomeno con l'etichetta dell'antiamericanismo, che
è stato il grande assente della marcia umbra. Forse bisognerebbe parlare
della prima generazione di europei. «Nessuno pensa che l'America incarni
il male» dicono «ma neppure che sia sempre e soltanto il bene». Del
resto, non è facile essere sempre d'accordo con l'America quando neppure
l'America è sempre d'accordo con se stessa. Il Bush che oggi s'affanna
per l'emergenza dell'antrace non è lo stesso che al G8 del luglio scorso
si era detto contrario perfino al controllo mondiale sulle armi
batteriologiche? Quello che aveva annunciato la fine di ogni intervento
pubblico nell'economia non è lo stesso presidente che oggi lancia il più
grande piano di aiuti statali all'economia dal dopoguerra? Il mondo
cambia e la storia non si è fermata con la fine del comunismo, come
volevano i profeti del neo liberismo. La storia corre più in fretta di
prima, e i ventenni lo sentono e lo vivono più di tutti.
Le ragioni contro la guerra non sono ideologiche. Sono piuttosto dubbi,
domande semplici, a volte banali, che si fanno tutti. Servirà davvero
bombardare Kabul e Kandahar per prendere bin Laden? Basterà prendere bin
Laden per vincere la lotta al terrorismo? Non c'è il rischio che
allargare il conflitto, come i dicono i falchi del Pentagono, significhi
ritrovarsi nella terza guerra mondiale? Perché tutti fingono che il
petrolio non c'entri? Che senso ha pretendere di «occidentalizzare» il
Sud del mondo con il modello consumistico americano quando si sa che le
risorse non bastano, che cinque miliardi di frigoriferi e automobili non
si possono produrre, pena la distruzione del pianeta?
Sono domande serie sul futuro, com'è normale che le pongano dei ventenni,
alle quali qualcuno prima o poi dovrà dare risposte serie. Invece di
aggrapparsi all'ideologia, al conformismo, all'anticomunismo che è
defunto come il comunismo, a decrepite analisi, all'americanismo che
tiene tutto e ricorda le barzellette coloniali del secolo scorso («A
Londra ci sono gli inglesi, gli anglofili vivono a Ceylon» ). O peggio
ancora, alle demonizzazioni («siete con i terroristi») o agli insulti:
«viziati», «senza palle». Chi avrà detto poi che ci vogliono più palle a
bombardare un villaggio da diecimila metri d'altezza, piuttosto che
arrivarci disarmati portando medicine e cibo, come hanno fatto in questi
anni centinaia e migliaia di pacifisti italiani.
Non è stata «una replica di Genova», come temeva Rutelli. Ma c'erano le
stesse facce, gli stessi striscioni, le stesse domande del luglio scorso.
E stavolta non sarà facile liquidare tutto parlando d'altro, di teppisti
vestiti di nero e assalti alle camionette, lasciando che qualche capetto
vada a sputtanarsi da Vespa e Santoro. (REPUBBLICA 15/10/01)
LINEA DI CONFINE
Sinistra, errori di ieri illusioni di oggi
di MARIO PIRANI
Le difficoltà della sinistra in tempi di guerra non nascono oggi e
neppure durante il conflitto del Golfo o l'intervento nel Kosovo. Neppure
sono riducibili alla sola sinistra italiana. In questi giorni in Francia,
dove pure la «gauche plurielle», inventata da Jospin, è al governo e,
quindi, porta le responsabilità delle decisioni della Nato, le divisioni
ricalcano quelle dei marciatori di Assisi. L ‘ultimo comunicato dei Verdi
parigini denuncia «la logica della guerra che aggiunge la violenza armata
a quella terroristica», mentre il Pcf ogni giorno che passa accentua i
distinguo e le critiche contro «l'ingranaggio dalle terribili
conseguenze» messo in atto dagli Usa.
Alla base di tutto ciò vi è la difficoltà a fare i conti con l'eredità di
una tradizione pacifista che si ripresenta all'incirca negli stessi
termini ogni qualvolta le crisi internazionali minacciano di sfociare in
un conflitto armato. Anche se i tardivi eredi non ne sono probabilmente
neppure consapevoli le loro scelte odierne sono dettate da un Dna che
riproduce comportamenti assolutamente analoghi di un passato ormai
lontano, non solo nell'asserzione dei valori del pacifismo ma, altresì,
negli errori di giudizio politico che, con impressionante coazione a
ripetere, li accompagnano.
Le origini vanno cercate nella vocazione umanitaria e pacifista del
movimento operaio che a cavallo tra il XIX e il XX secolo percepì
giustamente come a far le spese delle guerre per la spartizione dei
mercati e per l'egemonia internazionale, fosse in primissimo luogo il
proletariato agricolo e urbano, chiamato a dissanguarsi per cause
lontanissime dai suoi interessi. Il comandamento marxista «Proletari di
tutto il mondo unitevi» suonava, del resto, anche come una risposta
preveggente ai coinvolgimenti «patriottici».
Così, quando, nel 1914, quasi tutti i partiti socialisti europei vi
contravvennero votando i crediti di guerra chiesti dai rispettivi
governi, l'un contro l'altro armati (solo gli italiani si astennero,
sotto lo slogan «né aderire, né sabotare»), la crisi della Seconda
Internazionale sembrò irreversibile.
Quella esperienza tragica segnò profondamente le sinistre fino allo
scoppio della seconda guerra mondiale, ma, mentre i comunisti
monitoravano di volta in volta il loro pacifismo o il loro interventismo,
alla luce della difesa della «Patria del Socialismo», i socialdemocratici
erano talmente timorosi di ricadere, come nel ‘14, nella «union sacrée»
da non far loro percepire il pericolo hitleriano. E' altamente istruttiva
in proposito la lettura della documentazione raccolta da Leonardo Rapone
nel suo libro «La socialdemocrazia europea tra le due guerre» (Carocci,
1999, ed.) dove si ritrovano, quasi alla lettera, gli «originali» delle
attuali prese di posizione. In questa sede posso dare solo qualche caso.
Per esempio quando nel 1934 Hitler cominciò a riarmarsi e il governo
inglese avanzò ai Comuni la richiesta di fondi per il potenziamento
dell'aviazione, i laburisti all'opposizione risposero con una mozione di
censura, riponendo la loro fiducia «nel sistema di sicurezza collettiva
sotto l'egida della Società delle Nazioni... considerando una politica di
riarmo non idonea ad accrescere la sicurezza del Paese ma destinata a
mettere a repentaglio le prospettive del disarmo internazionale». Questa
posizione rimase invariata anche quando la ricostruzione della potenza
militare tedesca divenne plateale: per tre anni i laburisti votarono
contro il riarmo e solo nel '37 passarono all'astensione.
«Le motivazioni laburiste - commenta Rapone - vanno ravvisate nella
difficoltà di adattarsi alla prospettiva di un conflitto che avesse il
carattere non di una operazione di polizia internazionale, relativamente
indolore, ma di un sanguinoso conflitto tra Stati potentemente armati ed
anche nella riluttanza a compiere atti politici che potessero dare
l'impressione di un idem sentire tra laburisti e conservatori». Il loro
leader, Clement Attlee esclama ai Comuni: «Non pensiamo che si possa
scacciare Satana con Belzebù!». Non dissimile la linea dei socialisti
francesi. Il loro capo, Leon Blum, mentre il pericolo nazista si fa
sempre più attuale e Hitler reintroduce la coscrizione obbligatoria
stracciando il trattato di Versailles, vota contro il prolungamento della
ferma militare e critica i progetti di modernizzazione dell'esercito
francese, presentati da un certo colonnello de Gaulle. E dichiara:
«Hitler e il regime hitleriano ci fanno orrore ma la guerra ci fa ancor
più orrore». Non prevedeva certo che, qualche anno dopo, sarebbe stato
deportato a Buchenwald. (REPUBBLICA 15/10/01)
La marcia dei duecentomila
PerugiaAssisi, dieci chilometri in fila per la pace
DAL NOSTRO INVIATO UMBERTO ROSSO
ASSISI - San Francesco ha fatto «un altro miracolo», se la ridono i frati
del convento mentre sulla Rocca ormai il sole sta scendendo. Che
giornata. Chi temeva una Genova bis è stato smentito. Un fiume
incontenibile, pacifico, allegro e colorato, erano in duecentomila, mai
vista tanta gente in 40 anni di marcia. Alle quattro del pomeriggio,
quando gli scout alla testa del corteo raggiungono Assisi, la coda è
dieci chilometri più giù, ancora a Collestrada. Niente incidenti, i
politici e i noglobal non si sono fisicamente intercettati. La grande
tensione della vigilia, a conti fatti, si è dissolta in qualche bordata
di fischi degli ultra pacifisti a D'Alema, che imperturbabile alla guida
dello stato maggiore ds si è fatto buona parte della marcia, raccogliendo
anche tanti applausi. Qualche piccola contestazione anche per Rutelli e
gli uomini della Margherita, che come previsto non sfilano sotto le
insegne del proprio partito ma «sciolti» nel movimento.
I «ceffoni umanitari» promessi dal Social Forum son rimasti del tutto
metaforici, «ma solo perché quelli dell'Ulivo sono stati bene attenti a
non venirci a tiro», insiste il napoletano Francesco Caruso. Nessuna
traccia neanche dei promessi «gavettoni» con «acqua benedetta» da don
Vitaliano, il prete avellinese dei contestatori, peraltro assente (per il
no del suo vescovo), così come don Gallo, l'altro prete noglobal.
Ma di polemiche dentro e fuori l'Ulivo, di spaccature sopra e sotto i
noglobal, in realtà ai duecentomila di Assisi non importava granché.
Cattolici, comunisti, pensionati, studenti, contadini, donne, islamici,
bambini e ambientalisti ieri sono arrivati qui a Perugia da ogni parte
d'Italia in nome di sé stessi e di un mondo di pace. Una festa di popolo.
Alle otto del mattino al Frontone, nel centro storico di Perugia, c'è già
il tutto esaurito. Dall'alba il popolo della pace è in piedi. Colonne di
autobus sono in coda, bloccati alle porte della città. La presenza della
polizia è discretissima. Cibo, acqua e lavoro per tutti, recita lo
striscione della Tavola della pace. Più in là, altri giovani sventolano
il vessillo dell'Ulivo, ma è solo una presenza simbolica. Perché i
politici non prendono la testa della manifestazione. Rutelli, in polo e
jeans, con Castagnetti, Franceschini, la Bindi, Bordon con la figlioletta
sulle spalle arriva un po' più tardi, si piazza fra le migliaia di scout
presenti. Bertinotti, con i parlamentari del Prc, è a metà corteo.
Agnoletto e Casarini verso il fondo, dietro lo striscione Noglobal. Il
movimento di Genova però si è diviso, i Cobas per esempio rifiutano di
sfilare, aspettano la marcia a Santa Maria degli Angeli. Alle nove e un
quarto la più grande manifestazione pacifista degli ultimi anni muove i
primi passi.
Partono i primi fischi del Prc per Rutelli. «Mi contestano? Del tutto
legittimo, c'è libertà di opinione. Ma il coraggio vero è quello di
schierarsi contro il terrorismo». Il leader dell'Ulivo poi va incontro a
Walter Veltroni, sindaco ed ex sindaco di Roma fanno sotto braccio un
pezzo di strada. Commentano, comunque con soddisfazione, la scelta di
stare in piazza, a costo di una polemica durissima con altri pezzi
dell'Ulivo. Assenti invece il democratico Parisi e il socialista Boselli.
Di tutto questo si discuterà probabilmente in una riunione del
coordinamento, forse già martedì.
Si vede anche qualche bandiera americana. Una la porta il presidente
dell'Arci. Una sventola da una finestra. Un'altra, cucita alla bandiera
islamica e a quella europea, la portano i verdi Francescato e Pecoraro
Scanio, che rivendicano il dissenso rispetto alla mozione parlamentare
dell'Ulivo. Lo fa anche il segretario dei comunisti, «così si è
facilitato il dialogo con tutti», spiega Oliviero Diliberto.
Alle dieci, il primo passaggio delicato. A Ponte San Giovanni si è dato
appuntamento un pezzo di Social forum, che si immette nel corteo. Ma non
rintracciano il leader dell'Ulivo, il bersaglio resta il solo D'Alema che
continua a sfilare. E' il momento dei fischi, ma dura poco. Poi, arriva
l'altro momento a rischio. I Cobas, che hanno deciso di non mescolarsi al
corteo, sono radunati a Santa Maria degli Angeli. I blindati della
polizia presidiano, ma a debita distanza. Tutto fila liscio, perché non
ci sono gli uomini politici che gli antiglobalizzatori aspettavano.
Vittorio Agnoletto, dall'altoparlante montato sull'utilitaria, avvisa i
parlamentari del centrosinistra: «Stasera, quando tornate a casa
riflettete. E poi tornate alla Camera per revocare il sì alla guerra». I
radicali sono al cimitero di guerra britannico, li vicino, per
distinguersi dai pacifisti in marcia, si schierano con Blair. Le ultime
salite, Assisi è in vista. Flavio Lotti, il leader della Tavola della
pace, può chiudere con un sospiro di sollievo e un gigantesco grazie, «a
tutto il popolo della pace della marcia, poliziotti compresi».
(REPUBBLICA 15/10/01)
"Coraggio, il meglio è passato"
le tante facce del popolo pacifista
Applausi, fischi, slogan, canzoni, i maccheroni preparati dai
volontari della protezione civile
DAL NOSTRO INVIATO CONCITA DE GREGORIO
PERUGIA - Se davvero un altro mondo è possibile, come qui dicono tutti,
non sarebbe male che somigliasse a questo. Questo mondo grande quanto una
città in marcia, duecentomila, forse di più, in discesa tra i colli di un
quadro del Perugino, il sole, gli applausi, i fischi, i vecchi con la
maglia del Che e i giovani con quella di gatto Silvestro, le donne
incinta e i ragazzi in carrozzella, le borracce che passano di mano, le
suore, le "canne", le canzoni di Battisti e Bella Ciao, «Cristo
cammina con te» e avanti a chi manca, c'è posto per tutti.
Posto per i nuovi entusiasmi e vecchi rancori, la marcia solitaria e in
un certo senso eroica di D'Alema basterebbe da sola a spiegare: «Sì,
Linda, sono più avanti, non ti puoi sbagliare: sono dove tutti gridano
buffone», risponde alla moglie al telefonino, e infatti Linda arriva con
i figli. Il piccolo, Francesco, è vestito da boy scout. C'è posto per
D'Alema in maniche di camicia che resta a prendersi gli insulti («Ti do
tempo fino a martedì per cambiare idea», gli grida uno. «Bravo, così sì
fa. Fino a martedì», risponde lui), per Rutelli che alla prima curva si
allontana. Per Bertinotti che si fa tutto il corteo in trionfo al braccio
della moglie e per Veltroni avvistato in uscita all'altezza di un caffè.
Per i pacifisti pugliesi che ballano la pizzicata, quelli di Acerra che
portano lo slogan più bello, «Appaciammece», e per il vecchio del paese
che gli cammina dietro, Augusto Cenci, 92 anni, si aggiusta l'apparecchio
acustico all'orecchio e borbotta «pace, pace. Ma qualcuno lo dice che
quelli che ammazzano devono essere ammazzati?». No, effettivamente.
Proprio così non lo dice nessuno ma qualcuno articola il concetto.
Castagnetti Franceschini e Rosi Bindi, per esempio, i popolari della
Margherita che quando è proprio necessario «si deve anche imbracciare il
fucile. Anche i partigiani bianchi erano armati», per dire. Staino il
vignettista con una mazzetta di giornali così sotto il braccio,
«dolorosamente per la guerra». Fassino che ha votato sì alla Camera, e
qui si prende un palloncino pieno d'acqua in faccia, unico corpo
contundente visto volare fra i duecentomila.
Però la maggioranza no, a essere onesti. La maggioranza mangia pane e
pseudonutella fornita dal commercio equo e solidale, sfila sotto la fonte
«dove nel 1282 si fermò a dissetarsi San Francesco d'Assisi», porta
adesivi che dicono «no global war» e grida cose come: «Vogliamo uno
scambio a pari condizioni/dateci Bin Laden e vi diamo Berlusconi». Donne
sandwich portano cartelli con frasi di Anna Maria Ortese, francamente mai
viste in corteo: «La ragione dovrebbe illuminare continuamente tutto...».
I giovani imprenditori agricoli di Reggio Calabria socializzano con un
giovane in maglia rossa, «Io NON HO votato Berlusconi».
I curdi vendono le bandierine con la faccia di Ocalan, gli scout che li
superano non hanno la minima idea di che si tratti: «Fichissimo, hai
visto? Ce la compriamo una bandiera con Saddam?». Sotto il ponte San
Giovanni una suora dirige il coro dell'istituto Sacro cuore di Bitonto.
«Cristo cammina con te, canta e cammina con la pace nel cuore», cantano
una ventina di bambini di otto anni. Diliberto il comunista passa e un
po' si commuove, toglie gli occhiali, li guarda meglio, anche Marisa
Laurito in total orange accanto a lui, arancioni anche le scarpe da
ginnastica, all'idea che Cristo le cammini vicino si concentra sul coro,
«carini i piccoli». Cofferati sfila con la faccia di Cofferati,
imperturbabile, Agnoletto con il telefonino incorporato all'orecchio.
Luca Casarini, che ieri sera era in un "tete a tete" privato in
pizzeria, anche i più duri dei no global hanno un cuore, adesso è qui a
dire che «gli schiaffoni da dare al centrosinistra che ha votato la
guerra sono solo metaforici, abbiamo due manone di gommapiuma, eccole».
Almeno 15 mila del Genoa Social Forum, calcola, e almeno un genovese
riconoscibile: il padre di Carlo Giuliani, morto a Genova, qui a parlare
di pace in nome del figlio.
Visto dall'alto, dall'elicottero, il corteo è un fiume di colori che non
è ancora uscito da Perugia quando ha già raggiunto Assisi. Ventidue
chilometri. Per avere un'idea: a fermarsi in un punto e vederli sfilare
tutti ci vogliono due ore e quarantacinque minuti. Tre ore meno un quarto
di serpente ininterrotto, Emergency di Gino Strada, le ragazze
palestinesi con il velo bianco, gli studenti con le filastrocche «sopra
la bonba la gente campa/sotto la bomba la gente crepa», i ragazzini del
liceo che quando sono stanchi e non gli viene in mente più niente cantano
«Dolce Remì», cartone animato anni Novanta, l'altro ieri, quando erano
bambini. Di bambini veri moltissimi. Su un carretto di mamme organizzate
che ne sono nove, «attento Matteo che caschi». Padri cinquantenni in
monopattino, di quelli che hanno fatto i figli a quaranta perché prima il
pubblico poi il privato. Majorettes, sindaci, un tipo che porta un quadro
a olio di Gesù Cristo, un vecchio in bianco con barba apocalittica e un
cartello che dice «Usa e Israele i veri terroristi». D'Alema: «Lo vede
quello, Nosferatu? Ecco, quello mi segue dall'inizio». Un paio di
bandiere Usa, le portano i verdi insieme a quelle dell'Islam.
Gianni Minà insieme a Frey Betto, teorico della teologia della
liberazione. All'arrivo a Santa Maria degli Angeli, sotto Assisi, sono il
doppio di quanti erano alla partenza. Moltissimi sono entrati in corteo
lungo il percorso. Stremati, mangiano i maccheroni preparati dai
volontari della protezione civile, cinquemila compresa l'ombra del
tendone. Bevono similcoca Freeway, coca no logo. Gli scout continuano a
cantare «ari ari ari e», hanno obiettivamente una resistenza
soprannaturale. Tutti si sono già persi troppe volte per continuare a
cercarsi, e poi i telefonini non prendono la linea: «Rete occupata». Ogni
tanto una madre da casa rompe il muro dell'etere, «pronto, stai bene?
Nessun incidente? Meno male. Sai che ci sono anche i tuoi fratelli. Ma
sì, siete tutti e quattro lì», roba che neanche dai nonni al pranzo di
Natale. I politici sono spariti, all'arrivo. Tutti compreso il sindaco
del Polo di Assisi, che non ha ritenuto di accogliere questo popolo in
marcia. Peccato, il Santo avrebbe avuto da ridire. E poi, comunque, era
uno spettacolo. Vederli arrivare sulla piazza davanti alla Basilica,
sorridersi senza neanche più riconoscersi e buttarsi a terra sotto
l'ultimo cartello: «Coraggio, il meglio è passato». (REPUBBLICA
15/10/01)
Giuliani: i giovani
oggi sono qui
il personaggio
PERUGIA - Alla Marcia per la pace c'era Giuliano Giuliani, padre di
Carlo, il ragazzo ucciso a Genova durante il G8. Ai giornalisti che lo
hanno riconosciuto, Giuliani ha spiegato di non essere contrario
all'azione angloamericana contro l'Afghanistan, a condizione di essere
«attenti e critici»: reagire al terrorismo è giusto, ha detto,
sottolineando la necessità di non travolgere le popolazioni civili.
Giuliani sottolinea l'importanza della presenza di tanti giovani: «Si
pensava che questa fosse una generazione che ignora la politica e
l'impegno civile, invece oggi sono qui». (REPUBBLICA 15/10/01)
D'Alema tra fischi e applausi
"Ma è anche la nostra marcia"
DAL NOSTRO INVIATO ANTONELLO CAPORALE
PERUGIA - Dieci volte gli hanno gridato «pagliaccio», solo otto
«buffone». Poi «vergognati» (quindici volte includendo la più generica e
allarmata «vergogna !»), tre «vaffanculo», due «sparisci», e un solo, ma
disorientante, «hai fatto campagna elettorale per Berlusconi». La durata
e l'intensità dei fischi per Massimo D'Alema, non essendo aritmeticamente
sommabile, è invece da valutare liberamente. La via crucis è iniziata
prima dei tempi regolamentari, cioè alla fine della partita PerugiaRoma
di sabato sera, con fischi rigorosamente perugini e pallonari, ed è
proseguita oltre il limite previsto: davanti al cancello dei frati
francescani di Assisi alle tre del pomeriggio di domenica. «Siete fuori
tempo massimo, ragazzi» ha annotato con scrupoloso puntiglio il
presidente dei diessini.
Ciò che doveva prendere ieri D'Alema l'ha preso. Che non fossero fiori si
sapeva. Ceffoni no, ma insulti, spintoni, urla sì. Lui è riuscito a farsi
pungere dalle spine dei contestatori - giovani di Pax Christi, noglobal,
rifondatori - senza mai sanguinare: «Provino soltanto a cacciarci, voglio
vederlo. Noi abbiamo il diritto di marciare, questa è anche la nostra
marcia». Una mattinata fradicia di cattive parole, una sfida accettata e
imposta al gruppo dirigente del partito. «Non accadeva da anni
partecipare a un corteo così ostile, diciamo che non accadeva dal ‘77».
Altri tempi, lì si faceva a botte: «Beh, lì era molto più impegnativo».
E' l'una e D'Alema, soddisfatto, si dirige all'auto di servizio con
moglie e figli. L'unica cosa chiara dopo questa marcia, ammesso che non
lo sia già per i più, è che il congresso finisce ancor prima di iniziare.
L'unico capo che i Ds hanno si chiama D'Alema. Walter Veltroni non c'è,
la sua fascia tricolore è stata inghiottita dai gonfaloni. Cofferati sta
con la sua Cgil. E l'Ulivo era sparito già da un bel po': Rutelli è
andato via al primo curvone, il mite Castagnetti qualche passo dopo. A
chi dunque ieri la gente guardava? Chi insultava o anche
applaudiva?
A lui, Massimo. Al centro di una squadra corta, silente e po' stralunata.
Piero Fassino è sembrato che non ci fosse: trasparente. Giovanni
Berlinguer (i due candidati si sono fatti fotografare abbracciati) ha
potuto fare poco di più per spiegare che la sua testa non è in quota alla
maggioranza: «Dopo i missili sui civili afgani la nostra linea deve
cambiare. Io ho un rimorso, dobbiamo fare autocritica». Macchè. D'Alema
spiega che «noi siamo qui con le nostre idee. Ancora non ho udito uno
slogan contro i terroristi. E vedo che chi ci insulta ha le facce dei
militanti di Rifondazione, non dei noglobal. Forse questa è la rivincita
di Bertinotti». Lui solo parla: «Ci gridano "andatevene", ma se
andiamo via noi quanti ne restano qua?». Livia Turco non riesce a
rispettare l'impegno a restare muti davanti agli insulti e al militante
che urla «vergogna» grida: «Vergognati tu». E Gavino Angius, al comunista
che gli ricorda il dettato costituzionale («leggitela buffone») replica
incredulo: «La Costituzione a noi ?».
Ecco un viadotto e un grumo di contestatori che aspettano lassù. Cosa
faranno? «Un gavettone» mormora una voce anonima nel corteo dei
pentecostali. Fassino mira di sopra e prega. Gli porgono un bimbetto,
«prendilo in braccio per la foto». Si passa incolumi, all'orizzonte c'è
un secondo viadotto. Il corteo tende ad arrestarsi, il servizio d'ordine
chiude i diessini in un abbraccio nervoso e un po' contundente.
«Vergognatiiiiiii !», urla una barba da Karl Marx. Un pacifista impugna
il fischietto e fa male alle orecchie. E Rutelli, onorevole D'Alema?
Rutelli dov'è? «Mica si gioca una partita tra me e lui ?». Gli insulti
rallentano il passo, e molte volte lo fermano. E' una camminata asmatica,
afflitta dal dolore e dalla pena delle ingiurie. Il corteo si blocca, di
nuovo spintoni: ora è Armando Cossutta che tenta di avvicinarsi e unirsi
ai diessini. Va male anche per lui. D'Alema non lo vede, o fa finta di
non vederlo, e il cordone non si apre al compagno Armando. C'è Linda, la
moglie di Massimo, che chiama al telefono: «Dove sei ?» «Dove senti
gridare buffone, lì sono io», gli risponde. Non crede sia pericoloso fare
tutta questa strada? «Se lo credessi non avrei portato la famiglia, i
ragazzi». Eccoli, Giulia e Francesco. Sono vicini a papà e l'ora non è
proprio felice. Giulia, appena adolescente, ha la forza di assistere
serena a uno spettacolo mai visto prima. Il fratellino soffre di più,
forse ha paura, com'è giusto che sia. Ma la prova che papà ha imposto al
partito e chiesto persino ai suoi cari finalmente termina. Gli applausi
si fanno più intensi, il budello si trasforma in una strada piana e
larga. Ecco l'auto: si va ad Assisi, i frati francescani lo attendono per
pranzo. (REPUBBLICA 15/10/01)
Gli obiettivi incerti del pacifismo
MA I BELLICISTI DOVE
SONO?
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Con la presenza di migliaia di persone
alla marcia di ieri da Perugia ad Assisi abbiamo dunque avuto la
dimostrazione che il pacifismo e i pacifisti esistono. A questo punto è
inevitabile porci la domanda: e dov’è il bellicismo? Chi sono i
guerrafondai? Si tratta, come si capisce, di una domanda decisiva per
dare un senso politico alla marcia e ai marciatori, nonché al pacifismo
nel suo complesso. Solo se ci si oppone a qualcuno o a qualcosa, infatti,
se si è in grado di individuare un avversario, si è sul terreno della
politica, si fa azione politica. Altrimenti no. Altrimenti si fanno cose
utili e nobilissime, magari, ma che con la politica non hanno molto a che
fare. La cosa singolare è che neppure gli organizzatori della marcia
hanno voluto fornire la minima indicazione su chi, secondo loro,
rappresenti oggi il partito della guerra, chi sia il nemico della pace.
Naturalmente sappiamo benissimo il motivo di tale silenzio. Se avessero
deciso di parlare sarebbe emersa la spaccatura insanabile tra chi approva
in sostanza l’attuale azione americana contro l’Afghanistan e chi,
invece, la contesta nel modo più radicale. Ma così è accaduto che da una
pace senza nemici nominabili si è passati ad una genericità ancora
maggiore: «Cibo, acqua, lavoro per tutti» è stato lo slogan ufficialmente
adottato dalla marcia, dove per «tutti» si intendevano naturalmente tutti
gli abitanti del pianeta.
Ma come riuscire in un’impresa così ambiziosa? Con quali risorse?
Ottenute come? Con quali attori, con quali politiche? Anche qui silenzio
assoluto e nel silenzio il pacifismo italiano trapassa così dalla
politicità antioccidentale, sia pur loscamente dissimulata che lo ha
caratterizzato fino ad ieri, al puro e semplice buonismo. Diviene anzi il
vertice di quel buonismo in cui negli ultimi anni il popolo di sinistra
(in cui è entrato a far parte anche un settore del mondo cattolico) è
venuto identificando sempre di più il suo volto pubblico, quello che si
mostra nelle manifestazioni, negli appelli, negli slogan giovanili.
Buonismo che consiste precisamente nell’additare principi superiori,
obiettivi etici da cui nessuna persona per bene oserebbe dissociarsi, ma
dimenticandosi regolarmente di indicare i mezzi concreti per realizzarli.
Dando così ad intendere che in fondo i mezzi basta volerli per trovarli.
Questo buonismo politicamente sprovveduto e politicamente diseducatore -
che è uno dei tanti aspetti dell’avanzata dell’antipolitica nella società
italiana post-tangentopoli, e dunque è in certo senso fenomeno recente -
affonda tuttavia le proprie radici in un sentimento antico, costitutivo
fin dall’origine della mentalità di sinistra, del suo Dna: il bisogno di
sentirsi dalla parte del bene e la convinzione di esserlo per
definizione. Fino a che c’era il comunismo, questo bisogno era in gran
parte bilanciato dal miraggio della rivoluzione e dalle sue inevitabili
esigenze. Ma dopo l’89, svanito il comunismo, il buonismo ha avuto libero
corso. La sinistra italiana attuale vuole sentirsi innanzitutto buona. E
proprio per ciò si è abituata istintivamente a disprezzare ogni approccio
realistico, e con questo alla fine anche la realtà: perché essa scorge
giustamente nella realtà il massimo pericolo per le proprie illusioni
sentimentali. Così come scorge nella piazza il luogo per antonomasia dove
il bene si manifesta, dove si celebrano le nozze storiche non più, forse,
tra le «masse» e la «rivoluzione», ma se non altro tra la «gente» e i
«buoni sentimenti». Da qui dunque la sua difficoltà a stare lontano dalla
piazza, la sua pena quasi fisica, si direbbe, a rinunciare ad un corteo:
Dio non voglia poi ad esserne l’obiettivo polemico. Equivarrebbe a
rinunciare pubblicamente al bene, ad accettare l’idea che Babbo Natale
non esiste e che, ahimè, gli anni passano e bisogna diventare grandi.
(CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)
I pacifisti sfilano da Perugia ad Assisi. L’imam di Torino: giusto
combattere la guerra santa
Duecentomila contro la
guerra
Fischi dei «no global» ai leader
dell’Ulivo. D’Alema: neanche uno slogan antiterrorismo
Marcia della pace: duecentomila persone,
e forse più, hanno sfilato ieri da Perugia ad Assisi, con canti e slogan
per dire «no» alla guerra. Tra le file del centrosinistra hanno sfilato
Rutelli, Castagnetti, Veltroni, D’Alema. Dai «no global» sono partiti
fischi contro i leader dell’Ulivo, alcuni dei quali hanno lasciato il
corteo a metà percorso. Massimo D’Alema ha risposto a chi lo fischiava:
«Mi stupisce che non si levi un solo grido contro il terrorismo che ha
provocato 7 mila morti». E ha sottolineato: «Se siamo in tanti è anche
perché ci sono i Ds». A Torino, l’imam Bouriki Bouchta, 36 anni, al
centro di polemiche per aver consentito, nella preghiera del venerdì, la
lettura di una lettera anti-Usa e slogan pro Bin Laden, giustifica la
guerra santa come «lotta di autodifesa dell’Afghanistan. Qualcuno sarebbe
pronto a partire, anche da Torino, per affiancare il popolo afghano».
(CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)
Assisi, duecentomila in
marcia per la pace
Un fiume di gente da Perugia con canti
e slogan. Nessun incidente. Politici e no global in disparte
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
ASSISI - Un corteo lungo venti chilometri per coprire un percorso che ne
conta venticinque. Duecentomila persone, dicono le stime ufficiali, ma
come si fa a contare un fiume di uomini, donne, ragazzi, bambini anche,
che invade Perugia e Ponte San Giovanni, Bastia Umbra e Santa Maria degli
Angeli, che si arrampica su per la rocca di Assisi quando quelli che
stanno in coda si sono appena mossi dai Giardini del Frontone? E’ un
fiume allegro e colorato ma con una richiesta terribilmente seria: pace.
Pace per i disperati in fuga dall’Afghanistan e per i palestinesi, per i
curdi e per i popoli delle guerre dimenticate. Ma pace anche per
l’America colpita e ancora minacciata da Osama Bin Laden e pace per
chiunque possa incrociare il proprio destino col terrorismo islamico o di
qualunque altra specie.
ADDIO POLEMICHE - Sono quarant’anni che da Perugia ad Assisi si ripete la
marcia per la pace, ma stavolta è diverso. Stavolta c’è stato l’11
settembre, le Twin Towers non esistono più e Kabul è sotto le bombe. C’è
una guerra, e allora quest’appuntamento diventa la prima e forse
irripetibile manifestazione pacifista svolta in Italia. E quel fiume
allegro e colorato che conterrà probabilmente più di duecentomila
persone, forse anche 250 mila, inghiotte le polemiche della vigilia, le
dimentica perché i protagonisti oggi non sono i politici e non sono i no
global. Ci sono sia gli uni che gli altri, ma questa è la manifestazione
delle mille anime che le danno vita. Gli organizzatori contano l’adesione
di seicentocinquanta sigle, dai boy scout a Emergency a Legambiente,
tanto per citare qualcuno, visto che tutti sarebbe impossibile. Ma in
questo che più che un corteo è una specie di catena umana che unisce
Perugia e Assisi, ci sono migliaia e migliaia di persone che non hanno
una targa, non hanno una etichetta, spesso non hanno nemmeno uno
striscione o un manifesto e neppure l’adesivo giallo e nero con la
scritta «No global war» attaccato sul petto. Però stanno qui, e ci stanno
dall’inizio alla fine.
Escono invece di scena dopo i primi chilometri i politici. Da Rutelli,
bersagliato da una sfilza di baci da un gruppo di donne che lo incontrano
alla partenza, a D’Alema, bersagliato invece da qualche coro ostile, a
Fassino, Veltroni, Cossutta. Solo Bertinotti arriva fino in fondo. E
escono di scena presto i no global, presenti solo con una delegazione e
solo per un’ora o due. Poi preferiscono mettere in piedi una «piazza
tematica» a Santa Maria degli Angeli e starsene per conto loro. Non si
incrociano nemmeno, politici e contestatori. E non c’è quindi l’occasione
- se mai ci fosse stata la volontà - per creare tensioni.
Gli unici problemi li creano i telefonini: evidentemente ce ne sono
troppi per i ripetitori di questa zona, e allora è quasi blackout totale.
Ognuno prova a contattare qualcuno, e ognuno impreca nel proprio dialetto
di fronte al cellulare che resta muto. E ci sono proprio tutti, i
dialetti e gli accenti d’Italia. Da nord a sud sono arrivati a Perugia
con migliaia di pullman, che alla fine della manifestazione sarà
un’impresa recuperare nei tanti parcheggi organizzati tra Santa Maria
degli Angeli e Bastia. Ed è buio, quando i gruppi cominciano a
sciogliersi, gli striscioni vengono riavvolti e molti se ne vanno in giro
senza scarpe perché venticinque chilometri non sono uno scherzo anche se
percorsi in nome della pace nel mondo. Era buio anche quando sono
cominciati ad arrivare i primi gruppi più o meno organizzati. Tanti
zainetti e tantissimo entusiasmo.
FANTASIA - I più inquadrati sono gli scout, ma quelli con più fantasia
sono forse i maestri elementari di Bastia Umbra, che nei giorni scorsi
hanno chiesto ai loro alunni di scrivere un pensiero o fare un disegno
sulla guerra e sulla pace. Poi hanno incollato tutti i lavori su un’unica
striscia di carta che alla fine è venuta lunga tre chilometri. E riescono
a portarla quasi intatta fino a Santa Maria degli Angeli. I più vivaci
sono una cinquantina di napoletani tutti sui vent’anni. Fanno canzoni
blues in dialetto e sono molto affiatati e molto applauditi. Il più
soddisfatto è Flavio Lotti, uno degli organizzatori, che lancia frecciate
al sindaco di Assisi perché «in quarant’anni è stato il primo sindaco a
non partecipare a quest’appuntamento ed è riuscito a non venire a
salutare nemmeno il patriarca di Gerusalemme (monsignor Michel Sabbah,
presente anche lui alla marcia, ndr)». I più inossidabili sono i ragazzi
del social forum di Terni, che mettono su una bancarella per vendere
magliette con le immagini e le frasi celebri dei leader rivoluzionari
della storia, e soprattutto lo sono i loro clienti. Che in pochi minuti
esauriscono le t-shirt con la foto più famosa di Che Guevara.
(CORRIERE DELLA SERA 15/10/01)
Assisi, in 200 mila per la pace
Lunedì 15 Ottobre 2001
Marcia-record dopo le divisioni dei giorni scorsi
Giacomo Galeazzi
inviato ad ASSISI Perugia-Assisi, in 200 mila per invocare la pace.
Marcia record ieri in Umbria e a causa dell’inatteso numero di
partecipanti, per la prima volta, è stata chiusa al traffico la statale.
Manifestazione pienamente riuscita, quindi, dopo i gravi timori provocati
dalla minacciata contestazione violenta. I politici sono stati invitati
dai pacifisti a rimanere dietro, ma non hanno subito alcuna aggressione,
soltanto qualche fischio. «E’ assurdo demonizzare le tute bianche -
protesta don Angelo, tonitruante e corpulento sacerdote romagnolo,
attorniato da giovani parrocchiani con la chitarra e la bandana - mentre
i capi dei gruppi ecclesiali si sono affannati a prendere le distanze dal
popolo di Seattle, la base cattolica ha abbattuto da sè gli steccati e
ora parla un’unica lingua, quella della lotta alle ingiustizie
planetarie». A dare l’avvio alla manifestazione è stato alle 9 il
toccante appello di una donna afghana che dal palco ha detto: «Basta con
la guerra, non vogliamo vedere ancora i nostri figli uccisi». Nelle
passate edizioni, mai si era vista una così larga partecipazione
popolare. I gonfaloni dei comuni e le grandi bandiere hanno trasformato i
24 chilometri di strada in un fiume multicolore. Decine gli slogan in
favore delle Nazione Unite, le bandiere di Rifondazione Comunista, quelle
Usa-Islam issate assieme dai Verdi, oltre ai numerosi cartelli che
invitano a diffidare sia di Bush sia di Bin Laden. Sotto la coltre di
apparente unanimismo, però, il corteo riserva sorprese nell’effettiva
articolazione delle posizioni. «Non sono affatto convinta che si possa
far giustizia senza ricorrere alle armi - ammette Carlotta, 20 anni,
diessina toscana - partecipo alla Marcia pur essendo diffidente nei
confronti del pacifismo a senso unico. Se ci rifugiamo nell’empireo dei
sognatori diventiamo complici dei terroristi. E’ ovvio che preferirei non
dover sparare un colpo per prendere Bin Laden, ma sto attenta a non
cadere nell’utopia». Sono tanti e silenziosi i giovani che marciano
convinti dell’opportunità di un’operazione militare mirata ad individuare
i responsabili delle stragi. Sanno che è impopolare e difficile
distinguersi, soprattutto quando il mosaico delle convinzioni è
tutt’altro che definito. Nella magmatica evoluzione del mondo pacifista,
infatti, si susseguono da settimane prese di distanza e spaccature nei
vertici che, evidentemente, hanno disorientato parte della base. «Nella
terra di San Francesco - osserva con soddisfazione il celebre domenicano
Frei Betto, presentato ieri mattina da Gianni Minà, direttore della
rivista Latinoamerica, a Valter Veltroni (tra i pochi politici
applauditi), Achille Occhetto e Giovanna Melandri che ha ricordato la sua
prima Perugia-Assisi, fatta da scout a 14 anni - si è raccolto un popolo
colorato e festante di 150 mila persone che non vedono nella guerra una
panacea. Il terzo millennio ha avuto inizio martedì 11 settembre con la
distruzione delle torri simbolo dell’impero yankee. L’atto terroristico è
esecrabile e ogni terrorismo beneficia solo l’estrema destra, però ognuno
nella vita raccoglie ciò che pianta. Se gli Stati Uniti sono oggi
attaccati in forma tanto violenta è perché umiliano popoli ed etnie».
Bush come Bin Laden, dunque? «Il nemico attuale degli Usa, ossia i
santuari del terrore - precisa Frei Betto, guida carismatica dei
cattolici brasiliani negli anni della dittatura brasiliana, oggi
responsabile della pastorale operaia nel centro metallurgico di São
Bernardo do Campo e direttore del mensile "Americana Libre" -
sono parimenti fuori da ogni etica, con l’unica differenza che essi non
dispongono come gli americani di forum internazionali per legittimare la
loro azione criminale. L’America Latina è la prova di come gli Usa
interferiscano direttamente nella sovranità di decine di Paesi, seminando
il terrore. Maurice Bishop, il rivoluzionario che ha lottato per la
liberazione dell’isola di Granada, è stato assassinato dai berretti verdi
nel 1983; il governo sandinista è stato rovesciato dalle stragi provocate
da Reagan; i cubani continuano a vivere sotto embargo dal 1961, senza
diritto a relazioni normali con gli altri paesi del mondo». I militari a
lungo al potere in Brasile, Argentina, Cile, Uruguay e Bolivia, denuncia
il più autorevole teologo della liberazione, hanno perpetrato terribili
stermini con il patrocinio della Cia. Violenza attira violenza, diceva
monsignor Helder Câmara. Visibilmente soddisfatto per la partecipazione
record alla Perugia-Assisi anche il comboniano padre Gino Barsella. «La
scelta pacifista - commenta il torrenziale direttore di
"Nigrizia" - non si esaurisce nel criticare gli Usa perché
tengono sottomesso l’Onu. Dopo Genova, in Italia sta maturando una seria
strategia politica che mette insieme cattolici e laici. In piena guerra,
poi, è fondamentale che tante persone di buona volontà abbiano dato il
loro contributo a un serio ripensamento sull’ordine mondiale. La
Perugia-Assisi ha confermato di non appartenere a nessuno: né
all’arcipelago pacifista, né alla Tavola della pace, né ai partiti o
leader politici, né ai movimenti antiglobal, né ai sindacati e alle
associazioni religiose». Il dato più significativo, secondo padre
Barsella, è proprio il fatto che non sia stata una passeggiata
autoreferenziale in cui ciascuno ha ribadito le sue posizioni ma un
crogiolo utile per negoziare porzioni della propria identità e delle
proprie convinzioni. E ciò è avvenuto attraverso l’ascolto delle le
ragioni dell’altro, cambiando la qualità della politica, oggi «appiattita
sui tatticismi e sugli imperativi economici». (LA STAMPA)
Rutelli «esce di scena» e beffa i contestatori
Lunedì 15 Ottobre 2001
FA DISCUTERE L’IMPROVVISA «SCOMPARSA» DEL CAPO DELL’ULIVO
Al quarto chilometro il leader dell’opposizione lascia il corteo Fino a
quel momento solo battute e urla isolate «vergogna!» Delusi i centri
sociali che aspettavano i politici di centrosinistra
inviato a ASSISI
LUNGO la strada che digrada dolcemente da Perugia verso Assisi, Francesco
Rutelli sta marciando con la proverbiale professionalità: rilascia
saluti, strette di mano, domande fuggevoli («Da dove vieni?»), ignorando
i fischi rarissimi e le urla belluine («Vergogna!») che qua e là sibilano
dal ciglio della strada. Da 50 minuti Rutelli è in marcia nella campagna
umbra e finora - con quei dissensi isolati - gli è andata più che bene.
Ma allo scoccar delle 10,03, dopo un bisbiglio tra gli uomini della
scorta, Rutelli cambia espressione. Si rivolge, sia pure scherzosamente,
ai giornalisti e dice: «Non vi sembra che possa bastare con le
telecamere? Seguite la marcia, non soltanto me, io sono uno dei
tanti...».
Difficile capire subito il motivo di tanto altruismo, ma cento metri più
avanti se ne capisce di più: i manifestanti che precedono Rutelli
proseguono lungo il percorso prefissato della marcia, mentre il capo
dell'opposizione vira a sinistra e si infila in una stradina laterale. E
qui - uscita non si sa da dove - si materializza l'autoblu. Rutelli vi
sale sopra, la portiera blindata si richiude e il capo dell'opposizione
se ne va. Sono le 10,11: la marcia della pace di Francesco Rutelli è
durata quattro chilometri e mezzo, percorsi in un'ora: il tempo di
esporre la propria faccia, incassare molti applausi, rarissimi dissensi
e, naturalmente, di esternare davanti ai microfoni le dichiarazioni per i
tg. Missione compiuta, missione riuscita, ma come mai così breve?
Per provare a capirlo, basta proseguire il corteo, proprio là dove lo ha
lasciato Rutelli: in via Pieve di Campo alla periferia di Ponte San
Giovanni. Esattamente duecento metri dopo il punto dell'addio rutelliano,
ecco schierati centinaia di ragazzi dei centri sociali: ne sanno qualcosa
Massimo D'Alema e Piero Fassino che, appena arrivano da quelle parti,
vengono investiti da una raffica di fischi e di parole aspre. Che quei
ragazzi fossero concentrati proprio lì, nel centro di Ponte San Giovanni
e non prima, lo sapevano tutti dalla sera prima: organizzatori, polizia e
politici. I diessini hanno consapevolmente sfidato il dissenso, mentre
Francesco Rutelli, evidentemente ha preferito preservare l'immagine del
capo dell'opposizione, non esporla ai lazzi dei contestatori.
E qualche ora più tardi, i servizi sui Tg "prandiali" di Rai e
Mediaset sembrano dargli ragione: si dà conto, sia pur di sfuggita, dei
dissensi che hanno investito D'Alema, senza stare a sottilizzare sul
fatto che la marcia del presidente ds è stata sensibilmente più lunga di
quella di altri. Interpellato più tardi sul perché i capi dell'Ulivo
abbiano marciato in ordine sparso, D'Alema risponderà con nonchalance:
«Rutelli non l'ho visto e io ero un disperso nella folla...».
Veterano della Perugia-Assisi, ieri mattina Francesco Rutelli si è
presentato alla partenza della marcia con un look casual ma non troppo -
Lacoste celeste, pantaloni aderenti color cachi e scarpe scamosciate da
passeggiata - un look diverso da quello alla "Sant'Egidio"
sfoggiato dal segretario popolare Pierluigi Castagnetti (t-shirt blu e
golfino grigio), da Rosi Bindi (zainetto nero e camicetta celeste), dal
popolare Beppe Fioroni (polo grigia), da Willer Bordon, accompagnato
dalla moglie Rosa e dalla figlia Valentina, di 5 anni.
Rutelli va a mettersi nella parte iniziale del corteo, ma non nella
"testa" dove ci sono gli scout, boccia la "linea"
Marini («Fatti circondare da mille ragazzi della Margherita») e inizia il
corteo senza la protezioni di "scudi umani", tanto è vero che
accanto a lui c'è persino meno scorta del solito: soltanto un carabiniere
in borghese. Accanto a Rutelli si alternano Walter Veltroni, Rosi Bindi,
Ermete Realacci, Pierluigi Castagnetti («Io sono qui per l'ennesima
volta...») e nei primi chilometri di marcia non ci sono contestatori
organizzati, prevalgono gli applausi e le richieste di autografo, tanto è
vero che Rutelli arriva a dire: «Un'accoglienza bellissima».
Naturalmente non mancano le battute brucianti. Come quella dello scout
Giorgio: «Voti la guerra e vieni alla marcia della pace: Rutelli sei un
fico!». Nelle dichiarazioni rilasciate lungo la strada che porta verso
Assisi, Rutelli tiene il punto («Oggi bisogna avere il coraggio di
schierarsi e combattere contro il terrorismo») ma cerca di restare il
coagulo di una coalizione laceratissima: «Rispettiamo chi chiede pace
assoluta», «dobbiamo costruire una pace che sia anche giustizia e sappia
risolvere i problemi più gravi del mondo: la fame, la miseria, le
malattie».
Dichiarazioni che tengono conto dei giorni difficili vissuti recentemente
da Rutelli: stretto tra D'Alema e i diessini che volevano venire a tutti
i costi ad Assisi e il vicepresidente della Margherita Arturo Parisi che
aveva proposto di disertare la marcia, alla fine Rutelli ha scelto di
esserci. Per restare il "baricentro" dell'Ulivo e «per non
regalare la Perugia-Assisi ai Ds», come riconoscono gli amici del leader.
E infatti ieri, Rutelli non ha lasciato il campo ai Ds, anche se ha
preferito deviare quando hanno cominciato a sibiliare i primi insulti. Il
più "gettonato" era: «Vergogna!». Un chilometro dietro Rutelli
ci sono i diessini, c'è Massimo D'Alema con la moglie Giuva, il figlio
Francesco e la figlia Giulia. E' proprio lei, con distillato di dalemismo
puro, a sibilare ironica: «Solo vergogna sanno dire?».
(LA STAMPA)
D’Alema «il gladiatore»: sulla guerra non cambio idea
In marcia fra contestazioni e applausi, protetto dal servizio d’ordine
«Ci gridano "a casa", ma se lo facessimo qui resterebbero in
pochi»
LA STAMPA Lunedì 15 Ottobre 2001
Maria Teresa Meli
inviata ad ASSISI «Come il "Gladiatore"»: Linda Giuva, moglie
di Massimo D’Alema, sorride e lancia uno sguardo affettuoso al marito.
Mentre i militanti ds battono le mani ritmicamente per coprire i fischi e
gli insulti all’ex premier, la consorte del presidente della Quercia
paragona questa scena a una famosa sequenza del film di Ridley Scott. Per
la verità c’è molto meno pathos, e il D’Alema in maniche di camicia
assomiglia assai poco al Russell Crowe che combatte nel Colosseo. Tra i
tanti motivi, anche perché, al contrario dell’attore australiano, è
protetto da un imponente servizio d’ordine. Che fa la sua apparizione
proprio quando arriva l’ex premier. Appena giunge D’Alema, infatti, la
delegazione della Quercia viene subissata di fischi, per oltre un’ora,
fino a quando il presidente del partito si infila in una via laterale e
sale in auto con famiglia al seguito.
Ma, a onor del vero, D’Alema i fischi se li prende anche prima, quando è
sprovvisto di super servizio d’ordine, e ha le guardie del corpo che lo
accompagnano normalmente. Colpa del ritardo con cui il presidente della
Quercia raggiunge gli altri del suo partito. Rimane solo, indietro, e un
gruppo di esponenti di Rifondazione e dei centri sociali lo contestano
duramente. «Facci vedere le scarpe!», gli urlano. Ma questa volta il
presidente della Quercia ce l’ha da ginnastica, e nemmeno griffate.
«Perché sei venuto con la scorta?», gli ringhia dietro un giovane.
D’Alema si volta e replica: «Tanto tu non riusciresti a farmi nulla
nemmeno da solo». Il preside di un liceo lo avvicina, e gli dice: «Non
fate come gli eroi greci che tornavano sconfitti e cadaveri dalla
guerra». D’Alema risponde così: «Se tu dai retta a Bertinotti, torni
sconfitto e neanche da eroe». In quel mentre l’ex premier incrocia
Vittorio Agnoletto. I due fanno finta di non conoscersi. Ora tocca alle
Iene. L’intervistatore incalza D’Alema, lui ridacchia e osserva: «Sei
bravissimo, dovresti fare il direttore di Parlamento in , altro
che Vigorelli».
Nel frattempo, nella delegazione diessina, c’è agitazione per l’assenza
di D’Alema. Qualcuno teme che possa capitargli un incidente. Giovanni
Lolli lo chiama: «Mandiamo dei compagni a prenderti», grida al cellulare.
«Ma dov’è D’Alema? Perché non viene con noi?», chiede Pietro Folena.
«Tranquilli, tranquilli - dice l’oggetto delle apprensioni ds, quando
giunge finalmente dai suoi - ho già camminato e ho già preso i miei
fischi». Prima del suo arrivo, infatti, i vari Piero Fassino, Giovanna
Melandri (che si eclissa dopo una ventina di minuti), Livia Turco, Marco
Fumagalli, Gavino Angius, Pietro Folena, Vincenzo Vita, non vengono
contestati. Tanto meno Giovanni Berlinguer che, a sorpresa, annuncia che
i ds, se gli Usa continuano a fare vittime civili, potrebbero ripensare
la loro posizione sull’intervento. Nemmeno Cesare Salvi viene investito
di improperi, anche perché non c’è, e analoga fortuna tocca in sorte a
Veltroni, perché sfila dietro il gonfalone del comune di Roma. Comunque i
diessini, senza D’Alema, marciano quasi indenni. Solo qualche sporadico
grido: "Criminali, criminali". Già, nel bene (gli applausi,
perché ci sono anche quelli, benché i fischi siano molti di più) e nel
male, il leader è D’Alema. E’ a lui che si indirizzano insulti e ironie.
Che il presidente della Quercia fa mostra di non temere. «E’ una
contestazione - spiega ai compagni di partito - organizzata da
Rifondazione. Ci sono alcuni che sono proprio dei professionisti. Ne ho
individuati tre che mi seguono sempre. Ma figuratevi, io ieri sono
passato sotto la curva del Perugia con la sciarpa della Roma: non ho
paura di quei tifosi, figuriamoci dei tifosi di Bertinotti». Maria Rita
Lorenzetti, presidente della regione umbra, che è accanto a D’Alema,
annuisce e dice: «Questa è robetta rispetto a quello che i nostri hanno
fatto a Bertinotti, qui alla marcia, nel ‘97».
Così D’Alema continua a passeggiare tra i fischi e gli improperi
ostentando tranquillità. «Non è facile - spiega - cacciarci dalla piazza.
Siamo un partito di 500 mila iscritti. Ci gridano "a casa, a
casa", ma se andassimo a casa noi, qui non rimarrebbero in
tantissimi. Metà è dei nostri. E i nostri si stanno incavolando, ma
dobbiamo tollerarci a vicenda». E se un giornalista gli fa presente che
anche la base ds è in sofferenza per la guerra, l’ex premier risponde
secco: «Si stanno svolgendo i congressi di sezione, che dimostrano che la
stragrande maggioranza del partito sta su queste posizioni». Ossia,
quelle sue e della mozione Fassino. Poi D’Alema critica i contestatori:
«Mi stupisce che non si sia levato un solo grido contro il terrorismo».
Il servizio d’ordine continua a scortare il presidente e gli altri ds. E
a fatica tiene a bada Berlinguer, che ogni tanto "scappa via" e
si ferma a parlare con i manifestanti. E con i giornalisti a cui dice:
«Se gli Usa dovessero continuare a colpire anche civili, i ds potrebbero
cambiare la loro posizione rispetto all’intervento». Ma qualche metro,
più in là, prima dell’ultimo fischio, e anche dell’ultima richiesta di
stretta di mano con fotografia annessa, D’Alema osserva, con l’aria di
chi non ammette repliche: «Non cambiamo idea sull’uso della forza». E non
sembra proprio che nemmeno l’ennesimo grido - "assassino,
assassino" - possa fargli mutar parere.
Tutti ad Assisiville, dove si canta e si fischia
Lunedì 15 Ottobre 2001
LE MILLE FACCE DELLA MANIFESTAZIONE DAI PUNKABESTIA A ROSI BINDI
Maria Laura Rodotà (LA STAMPA)
inviata ad ASSISI ANZIANO infuriato: «Assassini! Lo sapete che il 20 per
cento dell’umanità si mangia l’80 per cento delle risorse?». Giovane no
global romano in caduta di zuccheri: «E a noi lo vieni a dì?».
Signora umbra con messa in piega, ai dirigenti Ds che sfilano: «Vergogna!
Guerrafondai!». Marito umbro allineato: «Ma la vuoi smettere? Se non te
mena il servizio d’ordine te meno io».
Valentina di Bari alle amiche, alla vista di D’Alema: «Eccolo! E’
Massimo! Wow!». Punkabestia che si sposta col gruppo per urlare contro
D’Alema ma ha una crisi di milanesità classica: «Ma vai a lavorare!».
Chissà se la sinistra italiana muore o si rimodula (termine di Francesco
Caruso, il no global degli schiaffi che poi non ha dato) sullo stradone
di Ponte San Giovanni. Di certo è passata tutta lì tra le undici e
mezzogiorno di ieri, tutta contemporeamente, tutto e il contrario di
tutto, tutte le passioni e le scemenze e le serietà e i tic e gli
abbigliamenti-segnale. Il pacifismo da socialismo umanitario e la voglia
di gridare battute e litigare, la disciplina di partito e il gusto della
manifestazione incasinata, le magliette «Peace Now» in vendita accanto a
quelle «Continuons le combat». I ragazzi no global e i vecchi compagni,
non necessariamente sulle posizioni che uno si immagina. Molti vecchi
compagni fischiano dai marciapiedi. Molti dei tantissimi ragazzi
pacifisti di sinistra non sono del tutto contrari a questa guerra. Più
che rimodulata, la situazione sembra magmatica.
I ragazzi, alla marcia per la pace, sono maggioranza più che mai. Prova
deambulante dei freschi studi che indicano come nell’ultimo anno il 40
per cento chi ha tra 15 e 24 anni ha partecipato a «iniziative
ecologiste, ambientali, pacifiste». E che questa è, per la prima volta da
vent’anni, la fascia sociale più a sinistra di tutte. Ora poi è diventata
(frase del sociologo Ilvo Diamanti) «generazione 11 settembre»:
coinvolta, con voglia di partecipare ancora di più, ma ancora confusa
senza leader. Alla fine della marcia, a Santa Maria degli Angeli sotto
Assisi, D’Alema e il portavoce del Genoa Social Forum Vittorio Agnoletto
si incrociano e si ignorano. Ma neanche i ragazzi li filano più di tanto,
sono beghe tra quaranta-cinquantenni, certo ci sono pure queste, ad
Assisiville.
E ad Assisiville, la marcia multicomprensiva (tra l’altro, boy scouts e
"Iene", curdi e Rosi Bindi), come nel film multi-caratteri
americani "Nashville" di Robert Altman, l’unica è cantare.
"Bella ciao". Dieci volte di fila, a intervalli, se è il caso.
Va bene ai cattolici, i ragazzi la sanno tutti, fa memoria storica della
sinistra e fa sentire bene. In più rincuora sia la mozione Fassino sia il
Correntone che sulla guerra ha votato a malincuore, perché è
innegabilmente interventista, praticamente neo-blairiana
nazionalpopolare.
E poi la generazione 11 settembre canta coi quarantenni canzoni che
grazie a Dio i quarantenni sanno, la pacifista "Ballata
dell’eroe" di De Andrè subito prima di "Comandante Che
Guevara" (sempre record di magliette). "Il mio nome è mai
più" di Jovanotti-Pelù-Ligabue diffusa dal camioncino di un
collettivo di studenti bolognesi subito prima di "In morte di
S.F." di Guccini; e lì i quarantenni si agitano, devono rimettersi
in macchina, ‘sti ragazzi non sanno che quando loro erano piccoli portava
male. Nel generale sincretismo confuso, i riferimenti, le icone, sono
quasi tutte di qualche generazione fa. In compenso ci si divide sui
segnali esterni. Il gruppo di mezza età è sobriamente griffato
(Fassino-Ralph Lauren, Rutelli-Lacoste, Gavino Angius-Fred Perry) o in
button down (D’Alema e Agnoletto uniti nella camicia). I ragazzi sono in
maglietta e fascia-turbante, anche molti maschi. E la metà delle ragazze:
si riparano dal sole con sciarpe colorate arrotolate in testa, come
odalische in un vecchio quadro. Con effetto etnico-alternativo-no
global-però global, ora lo portano in tutte le parti del mondo dove non
c’è l’obbligo del chador.
Dopo Ponte San Giovanni D’Alema e Fassino vanno via, e si smette di
litigare a capannelli nel corteo. Tra le chitarre e i flauti andini e le
bande di ottoni e i gonfaloni; tra Bobo e Berlinguer (Giovanni); tra gli
sconvolti e le suore, tra le famigliole con passeggino cigolante, tra lo
striscione di Emergency e le due manone in gommapiuma dei social forum
che non daranno veri schiaffi al centrosinistra, sono lontani e hanno
deciso di no. Nell’hinterland di palazzine rosa postmoderne da giunta
rossa felix, di concessionarie centri commerciali e capannoni, va meglio
del previsto perché non ci son state vere risse. E ha sfilato un popolo
pacifista con molte idee diverse su come fare la pace. Dopo Assisiville,
è probabile che continui.
«Era una marcia contro l’Occidente»
Lunedì 15 Ottobre 2001 - LA STAMPA
Le manifestazioni di Polo e radicali: difendiamo l’America
ROMA
La marcia della pace e «quelli che non ci stanno». Mentre migliaia di
persone sfilavano da Perugia ad Assisi, non tutti gli «altri» se ne
stavano con le mani in mano. Al di là delle dichiarazioni e delle
polemiche, centrodestra e radicali hanno espresso il proprio punto di
vista sulla delicata situazione internazionale con alcune
contro-manifestazioni.
Proprio nella sede del palazzo comunale di Assisi, i giovani di Forza
Italia hanno organizzato un incontro-dibattito. «Abbiamo voluto esprimere
il nostro sentimento di vicinanza agli Usa - ha affermato il coordinatore
nazionale Simone Baldelli -, abbandonando la marcia alle discussioni e ai
litigi della sinistra. Non può esserci pace senza giustizia e senza
libertà: per questo abbiamo ritenuto necessario rilanciare lo spirito
vero e profondo di riflessione e di preghiera di Aldo Capitini, e
prendere le distanze dalle posizioni strumentali di chi, come alcuni
esponenti del movimento no global, ha preteso di giocare senza alcuna
legittimità il ruolo del padrone di casa». «All'inizio avevamo aderito -
ha concluso - ma ce ne siamo allontanati quando abbiamo visto che sarebbe
stata marcia contro l'Occidente».
Nella sala del Comune, dove erano state esposte una bandiera americana e
una di Forza Italia, si sono incontrati anche l'on. Sandro Bondi, Antonio
Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, Padre
Fortunato e Giorgio Bartolini, sindaco di Assisi. Proprio lui ha spiegato
il no dell'amministrazione comunale alla tradizionale sfilata
Perugia-Assisi: «Perché - ha detto - per la prima volta nella sua storia
è stata una manifestazione "sui generis", arrivata dopo Genova,
dopo l' 11 settembre». Secondo Bartolini, la marcia «è stata
strumentalizzata in modo pesante da certi partiti della sinistra e noi -
ha aggiunto - l'abbiamo lasciata nelle loro mani. La pace - ha aggiunto -
è una cosa seria, non è dei partiti, è di tutti». Il sindaco ha poi
affermato che nella città oggi «alcuni esercizi pubblici hanno chiuso per
paura». «Mi chiedo - ha osservato - perché deve mettere paura una marcia
della pace».
Anche Alleanza nazionale ha espresso pubblicamente la sua presa di
distanza dalla marcia. E lo ha fatto a Perugia, andando a deporre una
corona di fiori al monumento ai caduti di tutte le guerre, in via Fanti.
L'iniziativa - ha spiegato il consigliere regionale Andrea Lignani
Marchesani - «nata come risposta ad un evidente pacifismo di facciata,
assume in questo contingente contesto internazionale un particolare
significato: la pace è infatti un valore che ha un prezzo e talvolta va
purtroppo difesa con quelle che vengono chiamate operazioni di polizia
internazionale».
Quanto ai Radicali, hanno fatto ciò che avevano promesso nei giorni
scorsi: una loro delegazione si è recata al cimitero dei caduti inglesi
di Rivotorto d'Assisi. «Il nostro - ha detto il segretario Daniele
Capezzone - è un paese in cui c'è chi brucia le bandiere americane e
quelle inglesi. Ma c'è anche chi, come noi, quelle bandiere le alza. Sono
bandiere di libertà e di democrazia per il passato quanto per l'oggi. Per
questo, con gratitudine e commozione, abbiamo visitato stamani il
cimitero di Rivotorto». «C'è un'altra cosa - ha aggiunto Capezzone - che
voglio dire a molti "pacifisti". La Corte Suprema americana, in
nome del primo emendamento, consente in quel paese il rogo della bandiera
nazionale. Ecco, l’America è un paese che consente a chiunque, e
consentirebbe anche a loro, di bruciare il simbolo a stelle e strisce.
Provino, se possono - ha concluso - a bruciare la bandiera cinese a
Pechino o quella cubana a L'Avana».