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La nonviolenza e' in cammino. 235
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 235 del 21 settembre 2001
Sommario di questo numero:
1. Benito D'Ippolito: chiamare una guerra "giustizia infinita"
2. Giobbe Santabarbara: tre ambiguita' nel movimento pacifista. Una
riflessione dall'interno per aprire una discussione urgente
3. Monica Lanfranco: il futuro, adesso
4. Uri Avnery, il solo rimedio sicuro al terrorismo e' rimuoverne le cause
5. Farid Adly: occidentali, non vendeteci piu' armi
6. Pax Christi, un'ora di silenzio per il disarmo e la pace
7. Davide Melodia, sulla disobbedienza civile
8. 11 settembre 2001: anche oggi 35.615 bambini sono morti per fame
9. Letture: Enrico Chiavacci, lezioni brevi di etica sociale
10. Letture: Alberto L'Abate (a cura di), giovani e pace
11. Letture: Francesco Susi (a cura di), come si e' stretto il mondo
12. Roberto Tecchio, il laboratorio di ricerca e formazione sulla gestione
nonviolenta dei conflitti (parte quinta)
13. Per studiare la globalizzazione: da Paul Ricoeur ad Angelo Maria
Ripellino
14. La "Carta" del Movimento Nonviolento
15. Per saperne di piu'
1. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: CHIAMARE UNA GUERRA "GIUSTIZIA INFINITA"
Chiamare una guerra "giustizia infinita"
vuol dire: "questa guerra
non finira' giammai".
Invece finira':
con il genere umano.
2. DIBATTITO. GIOBBE SANTABARBARA: TRE AMBIGUITA' NEL MOVIMENTO PACIFISTA.
UNA RIFLESSIONE DALL'INTERNO PER APRIRE UNA DISCUSSIONE URGENTE
[Giobbe Santabarbara, come e' noto, nel modo suo burbero e senza
infingimenti esprime i crucci e le interrogazioni del "Centro di ricerca per
la pace" di Viterbo]
Affinche' l'impegno del movimento pacifista contro il terrorismo e contro la
guerra possa essere limpido e coerente, adeguato ed efficace, occorre una
chiarificazione in noi stessi.
Occorre prendere coscienza di ambiguita' presenti in consistenti filoni
della cultura che si dichiara pacifista ma che contraddicono col loro
argomentare ed agire il fine che pure proclamano di perseguire.
Occorre un salto di qualita': passare dal pacifismo generico, dal pacifismo
strumentale, dal pacifismo dimidiato e subalterno, alla nonviolenza. Sola la
scelta della nonviolenza consente un'azione per la pace nitida, persuasa e
persuasiva, concreta.
Indico tre ambiguita' su cui occorre riflettere, su cui occorre decidere, su
cui occorre tracciare delle linee di demarcazione per evitare obnubilamenti,
menzogne, vergogne, complicita', orrori.
*
I. La prima ambiguita' e' di non essere limpidi nella condanna e nel ripudio
della violenza.
Eppure dopo Auschwitz ed Hiroshima, dopo i gulag e la Cambogia, dovrebbe
essere chiaro a tutti cio' che Gandhi sapeva gia' prima dell'atomica, e che
Albert Einstein e Bertrand Russell dissero alto e forte nel loro appello: e'
in gioco l'esistenza dell'umanita', la violenza conduce all'annientamento.
Cosicche' non esiste piu' ne' guerra giusta ne' violenza legittima, ma un
solo imperativo: salvare l'umanita', e quindi disarmare tutti, e tutti i
conflitti affrontare col dialogo e la consapevolezza di essere un'unica
famiglia umana.
E dunque dobbiamo essere netti e intransigenti: partecipa del movimento che
coerentemente si impegna contro la guerra e contro il terrorismo, che
concretamente si impegna nell'edificare la pace e la giustizia, solo chi fa
la scelta preliminare ed irrinunciabile del ripudio della violenza.
*
II. La seconda ambiguita' e' nella stereotipata e pregiudiziale
intolleranza, e l'ambivalente ipocrisia, nei confronti degli Stati Uniti
d'America e della cultura e popolazione nordamericana.
Che certo non sono un modello di costumi e di societa' sostenibile, ma che
non sono solo imperialismo e consumismo. Sono anche, dovendo dirlo di
scorcio, Walt Whitman e Herman Melville, Leonard Peltier e Martin Luther
King, Louis Armstrong e Woody Allen, Noam Chomsky e Adrienne Rich, Mumia Abu
Jamal e naturalmente Emily Dickinson. America e' il genocidio dei nativi
americani e la stupidita' assassina di pressoche' tutti i suoi presidenti
degli ultimi cent'anni, il complesso militare-industriale stragista e la
narcotizzazione hollywoodiana. Ma America sono anche tante persone e tanti
movimenti che contro tutto cio' si sono battuti.
Cosicche' e' insensato omologare potenti e popolazione, carnefici e vittime,
poteri economici e tradizioni culturali, lobbies vampiresche e movimenti per
i diritti civili, in un'unico stereotipo, e fare di tutt'erbe un fascio:
alla stessa stregua noi italiani saremmo per forza tutti mafiosi e fascisti.
Analogamente e' schizofrenico detestarne l'egemonia culturale per la sua
carica consumistica e manipolatrice ed andare in brodo di giuggiole per i
prodotti che quell'egemonia culturale impone: e' un esempio perfetto di
efficacia dell'apparato pubblicitario e della sua potenza di manipolazione
il successo di massa e la ricezione acritica di un libro di documentazione
giornalistica interessante ed utile ma sostanzialmente mediocre come "No
logo"; e' un esempio perfetto di questa egemonia culturale che le
televisioni italiane, ripetitrici in sedicesimo di quella barbarie che
Guenther Anders esule in America aveva gia' colto e denunciato decenni fa,
abbiano imposto come simboli e portavoce del movimento che si oppone alla
globalizzazione neoliberista personaggi grotteschi e irresponsabili, e che
sarebbero ridicoli se non fossero inquietanti, come chi fa i proclami di
guerra in tv o chi spedisce pallottole a un ministro.
Infine, e' irragionevole ragionare per schemi di tipo razzista: "i
tedeschi", "gli amerikani", "gli islamici": e Averroe'? L'islam che salvava
la vita degli intellettuali cristiani quando nell'Europa cristiana la Chiesa
cristiana li faceva bruciare sul rogo? E Malcolm X? E Cesar Chavez? E Allen
Ginsberg? E Dietrich Bonhoeffer? E i fratelli Scholl? Ed Heinrich Boell? Ed
Hannah Arendt? Stiamoci attenti coi pregiudizi e le semplificazioni.
E dunque dobbiamo essere netti e intransigenti: nel movimento per la pace
non puo' esserci spazio per culture ed atteggiamenti razzisti e totalitari,
autoritari e dogmatici, acritici e intolleranti. Essere corrivi con simili
culture ed atteggiamenti equivale ad essere complici della violenza dei
potenti e degli assassini.
*
III. La terza ambiguita' e' nello sguardo che non riusciamo a rivolgere su
noi stessi.
Eppure dovremo fare i conti con la nostra ignavia, col nostro parassitismo,
con la nostra superficialita', con la nostra ipocrisia, con la nostra
complicita'.
Due anni fa non riuscimmo a impedire che l'Italia partecipasse alla guerra
illegale e stragista nei Balcani. E non riuscimmo a difendere la legge
fondamentale del nostro paese, il patto costitutivo del nostro ordinamento
giuridico. Altrove ho detto quali siano state a mio avviso le scaturigini di
quella nostra catastrofe morale e politica (le ambiguita' del pacifismo
parastatale e parassitario, e quelle ancora piu' gravi dell'antimilitarismo
a sua volta militarista, violentista, irresponsabile e peggio), qui ripeto
solo che c'era un solo modo per opporsi alla guerra: fare la scelta limpida
e consapevole della nonviolenza, e forti di questa scelta praticare una
stategia coerente di contrasto operativo della guerra, fondata su tre
pilastri: l'azione diretta nonviolenta, la disobbedienza civile (che e' il
contrario delle idiozie che sotto questo nome spacciano deliranti e
mascalzoni), lo sciopero generale contro la guerra.
Una discussione onesta sulla vicenda di due anni fa ancora dobbiamo farla.
E pochi mesi fa una leadership di persone in maggioranza serie e brave ma
nell'insieme obnubilata e irresponsabile ha portato allo sbaraglio centinaia
di migliaia di persone generose a Genova costruendo le condizioni perche'
venissero massacrate. Per ottenere visibilita' sui mass-media si e'
follemente agito esponendo al pericolo di gravi lesioni e di morte centinaia
di migliaia di esseri umani, da parte di una leadership subalterna e di
fatto resa complice di una scellerata strategia di provocazione fatta
crescere per mesi il cui effetto di impaurimento, umiliazione,
disorientamento, sconvolgimento, e in alcuni casi vera e propria
terrorizzazione di molti ragazzi in divisa, e fin di eccitamento dei
verosimilmente pochi ma tragicamente scatenati sadici criminali purtroppo
presenti tra le forze dell'ordine, era cosi' evidente che occorreva essere
ciechi o in abissale malafede per non rendersene conto. E le conseguenze
sono state terribili.
Una discussione onesta su questo aspetto della catastrofe di Genova ancora
deve cominciare.
E qui non e' in discussione il fatto che le violenze commesse da personale
delle forze dell'ordine siano comunque inammissibili e comunque
ingiustificate e comunque illecite e comunque criminali: cio' e' ovvio; e
che i responsabili di esse vadano perseguiti col massimo rigore: cio' e'
ovvio, necessario, urgente, e la legislazione vigente lo prevede e lo
impone. Chi ha commesso violenza, e chi lo ha consentito, deve essere
sottoposto a processo e punito, tanto piu' se ha abusato di un pubblico
ufficio, di un potere conferitogli dallo stato.
Ma dobbiamo avere l'onesta' di esaminare anche questo altro aspetto della
questione: i catastrofici errori della inadeguata leadership del movimento
che si oppone alla globalizzazione neoliberista; e chi scrive queste righe
lo predica invano fin dai tempi di Praga, dove gia' era chiarissimo quali
sarebbero stati gli esiti omicidi provocati da una condotta peggio che
ambigua: sciagurata.
E dunque dobbiamo essere netti e intransigenti: prima di fare la predica
agli altri dobbiamo esaminare ed invigilare noi stessi; chi vuol essere
operatore di pace non puo' permettersi atteggiamenti irresponsabili,
ragionamenti capziosi, condotte acritiche.
*
Solo la scelta della nonviolenza, la coerenza della nonviolenza, la forza
della nonviolenza, consentira' al movimento che lotta per la giustizia
globale di proseguire il suo cammino.
Solo la scelta della nonviolenza costruisce la pace e consente la
convivenza.
Solo la scelta della nonviolenza: deve valere nei rapporti tra le persone,
deve valere nei rapporti tra le culture e le religioni e le societa', deve
valere nei rapporti tra le istituzioni, tra gli stati, nelle relazioni
internazionali.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
3. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO: IL FUTURO, ADESSO
[Monica Lanfranco anima la rivista femminista "Marea" ed altre esperienze.
Per contatti: e-mail: mochena@village.it; sito: www.marea.it]
Guerra, e non virtuale. Una parola, un concetto odioso eppure cosi'
familiare e quotidiano, dunque ormai assimilato, da essere inadeguato di
fronte alla sua materializzazione, dopo l'11 settembre; una guerra piu'
vicina delle altre, che pure ci sono sempre state e hanno lambito la nostra
tranquillita' arrivando con le navi della disperazione alle coste, o
attraverso le immagini del medio oriente infuocato e impoverito sino allo
stremo nei volti di donne e bambini palestinesi, afghani, africani.
Questa guerra e' piu' vicina delle altre perche' tocca il paese totem, gli
Stati Uniti, il sogno di benessere sempre possibile per chiunque, che,
sebbene incrinato ormai da decenni nella sua veridicita', resta tuttavia nel
fondo di ogni rappresentazione del modello di progresso al quale aspirare,
da esportare senza critica. Siamo cresciute a forza di snack, vestite in
jeans, ascoltando rock, sognando in panavision. Dopo Genova, per chi l'ha
vissuta con l'intensita' terribile e straordinaria che ha sprigionato
l'esperienza di piu' di un anno di lavoro verso il summit, questa nuova
enorme tragedia rischia di annichilire i sentimenti e di bloccare la
ragione.
Eppure vorrei fare un passo indietro per capire come legare i fili di un
discorso che non puo' e non deve interrompersi, tra donne e tra donne e
uomini che cercano di fare politica per costruire futuro, anche se oggi
tutto appare piu' buio e faticoso.
Comincio con una frase: "Siete un'ispirazione di perseveranza": un commento
gentile e commovente, lievemente sgrammaticato, pronunciato da uno
sconosciuto non italiano per telefono, dopo la lettura su "Carta" del
resoconto della danza a spirali fatta dal gruppo delle donne come azione
diretta nonviolenta il 20 luglio. Questa frase mi offre lo spunto per
riflettere sul futuro della politica, su quel passaggio dalla fase della
possibilita' di un mondo diverso a quella della costruzione di un mondo
diverso. E' qui, mi pare, in questo passaggio dalla prefigurazione
desiderata e auspicata alla materialita' concreta dell'edificare i desideri
che il movimento italiano vasto e variegato che si dice antiglobalizzazione
misurera' nei prossimi durissimi mesi se Genova e' stata o meno il suo
inizio o la sua fine, e se si sapra' mantenere salda e ferma la convinzione,
anche dopo New York, che sta nel rifiuto della violenza, da qualunque parte
essa venga, la strada per cambiare prospettiva. Credo che focalizzare
l'attenzione sul percorso e gli esiti del lavoro politico compiuto dalla
rete del Genova Social Forum significhi, al di la' delle valutazioni sulle
sue luci ed ombre, segnalare un dato di inequivocabile e straordinaria
novita': per la prima volta da molti decenni in questo paese si e'
realizzata una convergenza inedita della stragrande maggioranza dei
soggetti, antichi e nuovissimi, che, ciascuno per la sua piccola o grande
parte teorizza, pratica, propone e lavora sui temi del cambiamento.
Non si e' mai smesso, infatti, sia nei mesi che hanno preceduto il vertice,
a partire da giugno con l'iniziativa della rete della Marcia delle donne
sino al Public Forum e alle manifestazioni del 19, 20 e 21 luglio, di
segnalare alla stampa e a quelle realta' che, per calcolo miope o per
opportunismo, sono state alla finestra a guardare (in particolare pezzi
rilevanti del sindacato e i ds) che quello che stava nascendo e poi
crescendo era un movimento politico che di fatto scompaginava l'ordine
tradizionale della politica per come fin qui l'avevamo conosciuta e
praticata.
Ho in mente un vecchio manifesto dei primi anni '90 dell'Arci, sul quale
campeggiava l'enorme scritta "da soli non si puo'": prendendo a prestito
quel concetto, e sintetizzando, credo si possa affermare che questa
consapevolezza ha prevalso nelle oltre 700 organizzatrici e gruppi che hanno
intrapreso il percorso del GSF sulla pur legittima tendenza a esplorare
strade separate, per testimoniare la protesta e la proposta contro l'ordine
mondiale unilaterale che il neoliberismo prefigura.
Le istanze del movimento femminista, quelle dell'ambientalismo, del
commercio equo e solidale, della salvaguardia e della trasformazione del
mondo del lavoro, del volontariato laico e religioso, dell'inquietudine
urbana giovanile raccolta intorno ai centri sociali, delle campagne
nazionali che hanno creato la rete Lilliput: tutti questi mondi hanno per
mesi trovato la pazienza e la voglia di sedersi le une accanto agli altri e
litigare, progettare, scrivere e affinare testi, promuovere politica
unitaria nel luogo dove i fatti avvenivano, ma anche altrove, decentrando e
incrementando aggregazione anche fuori da Genova sugli stessi temi del GSF,
chiamando e coinvolgendo sulle proposte che via via emergevano il resto del
mondo.
Mondo che e' arrivato, a giugno per Punto G e poi a luglio, durante la
settimana del controvertice. Un mondo che sta riflettendo, insieme, dopo lo
sgomento, per capire come fare per invertire la rotta che rischia di portare
alla guerra globale, alla fine del mondo cosi' come lo conosciamo, dando
corpo alle allucinazioni catartiche dei colossal sulle apocalissi, oggi
cosi' obsolete dopo la realta' delle torri inghiottite dal fuoco.
Un mondo che si e' raccontato nel movimento nato sul G8 di Genova,
dimostrando che si puo' e si deve dialogare nelle differenze: la
contraddizione di genere con il mondo del lavoro, l'agricoltura biologica
con le campagne sul debito, le suore e i frati con i ragazzi e le ragazze
dagli strani orecchini che percorrono il corpo, i migranti e le migranti con
gli animalisti, l'associazionismo tradizionale con quello di movimento,
indigene e losangeline (e sono solo una briciola di cio' che e' passato a
Genova): tutti questi sguardi sul mondo hanno mostrato che anche in una
citta' dove si ergono muri evocanti raccapricciante storia recente, e si
negano i migliori spazi di agio e di convivenza collettiva alla moltitudine
perche' destinati ad otto umani potenti e alla loro corte, il movimento
riesce a dare pane e rose, alloggio, vitto, occasioni di riflessione,
dibattito e scambio a oltre mezzo milione di persone, tante e forse piu'
sono state le presenze in totale nell'assolato luglio nei forum e nelle
manifestazioni, per strada, nelle piazze, sui sagrati delle chiese.
E ha mostrato al mondo che la moltitudine, la maggioranza degli uomini e
delle donne che hanno organizzato, con fatica a tratti sovrumana, e
partecipato con generosita' alla costruzione della cittadella e delle
manifestazioni, e che oggi si prepara ad affrontare il futuro con il cuore
gonfio di dolore per la gente di New York e per quella, ancora piu' provata,
dell'Afghanistan, e' determinata ad esprimere il suo totale e irriducibile
dissenso in modo pacifico e non violento, senza altre armi se non quelle
della motivata, documentata e ferma volonta' di cambiare alla radice la
configurazione economica sociale e politica del mondo, a cominciare dalla
comunita' nella quale opera fino al governo nazionale e a quello mondiale.
Due sono le eredita' vive e vitali, fortemente problematiche sulle quali
riflettere, che Genova lascia al movimento, a mio parere, e dalle quali
partire per fermare i venti di guerra: la prima e' l'indicazione che la
strada della contaminazione, del sistema simbolico e concreto della rete e'
la chiave sulla quale lavorare e fare politica, conservando le identita'
soggettive delle parti che la compongono, imparando a non fare della rete un
soggetto politico cristallizzato.
La seconda e' che la rete debba espandersi dotandosi delle pratiche della
nonviolenza quando decide di andare a chiamare la moltitudine in piazza,
perche' da Genova in poi le pratiche nonviolente devono essere lo
spartiacque e il biglietto da visita per allargare il consenso sulle istanze
di opposizione alla globalizzazione neoliberista.
Non e' facile portare il movimento a depurarsi, nelle sue pratiche, a tutto
tondo dalla violenza e della guerra come sistema di comunicazione,
linguaggio, organizzazione. In Italia, rispetto agli altri paesi europei e
agli Stati Uniti la forma della rete e la cultura della nonviolenza non
hanno ancora una storia collaudata e consolidata, ed e' su questo che vale
la pena, soprattutto e in particolare come donne di lavorare, senza
ambiguita' e con fermezza. Con atteggiamento elastico di ascolto, aprendo le
porte al dialogo con tutte le realta' che fin qui sono state fianco a fianco
per costruire scenari politici dove la differenza possa esprimersi, tenendo
ferma la critica e la distanza irriducibile, in quanto portatrici della
cultura di genere, da qualunque espressione di militarismo e violenza, da
qualunque parte provenga, sempre, soprattutto ora che si parla non piu' e
non solo di repressione, ma, appunto, della fine di ogni possibile dialogo:
di guerra, appunto.
E' un lungo e duro lavoro, che da decenni varie parti del movimento delle
donne edificano nei luoghi dove fanno quotidiana politica: dalle scuole, con
la critica al linguaggio sessista, alle pratiche di interposizione e di
ricerca del dialogo anche in situazioni estreme attuate dalle donne in nero,
al lavoro del Forum donne di Rifondazione, alle associazioni e gruppi misti
dove e' cresciuta una puntuale analisi delle radici profonde che permeano di
simbolici di morte le istituzioni sino ad arrivare alle concretizzazioni
strategiche del nuovo ordine mondiale prefigurato dalla Nato, specialmente
dopo l'ossimoro della guerra umanitaria.
Servono, a mio parere, pervasione, moltiplicazione di iniziative sul
territorio, costruzione di consenso sul nostro dissenso partendo da cio' che
vive e opera sul territorio, allargamento e non contrazione degli spazi di
dialogo, di democrazia, di confronto. Agire localmente, pensare globalmente,
si diceva anni fa, e mi pare una metafora ancora valida e non abbastanza
realizzata, per fermare la guerra nei cuori e nelle menti di noi tutte e
tutti, come facile scorciatoia per azzerare le problematiche che albergano
il mondo. Oggi guerra significherebbe, insisto, la fine del mondo cosi' come
noi l'abbiamo conosciuto.
E' un'utopia possibile? Intanto credo che sarebbe importante dare al mondo e
al nostro governo una prova di maturita' con una enorme adesione alla Marcia
Perugia-Assisi, dedicandola al rifiuto che l'Italia si schieri con gli Usa
nell'eventualita' di una decisione di attacco indiscriminato alle genti
indifese in qualunque paese arabo. Siamo tutte e tutti americani, afghani,
palestinesi ed ebrei. Siamo tutte e tutti degni di una mondo diverso, e
dobbiamo, a mani nude, affermare la possibilita' e la necessita' di
edificarlo, ora.
4. RIFLESSIONE. URI AVNERY: IL SOLO RIMEDIO SICURO AL TERRORISMO E'
RIMUOVERNE LE CAUSE
[Questo intervento di Uri Avnery, prestigioso pacifista israeliano, e'
apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 19 settembre]
Dissolto il fumo, depositata la polvere e placata la furia iniziale,
l'umanita' si svegliera' e si rendera' conto di un fatto nuovo: non c'e'
luogo sicuro sulla terra.
Un pugno di attentatori suicidi ha fermato gli Stati Uniti, ha costretto il
presidente a nascondersi in una lontana montagna, ha dato un colpo terribile
all'economia, ha costretto a terra tutti gli aerei e ha svuotato gli uffici
pubblici. Questo puo' accadere in ogni paese. Le Torri Gemelle sono
dappertutto.
Non solo Israele ma il mondo intero e' percorso da discorsi senza senso di
"lotta al terrorismo". Politici, "esperti di terrorismo" e altri propongono
di colpire, distruggere, annientare e assegnare altri milioni di dollari ai
"servizi segreti". Danno suggerimenti geniali. Ma nulla di tutto questo
aiutera' i paesi minacciati, cosi' come nulla di cio' ha aiutato Israele.
Non c'e' un rimedio sicuro al terrorismo. Il solo rimedio e' rimuoverne le
cause. Si possono uccidere milioni di zanzare ma altri milioni prenderanno
il loro posto. Per sbarazzarsene occorre bonificare la palude dove si
riproducono. E la palude e' sempre politica.
Nessuno si sveglia la mattina e pensa: oggi dirottero' un aereo e mi
suicidero'. Cosi' come nessuno si sveglia e pensa: oggi mi faro' esplodere
in una discoteca di Tel Aviv. E' una decisione che viene presa negli anni,
lentamente, per motivi nazionali o religiosi, sociali e spirituali. Nessuna
lotta clandestina puo' operare senza radici popolari e un ambiente che la
sostenga, dove trovare adepti, assistenza, nascondigli, soldi e mezzi di
propaganda. Un'organizzazione clandestina vuole guadagnare popolarita', non
perderla. Percio' mette in atto le azioni quando ritiene che sia cio' che la
sua opinione pubblica vuole. Gli attacchi terroristici testimoniano lo stato
d'animo dell'opinione pubblica.
Ed e' cosi' anche in questo caso. I mandanti degli attacchi hanno deciso di
mettere in atto i loro piani dopo che l'America ha provocato un odio immenso
in tutto il mondo. Non a causa della sua forza, ma a causa del modo in cui
ha usato la sua forza. E' odiata dai nemici della globalizzazione, che
l'accusano dell'abisso che c'e' tra ricchi e poveri. E' odiata dai popoli
arabi, per il suo appoggio all'occupazione israeliana e per le sofferenze
del popolo palestinese. E' odiata dalle moltitudini musulmane, a causa di
quello che vedono come un appoggio alla dominazione ebrea dei luoghi sacri
di Gerusalemme. E ci sono molti altri popoli infuriati che ritengono
l'America sostenitore dei loro aguzzini.
Fino all'11 settembre - una data da ricordare - gli americani potevano
illudersi che tutto cio' interessasse altri, in luoghi lontani oltreoceano,
e non toccasse le loro vite. Ora non piu'.
Questa e' l'altra faccia della globalizzazione: tutti i problemi del mondo
riguardano ognuno di noi. Ogni ingiustizia, ogni oppressione. Il terrorismo,
l'arma del debole, puo' raggiungere facilmente ogni punto della terra. Ogni
societa' puo' diventare bersaglio, e quanto piu' una societa' e' sviluppata
tanto piu' e' in pericolo.
Ormai poche persone possono dare dolore a tante. Presto una sola persona
potra' portare una valigia con una piccola bomba atomica e distruggere una
megalopoli con milioni di abitanti.
Questa e' la realta' del ventunesimo secolo che abbiamo visto in questa
settimana. Questo deve portare alla globalizzazione dei problemi e delle
loro soluzioni. Non in astratto, con fatue dichiarazioni delle Nazioni
Uniti, ma con uno sforzo globale per risolvere i conflitti e costruire la
pace, con la partecipazione di tutte nazioni, e gli Stati Uniti collocati in
un ruolo centrale.
Da quando sono diventati potenza mondiale gli Stati Uniti hanno deviato dal
percorso delineato dai fondatori. Thomas Jefferson disse, cito a memoria:
nessuna nazione puo' comportarsi senza rispetto per l'opinione
dell'umanita'. Quando la delegazione degli Stati Uniti ha lasciato la
conferenza mondiale di Durban, per far fallire il dibattito sulla schiavitu'
e sostenere la destra israeliana, Jefferson deve essersi rivoltato nella
tomba.
Se sara' confermato che l'attacco su New York e Washington e' stato
perpetrato da arabi - e anche se cio' non sara' - il mondo dovra' finalmente
curare la ferita incancrenita del conflitto israelo-palestinese, perche'
avvelena il corpo dell'umanita'. Uno dei poco saggi ragazzi
dell'amministrazione di Bush ha detto solo alcune settimane fa: "Lasciamoli
sanguinare!", rivolto a palestinesi e israeliani. Ora e' l'America che
sanguina. Chi corre via dal conflitto e' dal conflitto inseguito, anche a
casa sua.
Americani ed europei dovrebbero imparare la lezione. La distanza tra
Gerusalemme e New York e' piccola, cosi' come la distanza tra New York e
Parigi, Londra o Berlino. Non solo le multinazionali abbracciano il globo,
anche le organizzazioni del terrore. Quindi gli strumenti per la soluzione
dei conflitti devono essere globali. Al posto degli edifici distrutti a New
York dovranno essere costruite le torri gemelle della pace e della
giustizia.
5. RIFLESSIONE. FARID ADLY: OCCIDENTALI, NON VENDETECI PIU' ARMI
[Farid Adly, che ringraziamo di cuore per questo intervento, e' un tenace e
rigoroso costruttore di pace; giornalista arabo, vive e lavora in Italia da
oltre trenta anni. E' stato il segretario milanese della Lega internazionale
per i diritti e la liberazione dei popoli; per venti anni redattore di Radio
Popolare Network (Milano). Attualmente e' il presidente dell'Associazione
Culturale Mediterraneo (nord-est della Sicilia) e dirige un'agenzia stampa
interfaccia tra il mondo arabo e l'Italia, "Anbamed, notizie dal
Mediterraneo". Per contatti: anbamed@katamail.com]
- Una condanna senza appelli ai terroristi che hanno ideato, organizzato,
finanziato e messo in atto quest'orrendo crimine;
- Nessuno tra i potenti, pero', si sogni di ridurre il dissenso al silenzio
o di mettere con le spalle al muro chi si batte per la giustizia, la
liberta', l'uguaglianza tra i popoli e per la fine della poverta';
- C'e' una violenza primaria, quella delle nazioni potenti e dominanti, che
bisogna continuare a denunciare e smascherare come origine della
disperazione di una vasta parte dell'umanita';
- Gli orrendi atti di terrorismo non possono essere presi a pretesto per
colpire altre popolazioni civili e mietere altre vittime innocenti.
Sono quattro considerazioni fondamentali per cercare di capire cosa sta
succedendo e tentare di respingere le sollecitazioni all'imbarbarimento,
aizzate in primo luogo dalla macchina di propaganda del governo Sharon,
primo interessato a sfruttare la situazione per accentuare il suo terrorismo
di Stato contro la popolazione civile palestinese, sotto gli occhi ed il
silenzio delle cancellerie internazionali. Lo ha ammesso lo stesso ministro
della difesa di Tel Aviv: "abbiamo ucciso a Jenin una decina di esponenti
palestinesi senza ricevere una sola protesta dalle capitali occidentali".
C'e' in atto una nuova campagna di neoantisemitismo, questa volta contro gli
arabi. E' vomitevole veder ripetersi questa pretesa superiorita' degli
esseri occidentali riecheggiata nella stampa di uno stato democratico. Non
cito questi giornali e questi pseudo-commentatori soltanto per non far loro
una pubblicita' gratuita.
Nell'arabo e nel musulmano, oggi, si identificano i nemici della civilta'.
L'occidente capitalista, dopo la caduta del muro di Berlino, la sconfitta
dell'esperienza sovietica e la polverizzazione dell'URSS e del Patto di
Varsavia, non ha piu' nemici e deve assolutamente trovarne uno, nel quale
incarnare l'impero del Male, per poter continuare l'opera di lavaggio del
cervello della sua opinione pubblica.
Il cittadino arabo e musulmano, nella maggior parte dei casi, e' succube di
regimi filostatunitensi, sorretti politicamente e militarmente dai paesi
occidentali, che certamente non fanno cio' per un'opera di carita', ma per
poter meglio sfruttare le ricchezze minerarie, finanziarie ed economiche di
quei paesi.
Questa campagna antiaraba, che si sta fomentando, mi ricorda
quell'operazione, degli anni ottanta, subito dopo l'attentato al papa,
denominata Bulgarian Connection, orchestrata da media Usa ed Europei
fiancheggiatori della Cia. Come si ricorderanno molti lettori,
quell'operazione propagandistica e' finita in una bolla di sapone ed i
misteri dell'attentato contro il Papa sono tuttora irrisolti. I "Lupi grigi"
turchi, fortemente implicati nella vicenda, sono amici dei militari di
destra, legati a doppio filo agli Stati Uniti, al potere ad Ankara da molti
anni, palesemente o dietro le quinte.
Nella campagna attuale tesa a trovare un consenso ed un'egemonia ideologica
che dia all'occidente il semaforo verde per attaccare paesi che vengono
definiti santuari del terrorismo, si dimentica un fatto principale: la
potenza che ha maggiormente addestrato terroristi nel mondo e' quella
statunitense. Paradossalmente lo stesso saudita Bin Laden ed i suoi
protettori Talebani, al potere in Afghanistan, sono stati una creatura della
Cia, una ventina di anni fa, quando c'era bisogno di mobilitare l'islam
nella battaglia contro l'Unione Sovietica. Allora era lecito, adesso non lo
e' piu'. A rigore di logica dovrebbero una spiegazione, se non a noi della
sinistra, alla loro opinione pubblica. Invece, un silenzio assoluto. Ed i
guru del giornalismo italiano, tranne qualche eccezione, su questo punto del
passato della Cia, non fanno una bella figura di indipendenza.
A leggere e sentire certi commenti, sembra che sia ormai certo ed assodato
chi siano i responsabili. Invece non lo sappiamo, fino a quando non ci
saranno le documentazioni inoppugnabili. Le inchieste americane in passato
hanno dimostrato che dare in pasto al pubblico il primo facile bersaglio e'
dannoso. Vedi per esempio l'attentato di Oklahoma City, di cui sono stati
accusati gli islamici e poi si e' scoperto che era l'opera di un fanatico di
una setta statunitense. E la lista dei misteri irrisolti potrebbe anche
allungarsi: l'assassinio del presidente Kennedy, di Rabin, di Moro e, per
non dimenticare altri stragi dell'Italia, Piazza Fontana ed Ustica.
La vendetta non serve a nessuno e rischia di perpetuare fino all'infinito il
ciclo della rappresaglia e controrappresaglia. I bombardamenti di Clinton
sull'Afghanistan e sul Sudan nel 1998 non hanno risolto nulla.
La violenza crea violenza e l'odio partorisce odio. E' tempo di spezzare
questa catena. Fortunatamente molti nelle cancellerie europee lo sanno e lo
hanno fatto sentire agli orecchi degli statunitensi, anche se nelle
dichiarazioni pubbliche non confessano perplessita', per non incrinare la
compattezza d'immagine dell'Alleanza. Che nessuno creda che si possano cosi'
facilmente dipanare le divergenze fortissime, palesemente dichiarate alla
conclusione del G8 a Genova neanche due mesi fa, soprattutto in materia di
scudo spaziale.
Noi movimenti per la pace e della solidarieta' possiamo avanzare una
proposta ai signori potenti di questa terra: Voi sostenete che questa e' una
guerra di civilta', tra l'Occidente (cioe' il Nord ricco) e la barbarie
(tutti quelli che non ci stanno a sottomettersi alla logica ed al modo di
vita occidentali, cioe' la maggior parte dei paesi del Sud del Mondo)? Va
benissimo, facciamo finta di credere alla vostra menzogna, ma c'e' una sola
cosa che vi chiediamo e che pensiamo sia l'unica cosa da fare per vincere
questa guerra: smettetela di vendere ed esportare armi a questi paesi, a
tutti i paesi del Medio Oriente (compresa Israele), ai paesi africani,
asiatici e dell'America Latina. Non un solo fucile, non un solo cannone, ne'
un elicottero Apache, ne' un cacciabombardiere F 16 deve essere venduto a
questi governi, eserciti e guerriglieri.
Solo cosi' possiamo vedere uno spiraglio di fiducia in un futuro migliore.
Quell'altro mondo possibile che vogliamo costruire con la solidarieta', la
nonviolenza e la caparbieta' dei lillipuziani.
6. PROPOSTE. PAX CHRISTI: UN'ORA DI SILENZIO PER IL DISARMO E LA PACE
[Pax Christi e' un movimento cattolico impegnato per la pace e la
nonviolenza]
Il 26 settembre i vertici della Nato si riuniscono a Pozzuoli. Quella
riunione costituisce il simbolo della logica della guerra che e' logica di
morte. La cosa di cui sicuramente l'umanita' non ha bisogno. Per questo il
Consiglio nazionale di Pax Christi che si e' riunito nei giorni scorsi
chiede a quanti credono fermamente nella pace di fermarsi in un luogo
pubblico della propria citta' o del proprio quartiere e di distribuire un
testo (volantino) che trovate di seguito. Sara' il modo di dire si' alla
pace ricordando tutte le vittime della logica assurda della guerra, anche
quelle che muoiono di fame mentre i governi delle nazioni ricche investono
somme stratosferiche per acquistare sempre nuovi e sofisticati armamenti.
Chiediamo che il gesto di un'ora di silenzio per il disarmo e la pace sia
fatto contemporaneamente in tante citta' dalle ore 18 alle 19.
Shalom, Tonio Dell'Olio
*
* Questa volta restiamo in silenzio
per denunciare che i potenti della terra hanno cancellato la parola
"disarmo" dal vocabolario della pace.
"Noi per primi vogliamo impegnarci a scelte autentiche e coerenti di pace,
di giustizia e di nonviolenza; anche se avvertiamo il rischio di essere
indicati come disfattisti o amici del nemico perche' non soffiamo sul fuoco
della "giusta ritorsione o della vendetta" (Pax Christi Italia, 18/9/2001).
A chi vuol far dimenticare che la pace si prepara con la pace, ricordiamo
che non ci rassegneremo alla normalita' della guerra, autentica follia.
* Questa volta restiamo in silenzio
per smascherare la tragica mistificazione secondo la quale i soldati sono
portatori di pace e le armi costose e sofisticate strumenti necessari alla
sicurezza.
"Guai a quelli che chiamano il male bene e il bene male,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre,
che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro"
(Is 5, 20).
Alle giovani ed ai giovani che guardano alla carriera militare con
affascinato interesse, ricordiamo che gli eserciti sono la negazione della
pace, perche' nati per fare la guerra.
* Questa volta restiamo in silenzio
per dire "no" alla logica della ritorsione e della vendetta, che e'
esattamente quella che sta insanguinando la storia e che trasforma molte
nostre citta', gia' ferite per la crescente militarizzazione, in altrettanti
bersagli di morte.
Solo la nonviolenza potra' salvarci dalla distruzione.
"Se il tuo nemico ha fame, dagli del cibo; se ha sete, dagli da bere:
facendo cosi', accumulerai carboni accesi sul suo capo. Non lasciarti
vincere dal male, ma vinci il male col bene" (Rm 12, 20-21).
A chi organizza, appoggia e partecipa ad una nuova guerra ricordiamo che
un'alleanza di pochi Paesi potenti non puo' farsi giustizia da se', ma e'
l'Onu che va valorizzata nella sua funzione di regolazione dei conflitti. Il
terrorismo si persegue con il diritto, non con un terrore piu' grande.
* Questa volta restiamo in silenzio
per ricordare la voce profetica inascoltata del "popolo della pace" che
annuncia:
"Nessun re puo' salvarsi
con la moltitudine dei suoi soldati"
(Salmo 33,16).
Ai signori della guerra, ai rappresentanti della Nato, ricordiamo che la
sicurezza di un popolo non e' garantita dalla potenza bellica che riesce ad
esprimere, ne' dagli "scudi" che potra' innalzare nei cieli, ma da una
politica di giustizia e da un'economia di uguaglianza. Quanto e'
drammaticamente vero questo: ce lo rammentano, purtroppo, le innumerevoli
vittime del terrorismo, delle stupide bombe intelligenti e delle cosiddette
guerre umanitarie, che ci ritroviamo troppo spesso a piangere.
26 settembre 2001 ore 18-19: un'ora di silenzio per il disarmo e la pace.
Pax Christi - movimento cattolico internazionale per la pace - sezione
italiana.
Unisciti a noi.
Pax Christi Italia, segreteria nazionale, via Petronelli 6, 70052 Bisceglie
(BA), tel. 0803953507, fax: 0803953450, e-mail: info@paxchristi.it, sito:
www.paxchristi.it, o anche: www.peacelink.it/users/paxchristi/
7. RIFLESSIONE. DAVIDE MELODIA: SULLA DISOBBEDIENZA CIVILE
[Davide Melodia, amico della nonviolenza, quacchero, e' tra i principali
collaboratori di questo foglio; per contatti: melody@libero.it]
La disobbedienza civile parte, di norma, quando e' seria, coerente, compresa
dal disobbediente, e comprensibile per l'avversario e per la gente, dal
singolo.
Perche'? Perche' e' il singolo, possibilmente convinto nonviolento, che non
concorda con i contenuti di una certa legge, che considera illiberale, e
decide di lottare contro di essa.
Tale singolo non la ripudia con leggerezza, e non disobbedisce tout court,
ne' a quella legge ne' tantomeno a tutto il codice, ma si batte contro la
forma e il contenuto di quella legge iniziando con scritti, dibattiti,
convegni, dimostrazioni, con confronti e proposte nelle sedi opportune,
affinche' sia cambiata o superata.
E' qui che comincia il travaglio per trascinare altri a lottare al suo
fianco, prima sul piede legale, poi perfino su un piano di violazione di
quella legge, pronto, in prima persona, o con altri, a pagare il prezzo
della disobbedienza a quella legge.
Se lo arrestano non oppone resistenza, non insulta, non spacca tutto. Dal
carcere fa sentire in qualche modo la sua voce, e continua a seminare i
valori che lo hanno spinto a disobbedire.
Non e' quindi una disobbedienza generale, ne' generalizzata, non e'
chiassosa ne' confusa, non e' violenta, ne' verso le persone fisiche ne'
verso le cose.
E' una disobbedienza civile, e intelligente, che cerca, in modo
relativamente anomalo, di costruire qualcosa di moralmente e socialmente
piu' alto di cio' che si vuole imporre alla comunita' - non di distruggere.
So che c'e' poco tempo per tradurre una tale disobbedienza civile
nonviolenta da individuale a popolare, ma non si puo' avviarsi ad una
mobilitazione contro le aspirazioni e le intenzioni belliche di certi Paesi
e gruppi politici e sociali senza la dovuta preparazione.
Se la disobbedienza civile non avra' basi profondamente serie e intimamente
connesse con la nonviolenza, puo' essere spazzata via e dai violenti e dalla
calunnia.
8. DOCUMENTI. 11 SETTEMBRE 2001: ANCHE OGGI 35.615 BAMBINI SONO MORTI PER
FAME
[Questo testo, di cui ignoriamo l'autore, e' stato diffuso (in lingua
francese e dando come riferimento http://users.skynet.be/aden-news/ che a
sua volta lo presenta come intervento ricevuto), da "Sondagenova". La
traduzione italiana e' nostra]
11 settembre 2001
Anche oggi
35.615 bambini
sono morti per fame.
Vittime: 35.615 (Fao)
Luogo: i paesi poveri del pianeta
Edizioni speciali dei telegiornali: zero
Articoli sulla stampa: zero
Messaggi del presidente della repubblica: zero
Convocazione di unita' di crisi: zero
Manifestazioni di solidarieta': zero
Minuti di silenzio: zero
Commemorazioni delle vittime: zero
Social forum organizzati: zero
Messaggi del papa: zero
Le borse: niente male
L'euro: in ripresa
Livello d'allarme: zero
Mobilitazione dell'esercito: zero
Ipotesi sull'identita' dei criminali: nessuna
Probabili mandanti del crimine: i paesi ricchi.
9. LETTURE. ENRICO CHIAVACCI: LEZIONI BREVI DI ETICA SOCIALE
Enrico Chiavacci, Lezioni brevi di etica sociale, Cittadella, Assisi 1999,
pp. 128, lire 16.000. In forma piana ed agile l'illustre teologo morale
ripercorre ed esamina alcuni nodi decisivi della societa', dell'economia,
della cultura, della politica.
10. LETTURE. ALBERTO L'ABATE (A CURA DI), GIOVANI E PACE
Alberto L'Abate (a cura di), Giovani e pace, Pangea, Torino 2001, pp. 304,
lire35.000. Una prima parte sulla ricerca come educazione alla pace, ed una
seconda di esperienze e proposte di formazione. Un utile strumento di
lavoro.
11. LETTURE. FRANCESCO SUSI (A CURA DI), COME SI E' STRETTO IL MONDO
Francesco Susi (a cura di), Come si e' stretto il mondo, Armando, Roma 1999,
pp. 352, lire 38.000. Un utilissimo libro su "l'educazione interculturale in
Europa: teorie, esperienze e strumenti". Con un capitolo
sull'interculturalita' in rete.
12. MATERIALI. ROBERTO TECCHIO: IL LABORATORIO DI RICERCA E FORMAZIONE SULLA
GESTIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI (PARTE QUINTA)
[Ringraziamo Roberto Tecchio, formatore alla gestione nonviolenta dei
conflitti, per averci messo a disposizione questo testo. Proseguiamo oggi la
pubblicazione delle schede utilizzate nel laboratorio; il seguito
pubblicheremo nei prossimi giorni. Per contatti: trestele@tiscalinet.it]
Scheda teorica n. 6
Parte 2. Gestione, Trasformazione e Risoluzione dei Conflitti.
"Quasi tutti gli uomini muoiono per i rimedi che usano piu' che per le loro
malattie" (Moliere).
In base alla nostra mappa sappiamo che in una situazione conflittuale
dobbiamo saper riconoscere prontamente le componenti del disagio e del
problema. La gestione positiva del disagio e' il primo passaggio per la
gestione nonviolenta del conflitto, perche' non e' possibile affrontare
alcun problema quando di mezzo ci sono forti emozioni, le quali diventano il
"vero problema".
2.1. Gestire il disagio: accettare sentimenti spiacevoli e pensieri
negativi.
"L'odio non si combatte con l'odio. L'odio si combatte solo con l'amore.
Questa e' una legge antica ed eterna".
Seguendo questo famoso detto (patrimonio comune a tutte le tradizioni
spirituali e fondamento della nonviolenza), diciamo subito che gestire
positivamente il disagio non vuol dire cercare di eliminarlo, bensi'
prendersene cura affiancando ad esso qualcosa di positivo. Cio' consiste in
un lavoro di attento riconoscimento e sincera accettazione del disagio
stesso. In pratica si tratta di creare, attraverso l'esercizio della
consapevolezza, uno spazio interiore di sufficiente calma e fiducia che ci
permetta di osservare sia le sensazioni fisiche degli stati emotivi che ci
abitano in certi momenti, sia i pensieri che vi si associano e che si
producono quasi indipendentemente dalla nostra volonta' seguendo schemi
fissi e ricorrenti. Cosi' siamo piu' in contatto col momento presente che
essendo percepito con occhi diversi ci porta a pensare diversamente e quindi
a intravvedere nuove possibilita' di azione piu' rispondenti alla situazione
reale.
Non si tratta dunque di far sparire la rabbia o la paura dalla nostra
esistenza (ammesso che sia possibile), ma di saperle accogliere in uno
spazio interiore abbastanza ampio e forte per cui puo' avvenire una
trasformazione del disagio che sembra incredibile: il disagio c'e', continua
ad esserci, ma e' diverso da prima e... non mi mette a disagio! Come dire:
"in me c'e' la rabbia, ma non sono arrabbiata; c'e' la paura, ma non sono
impaurita". E' come mettere un cucchiaio di sale in un bicchiere d'acqua
oppure in una grande vasca: la quantita' di sale e' la stessa (il Disagio),
quello che cambia e' l'ampiezza del contenitore (noi stessi, il nostro
spazio interiore), e di conseguenza anche il sapore dell'acqua sara' ben
diverso (cioe' i risultati a livello personale e sociale) (1).
La disidentificazione dalle proprie emozioni apre spazi di liberta' e
creativita' prima impensabili, portando per altro a una conoscenza diretta e
piu' profonda di noi stessi che genera una speciale forza interiore. Cosi'
cio' che facciamo in un conflitto o in una relazione difficile non e'
dettato da modelli di comportamento nonviolento (o di altro tipo) a cui si
cerca di aderire forzatamente e innaturalmente, ma da cio' che in quel
momento ci sembra giusto fare a partire dalla nostra "comprensione" del qui
e ora. L'azione nonviolenta nasce dalla comprensione della realta' che siamo
e che viviamo, e non dalla volonta' di essere nonviolenti.
2.2. Gestire i problemi: ristrutturare le percezioni, inventare soluzioni.
Con il precedente punto 1.6. abbiamo introdotto questo argomento: ora
proviamo a individuare e riassumere alcuni passaggi chiave che ci aiutino
nella gestione pratica dei problemi.
a) Distinguere le persone dai problemi e concentrarsi sui problemi.
Quando si affrontano i problemi un aspetto che si tende a dimenticare e' che
dall'altra parte ci sono esseri umani che hanno sentimenti, valori,
convinzioni profondamente radicate, esattamente come noi. Ognuno ha un io
che e' sensibile e che facilmente puo' sentirsi minacciato, e un io
minacciato pensa soprattutto a difendersi. Dunque e' fondamentale rimanere
aderenti ai fatti, ai termini concreti del problema, "attaccando" le idee e
le argomentazioni anche molto fermamente se necessario, ma rimanendo al
contempo vicini, rispettosi, morbidi, "accettanti" verso le persone, cioe'
"duri col problema, morbidi con le persone".
b) Distinguere i bisogni dalle soluzioni e concentrarsi sui bisogni prima
che sulle soluzioni.
Nell'affrontare i problemi si dimentica che il cuore delle questioni non si
trova nelle posizioni di partenza (in genere contrapposte), ma nei bisogni,
preoccupazioni e convinzioni che stanno sotto tali posizioni, cioe' in
quelli che alcuni chiamano i "fondamenti" dei problemi (2).
Per esempio spesso si discute (e si litiga) su delle proposte di soluzione
dei problemi senza avere adeguatamente scandagliato quali sono i bisogni in
gioco: le soluzioni rappresentano infatti la risposta a dei bisogni e lo
stesso bisogno puo' essere soddisfatto in tanti modi diversi. Se ci si fissa
su certe idee (in genere le proprie) diventa impossibile negoziare
costruttivamente. Rimanere aggrappati alle proprie idee per risolvere un
problema e' un'abitudine frequente piuttosto distruttiva, soprattutto nelle
situazioni di convivenza. D'altra parte abbandonare un'idea non significa
per forza abbandonare i propri principi, o rinunciare ai propri bisogni, ma
semplicemente tentare altre strade. Solo orientandosi verso la ricerca dei
bisogni condivisi si creano le condizioni per trovare soluzioni cooperative
che aprono verso il comune cammino. Naturalmente si puo' anche decidere di
andare per la propria strada, ma a volte questo non e' possibile e spesso i
conflitti si sviluppano all'interno di relazioni dove l'alternativa alla
convivenza, in un dato momento, e' praticamente impossibile.
c) Inventare soluzioni: il "programma costruttivo".
Una volta individuati i fondamenti dei problemi e i bisogni comuni e'
necessario dedicare un tempo adeguato alla ricerca di soluzioni vantaggiose
per tutti: cio' a volte comporta il dover uscire da vecchi schemi mentali, e
la cosa in genere e' assai difficile e faticosa. Qui la fantasia,
l'intelligenza e l'esperienza sono tra le risorse primarie: a volte infatti
si tratta di inventare soluzioni assolutamente originali. Non identificarsi
(ne' identificare l'altro) con le proprie idee di soluzione facilita
moltissimo la ricerca di soluzioni migliori (3).
d) Comunicare in modo costruttivo ed efficace.
Come abbiamo visto la comunicazione occupa un posto centrale nella gestione
nonviolenta dei conflitti: tutto quanto sopra detto passa, in pratica,
attraverso la capacita' di comunicare in modo adeguato e coerente. Da cio'
deriva la grande utilita' delle cosiddette tecniche di comunicazione,
ricordando pero' che le tecniche funzionano nella misura in cui partono dal
"cuore" e dalla "comprensione", cioe' sono ispirate da quell'atteggiamento
di fondo di "accettazione e amore" che caratterizza l'approccio nonviolento.
1. Questa acutissima osservazione e' di Charlotte Joko Beck, maestra Zen
statunitense, citata da C. Pensa in un articolo su "Paramita" n. 64 (rivista
di buddismo per la pratica e il dialogo interreligioso). La Joko Beck ha
scritto in proposito due bellissimi libri: lo Zen quotidiano, e Niente di
speciale, editi da Ubaldini. Sul lavoro con gli stati emotivi vedi anche le
opere citate di C. Pensa, T. N. Hanh, e D. Goleman.
2. Vedi Pat Patfoort, antropologa belga da molti anni impegnata nella
formazione e nella mediazione nonviolenta dei conflitti, in Costruire la
nonviolenza: per una pedagogia dei conflitti, La Meridiana.
3. Nell'approccio nonviolento l'insieme delle proposte di soluzione viene
chiamato "programma costruttivo" e rappresenta uno dei fondamenti del
satyagraha (il metodo gandhiano di lotta all'ingiustizia praticabile sia in
famiglia, sia tra nazioni). Il programma e' definito costruttivo perche'
include sempre la possibilita' di sviluppare una relazione costruttiva con
l'Altro. Oltre a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit, vedi
Antigone e Creonte, di Giuliano Pontara, che spiega il satyagraha in modo
molto chiaro con un testo agile e breve.
(Continua)
13. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA PAUL RICOEUR AD ANGELO
MARIA RIPELLINO
* PAUL RICOEUR
Profilo: filosofo francese nato nel 1913. Amico di Mounier, collaboratore di
"Esprit", docente universitario. Dal sito dell'Enciclopedia multimediale
delle scienze filsofiche rirpendiamo questa breve scheda: "Paul Ricoeur
nasce a Valence (Drome) il 27 febbraio 1913. Compie i suoi studi di
filosofia prima all'Universita' di Rennes, poi alla Sorbonne, dove nel 1935,
passa l'agregation. Mobilitato nel 1939, viene fatto prigioniero e nel campo
comincia a tradurre con Mikel Dufrenne Ideen I di Husserl. Dal 1945 al 1948
insegna al College Cevenol di Chambon-sur-Lignon, e successivamente
Filosofia morale all'Universita' di Strasburgo, sulla cattedra che era stata
di Jean Hyppolite, e dal 1956 Storia della filosofia alla Sorbona. Amico di
Emmanuel Mounier, collabora alla rivista "Esprit". Dal 1966 al 1970 insegna
nella nuova Universita' di Nanterre, di cui e' rettore tra il marzo 1969 e
il marzo 1970, con il proposito di realizzare le riforme necessarie a
fronteggiare la contestazione studentesca e, contemporaneamente, presso la
Divinity School dell'Universita' di Chicago. Nel 1978 ha realizzato per
conto dell'Unesco una grande inchiesta sulla filosofia nel mondo. Nel giugno
1985 ha ricevuto il premio "Hegel" a Stoccarda. Attualmente e' direttore del
Centro di ricerche fenomenologiche ed ermeneutiche". Opere di Paul Ricoeur:
segnaliamo i suoi libri Karl Jaspers et la philosophie de l'existence (con
Mikel Dufrenne), Seuil; Gabriel Marcel et Karl Jaspers, Le temps présent;
Filosofia della volontà I. Il volontario e l'involontario, Marietti; Storia
e verità, Marco; Finitudine e colpa I. L'uomo fallibile, Il Mulino;
Finitudine e colpa II. La simbolica del male, Il Mulino; Della
interpretazione. Saggio su Freud, Jaca Bok, poi Il Melangolo; Entretiens
Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier; Il conflitto delle interpretazioni,
Jaca Book; La metafora viva, Jaca Book; Tempo e racconto I, Jaca Book; Tempo
e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book; Tempo
e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book; Dal testo all'azione. Saggi
di ermeneutica II, Jaca Book; Il male. Una sfida alla filosofia e alla
teologia, Morcelliana; A l'école de la fénoménologie, Vrin; Sé come un
altro, Jaca Book; Lectures 1. Autour du politique, Seuil; Lectures 2. La
contrée des philosophes, Seuil; Lectures 3. Aux frontières de la
philosophie, Seuil; Le juste, Esprit; Réflexion faite. Autobiographie
intellectuelle, Esprit; La critica e la convinzione (colloqui con François
Azouvi e Marc de Launay), Jaca Book. Segnaliamo inoltre: Kierkegaard. La
filosofia e l'«eccezione», Morcelliana; Tradizione o alternativa,
Morcelliana, e l'antologia Persona, comunità e istituzioni, ECP.
* GIOVANNA RICOVERI
Profilo: intellettuale italiana della sinistra critica, collaboratrice di
James O'Connor, particolarmente impegnata sui temi dell'ecologia e della
critica del modello di sviluppo dominante.
* JEREMY RIFKIN
Profilo: economista americano, presidente della Foundation on economic
trends di Washington. Opere di Jeremy Rifkin: Dichiarazioni di un eretico,
Guerini e associati, Milano 1988; Entropia, Interno Giallo, Milano 1992;
Guerre del tempo, Bompiani, Milano 1989; La fine del lavoro, Baldini &
Castoldi, Milano 1995; Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano 1998.
* FRANCOIS RIGAUX
Profilo: belga, nato nel 1926, giurista, magistrato, docente universitario,
presidente della Fondazione Lelio Basso e del Tribunale Permanente dei
Popoli. Opere di François Rigaux: segnaliamo particolarmente La Carta di
Algeri, ECP, S. Domenico di Fiesole 1988.
* MARIO RIGONI STERN
Profilo: nato ad Asiago nel 1921, nella seconda guerra mondiale prese parte
alla campagna di Russia, di cui ha lasciato una forte testimonianza. Opere
di Mario Rigoni Stern: fondamentale è Il sergente nella neve.
* CLAUDIO RIOLO
Profilo: nato ad Agrigento nel 1951, militante politico e studioso. Opere di
Claudio Riolo: L'identità debole, La Zisa, Palermo 1989.
* ANGELO MARIA RIPELLINO
Profilo: straordinaria figura di umanista, nato a Palermo nel 1923 e defunto
a Roma nel 1978, poeta in verso e in prosa, in scritti creativi e
saggistici, di tutto curioso a nulla estraneo, era l'uomo della celebre
massima di Terenzio. Opere di Angelo Maria Ripellino: una silloge dai volumi
di versi è ora Poesie (1952-1978); tra i saggi: Majakovskij; Il trucco e l'
anima; Letteratura come itinerario nel meraviglioso; Praga magica; tutti
presso l'editore Einaudi.
14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
15. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it ;
angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 235 del 21 settembre 2001