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editoriale di Vita sulla guerra



Perché non accettiamo il pensiero a mezz'asta

di Riccardo Bonacina (r.bonacina@vita.it)

21/09/2001


Guerra e pace. Più del dolore, più della solidarietà, la parola che ha dominato la scena all'indomani dell'11 settembre è stata la parola guerra. Guerra con le due erre ben arrotate in tv e a corpo 200 sulle prime pagine. New war, Terza guerra mondiale. Guerra nei dialoghi tra noi, in casa o in ufficio. Certo, oggi il popolo americano e chi lo governa, è chiamato ad una prova di grandissima responsabilità, non piegarsi ad una forza cieca e terribile e reagire a un dolore infinito e alla paura, senza cercare vendette altrettanto cieche. Per questo è importantissima la nostra solidarietà incondizionata, perché non si senta solo, perché sappia che chiunque ha compiuto quella violenza incredibile ha colpito non solo gli Usa, ma tutti noi che crediamo nella libertà e nella partecipazione come metodo per cambiare le cose. Sentiamo, in queste giornate, tutto il peso della violenza che si è compiuta, una violenza talmente enorme che oggi ci sembra persino difficile pronunciare la parola pace.
Oggi vogliamo provare a gridare con voi la parola pace. Se le parole hanno peso, sappiamo cosa significa guerra? Davvero la distinzione tra “atto di guerra” e “atto terroristico” è questione squisitamente lessicale? Ma allora perché una grande agenzia ha chiesto ai suoi giornalisti di usare la parola “guerra” e non “attentati terroristici”? Perché sui media ogni appello alla ragionevolezza del mondo politico, anche del nostro mondo politico (da Berlusconi a Ruggiero, da Martino a Casini), non trova spazio ed è silenziato dai proclami spettacolari? E se invece proprio in questa distinzione lessicale passasse il discrimine tra rabbia e desiderio di giustizia? Tra vendetta e dovere di punire? Noi siamo convinti che sia così e già in tremila avete scritto con noi a Ciampi: “La giustizia non è mai guerra”. Noi oggi vogliamo riaffermare la parola pace con tutto il suo carico di ragionevolezza e di realismo, sapendo che la guerra è la risposta più barbara e inefficace contro l'ingiustizia.

Scontro tra civiltà? Così è stato detto e scritto. Eppure colpire New York non è colpire solo l'America, è qualcosa di più, se è possibile, di peggio. Bush, da presidente degli States, non era ancora stato a New York dal giorno dell'insediamento. Era una città non sua, non solo americana. Tra mille feroci contraddizioni nelle scuole di New York è difficile avere due bambini della stessa etnia. Come è stato sottolineato, è la più grande esperienza multiculturale del mondo. Tra i morti delle Torri Gemelle ci sono persone di almeno 40 etnie. Il disastro, i kamikaze lo hanno fatto anche a questo livello: mettendo un veleno nel circuito della convivenza. “Clash of cilivisations”, scontro di civiltà uno slogan sbagliato, che non aiuta a capire. Lo scontro non è tra due civiltà, ma tra chi crede che ci sia qualcosa di dovuto all'uomo in quanto uomo, prima del suo essere povero o ricco, anziano o giovane, arabo o americano. E questo qualcosa è il rispetto, la capacità di guardarlo e mettersi in rapporto con lui. Lo scontro è tra chi crede questo, che è poi il fondamento della civiltà, di ogni civiltà, e chi persegue un progetto di potere, qualunque esso sia, e a questo progetto sacrifica tutto, anche la sua stessa vita. Non credete alla propaganda, che si nutre persino di falsi, di chi persegue i suoi progetti di potenza.

Libertà e sicurezza, beni incompatibili? In questi giorni c'è stato addirittura chi ha avvertito sul fatto che ci sarà meno libertà, che se si vuole più sicurezza bisogna rinunciare a porzioni di libertà. Già gli editorialisti ci inondano di domande capitali. Ci dicono che siamo di fronte ad un dilemma delicatissimo: come salvaguardare la libertà mettendoci in grado di colpire un nemico pronto a tutto e che già abita tra noi? Benjamin Franklin, molti anni fa rispose a questo dilemma da par suo, dicendo: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né libertà né sicurezza». Noi stiamo con Benjamin Franklin, crediamo che la sicurezza non deriva dalla militarizzazione degli stati e delle società, dalla militarizzazione persino dei pensieri, la sicurezza è un dono che si offre a chi è capace di incontrare le diversità. Non è proprio il terrorismo il frutto del non rapporto?

Sconfiggere il male. D'accordo, ma quale? Osama Bin Laden o qualcos'altro? Non è forse che proprio noi occidentali, beati in mondo dei balocchi, abbiamo smesso da troppo tempo di fare i conti con il male e il limite che è dentro noi? Lo psicanalista Giacomo B. Contri, ci ha indicato una via per ragionare sul male, una via che riguarda tutti e non una parte del mondo. Scrive Contri: «E' il terrorismo il figlio del non rapporto, è il terrorismo che taglia corto, che semplifica, che non ha tempo da perdere. E' la fine della politica, del compromesso, di ogni rapporto. E il terrorismo privato e inapparente è già azione pubblica». È già terrore. Questo è il nemico da combattere con la nostra pratica individuale e sociale in ogni parte del mondo. Con fastidio abbiamo ascoltato in questi giorni le invocazioni a Dio (comunque lo si chiami), le invocazioni religiose di Bush o di Omar. C'è un Dio che si invoca per nobilitare i propri progetti di potere e un Dio cui ci si abbandona. Anche il Papa ha invocato Dio, ma in maniera dìversa: «Ci rivolgiamo al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, salvezza del suo popolo, e con fiducia di figli lo supplichiamo di venire in nostro soccorso in questi giorni di lutto e di dolore». Padre, ecco il vero nome di Dio, l'essere figli è l'origine di ogni duraturo legame sociale. Sta qui la forza e la potenza del dio biblico: Dio Padre compagnia all'uomo, sostegno, guida. Un Dio che si china sull'uomo, come metodo del proprio essere, del suo chiamare alla vita. Perciò non ci sono vere guerre di religione, sono tutte guerre di potere. Non fidatevi di chi invoca un Dio che non sia anche Padre.

New global, anno uno? La critica no global, o new global come sarebbe più giusto dire, in questi anni,e in questi mesi con ancor più forza, aveva avvertito che un modello di sviluppo fondato solo sul saccheggio delle risorse e sul dogma della crescita continua del pil era destinato al collasso. Una lettera affissa sulle rovine del Pentagono inizia così: “Tra la pubblicità di una merendina e il trillo di un cellulare, il mondo civile ha scoperto la drammatica realtà…”. Ora tutti gli analisti e gli economisti analizzano quelle che saranno le parole chiave dei mesi futuri: sobrietà, parsimonia, locale, protezionismo, famiglia, casa. Sarà solo un grande rigurgito moralista dell'Occidente che vuol mostrarsi serio e sobrio in tempo di guerra? Si tratterà solo della cattiva coscienza dei ricchi che non vogliono far incazzare ancora di più i poveri del mondo. Intanto scoppiano le “bolle” del turismo e della finanza online. Passano in secondo piano i gossip e la “leggerezza”. Ma cosa prenderà il loro posto? Resterà il grigiore e la chiusura della fase recessiva. Le ingiustizie e gli ultimi affari consumati sulla pelle dei risparmiatori? Un importante analista ci ha scritto: «Per un ricco capitalista era difficile immaginare un evento, scusatemi l'espressione, in fin dei conti migliore. Non si poteva dire che eravamo in recessione e che comunque era utile essere in recessione: adesso ci andiamo dritti e filati. Non se ne poteva più della globalizzazione che massacrava i margini delle aziende: adesso ci mettiamo una bella pietra sopra e torniamo a fare un po' di sano protezionismo. Non se ne poteva più della liberalizzazione che permetteva a tutti di fare tutto, magari anche meglio: adesso se ne riparla fra dieci anni. Nessuno ne poteva più di giovani arrapati delle banche d'affari in giro per il mondo a combinare deal con stipendi medi da cinque milioni di dollari, e ogni anno glieli dovevi raddoppiare. Adesso è tutto finito, “business as usual”. La ricchezza per vent'anni è sembrata democratica, invece è oligarchica, capito?».
Diventeremo, allora noi, gli eroi della globalizzazione delle risorse e delle opportunità, dei diritti e della reciproca parsimonia? La sfida è interessante.


Riccardo Bonacina e Giuseppe Frangi