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La nonviolenza e' in cammino. 225



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 225 dell'11 settembre 2001

Sommario di questo numero:
1. Per una cultura antimafia: l'esempio di Giuseppe Puglisi (con testi di
Umberto Santino, Saverio Lodato, Luigi Ciotti)
2. Massimo Bricocoli, Marianella Sclavi: sicurezza urbana, gestione dei
conflitti ed esperienze di formazione della Polizia Municipale (parte
seconda)
3. Marina Forti intervista Joseph Ki-Zerbo
4. Ida Dalia, come la vita
5. Imma von Bodmershof, il vecchio melo
6. Hildegard Maria Binder, i diciannovenni
7. Per studiare la globalizzazione: da Gino Piccio a Harold Pinter
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. PER UNA CULTURA ANTIMAFIA: L'ESEMPIO DI GIUSEPPE PUGLISI (CON TESTI DI
UMBERTO SANTINO, SAVERIO LODATO, LUIGI CIOTTI)
[Riproponiamo qui una scheda che redigemmo e diffondemmo lo scorso anno.
Giuseppe Puglisi, sacerdote cattolico, dal 1990 fu alla guida della
parrocchia di san Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, un quartiere
dominato dal potere mafioso. Dal 1990 al 1993 un impegno sereno e
inflessibile per i diritti e la dignita', per aiutare chi ha bisogno e
promuovere la civile convivenza. La sera del 15 settembre 1993, mentre
rincasava, con un colpo di pistola alla tempia un killer mafioso lo uccide.
Opere su Giuseppe Puglisi: F. Anfossi, Puglisi. Un piccolo prete tra i
grandi boss, Edizioni Paoline, Milano 1994; F. Deliziosi, «3 P». Padre Pino
Puglisi. La vita e la pastorale del prete ucciso dalla mafia, Edizioni
Paoline, Milano 1994; Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia. Inchiesta
sulle chiese di frontiera, Rizzoli, Milano 1994. Segnaliamo anche i
contributi (molto interessanti) pubblicati in "Una citta' per l'uomo", nel
fascicolo 4/5 dell'ottobre 1994 e nel fascicolo 1/2 dell'aprile 1995]
Tra l'8 e il 10 maggio 1993 il papa visita la Sicilia occidentale: ad
Agrigento, dinanzi a centomila fedeli, tiene un forte discorso contro la
mafia.
Vi era già stato undici anni prima, nel novembre 1982, dopo le uccisioni di
Pio La Torre in aprile e di Carlo Alberto dalla Chiesa in settembre; dopo l'
omelia "di Sagunto" del cardinal Pappalardo che divenne quasi una bandiera e
un grido di battaglia: ma allora nei discorsi effettivamente pronunciati da
Giovanni Paolo II la parola "mafia" non comparve mai; i brani del testo
diffuso alla stampa in cui si faceva riferimento alla mafia non vennero
letti, ufficialmente per motivi di tempo.
Ma il 9 maggio 1993, sotto il tempio della Concordia nella Valle dei templi
di Agrigento, la voce di Wojtyla risuonò alta e forte: "Dio ha detto: non
uccidere! L'uomo, qualsiasi agglomerazione umana o la mafia, non può
calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di questo Cristo
crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, lo dico ai responsabili,
lo dico ai responsabili: convertitevi! Per amore di Dio. Mafiosi
convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto
delle vostre malefatte".
Don Pino Puglisi, parroco nel quartiere Brancaccio, che giorno per giorno
contendeva alla mafia quel lembo di terra, quel pezzo di società, le anime
(sia consentito a noi laici usare tal termine per intendere: la dignità e i
diritti) e le vite  della gente, della sua gente, sì, don Pino Puglisi si
sarà sentito confortato ed orgoglioso per le parole del papa.
La mafia, invece, non ama le parole, soprattutto non ama quella parola che
la designa e l'accusa. Anche la Chiesa, avrà ruminato qualcuno, non era più
quella di una volta. Quella di una volta era quella dell'eminenza
reverendissima il cardinal Ruffini e della sua lettera pastorale  del 1964
dal titolo Il vero volto della Sicilia.
Ma c'era, c'era sempre stata, anche un'altra chiesa: anzi, altre chiese, che
per affermare i valori attestati dalla loro religione contro la mafia si
erano battute ed avrebbero continuato a farlo, a costo del martirio. E
questa altra tradizione ora emergeva e trovava ad un tempo ascolto e voce
nelle parole del pontefice cattolico.
(E sia detto qui solo per inciso, non essendo questo il luogo per sviluppare
un così impegnativo tema: nella chiesa cattolica avrebbero naturalmente
continuato a scontrarsi culture diverse e posizioni fin opposte: il costante
sostegno vaticano ad Andreotti, ad esempio, pare a noi confliggere
flagrantemente con la testimonianza dei cristiani impegnati contro la
mafia).
*
Don Pino Puglisi era parroco di san Gaetano, a Brancaccio, dal 1990. Ed
aveva fatto la sua scelta. L'aveva fatta con naturalezza, per coerenza, per
convinzione, perché era un prete, ed era naturale che un prete facesse certe
cose e non altre: che cercasse di alleviare le sofferenze della gente
intorno a lui, che si impegnasse per realizzare servizi educativi e sociali;
che indirizzasse al vero ed al bene; che si prendesse cura degli ultimi. E
che denunciasse il male; che contrastasse il male; che non scendesse a patti
col male. Una persona normale, un prete come si deve. Ma era a Brancaccio.
Perché Brancaccio è la borgata in cui quando lo Stato decide di aprire un
commissariato di pubblica sicurezza, a quarantott'ore dall'inaugurazione la
mafia lo fa saltare in aria. Perché a Brancaccio, ottomila abitanti, non ci
deve essere né la scuola media né il cinema né la palestra, perché a
Brancaccio sia chiaro a tutti: qui è la mafia che comanda, qui essa esercita
la sua signoria territoriale.
E questo piccolo parroco cosa fa? Proprio quella le contende: contende alla
mafia la signoria territoriale, contende alla mafia la risorsa decisiva,
contrasta alla mafia il territorio, si pone nei fatti come contropotere,
organizza la vita civile. Facendo le cose semplici, le cose logiche, le cose
normali, fa la rivoluzione. A Gomorra don Pino Puglisi porta la Sierra
Maestra. Tre anni di insurrezione evangelica, tre anni di rivoluzione delle
coscienze, tre anni di lotta per la scuola e per l'assistenza, per i bisogni
e per i servizi, per i diritti e per la luce, per il pane e le rose. La
dittatura mafiosa lo ferma il 15 settembre 1993.
*
E' uno dei tanti paradossi di questa vicenda pirandelliana e kafkiana che è
la lotta per la vita e per la morte tra la mafia e l'umanità, il fatto che
da assassinato don Pino Puglisi venga riconosciuto: la sua morte lumeggia
(certo: di tragica, gelida luce) la sua vita e la sua azione: si capisce
adesso quanto efficace fosse quella tenace costante testarda lotta fatta di
piccole cose semplici, di quotidiani gesti netti, di sollecitudine per gli
altri, di attenzione ai bisogni concreti; si capisce adesso la vittoria
grande che Pino Puglisi aveva costruito giorno per giorno senza impettite
parate, senza proclami e senza spot, senza le arti del truccatore e dei
tecnici del suono e delle luci; si capisce adesso che nel quartiere
Brancaccio un uomo, senza parere, facendo le cose ovvie e minute, stava
rompendo il consenso alla mafia, stava organizzando la Resistenza, ogni
giorno una barricata, ogni giorno un Gavroche. Il 15 settembre uccisero don
Pino Puglisi e ci fecero conoscere la sua lotta e la sua strategia, ci
fecero sapere che un prete li aveva sconfitti e umiliati proprio lì, sul
piazzale dell'appello. Uccidendolo ci rivelarono un segreto: che saranno gli
uomini di pace, quelli del discorso della montagna, che spezzeranno la
dittatura mafiosa.
*
Un estratto da: Umberto Santino, Storia del movimento antimafia
Il 15 settembre 1993 nel quartiere Brancaccio, roccaforte storica della
mafia, veniva ucciso il parroco della chiesa di San Gaetano, Giuseppe
Puglisi. L'omicidio arriva dopo una serie di intimidazioni, di minacce per
telefono e attentati incendiari. Alla fine di maggio era stato incendiato un
furgone dell'impresa Balistreri di Bagheria che aveva vinto l'appalto per la
ristrutturazione della chiesa (i mafiosi considerano l'imprenditore un
intruso). Alla fine di giugno era stato appiccato il fuoco alle porte delle
case di abitazione di tre rappresentanti del comitato intercondominiale del
quartiere. Alle minacce padre Puglisi aveva risposto con serenità nelle sue
prediche in chiesa: "Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i
motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri
bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e
dello studio". La sua azione nel quartiere era discreta ma decisa, senza
scoop ma continua. "Questa è la borgata più dimenticata della
città -diceva-. Non ha una scuola media, niente asilo e nemmeno consultorio
o centro sociale comunale" e si dava da fare per dotare il quartiere di quei
servizi elementari, formando un comitato, scontrandosi con la burocrazia
comunale. Aveva creato il Centro sociale "Padre nostro", in cui operavano
alcune suore e dei volontari. Questo impegno quotidiano, poco appariscente
ma instancabile, lo ha portato a scontrarsi con il dominio mafioso, che si è
sentito messo in discussione, scalzato, e per imporsi ha fatto ricorso all'
assassinio.
Padre Puglisi, rispetto ai cosiddetti "preti antimafia", si potrebbe
definire un moderato, un prete all'antica che per la serietà del suo impegno
si è trovato in prima linea e davanti agli ostacoli più pericolosi non è
retrocesso di un millimetro. Una figura simile a quella di monsignor Romero,
il vescovo salvadoregno inizialmente spoliticizzato che poi si è opposto con
tutto se stesso alle violenze degli squadroni della morte fino al sacrificio
della vita.
La reazione suscitata dall'omicidio di padre Puglisi è stata intensa ma
tutto sommato inadeguata. Alcuni preti hanno scritto al Papa chiedendogli
"un forte segno della sua presenza tra noi come conferma e guida in questo
cammino difficile ed ogni giorno più rischioso", ma il Papa non è ritornato,
se non due anni dopo per il convegno nazionale delle chiese tenutosi a
Palermo nel novembre del 1995.
Si può dire che, al di là dell'emozione del momento, non si è colta la
valenza del delitto, che era rivolto contro quel tipo d'impegno, vissuto
quotidianamente in contatto con il territorio, quindi non solo contro gli
uomini di Chiesa più attivi ma contro tutta la società civile. La Curia non
si è costituita parte civile al processo, e non lo hanno fatto neppure la
parrocchia e il Centro "Padre nostro". Hanno tentato di costituirsi parti
civili alcune associazioni ma la loro richiesta è stata respinta.
[Estratto da Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori
Riuniti, Roma 2000, pp. 307-308. L'autore, fondatore e direttore del Centro
Impastato di Palermo, è il più importante studioso della mafia ed uno dei
principali protagonisti del movimento antimafia. Segnaliamo che la
"Associazione intercondominiale quartiere Brancaccio" ha annunciato la sua
costituzione come parte civile in occasione del dibattimento fissato per il
23 ottobre prossimo; cfr. l'articolo di Pino Martinez in "La nonviolenza e'
in cammino" n. 219 del 5 settembre scorso].
*
Un estratto da: Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia
Sembrava (...) che nessun potere avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare i
clan di Brancaccio, sin quando nella parrocchia di san Gaetano, al centro
della borgata, non giunse un parroco apparentemente piccolo piccolo. Si
chiamava Pino Puglisi.
Don Pino è stato l'unica autentica spina nel fianco, per boss che non
avevano mai incontrato sul loro cammino un oppositore vero, uno che avesse
il coraggio di guardarli negli occhi. Ho già avuto modo di dirlo: per noi
giornalisti, sino al giorno della sua tragica scomparsa, don Pino Puglisi
era un illustre sconosciuto. Non avevamo idea di quanto fosse prezioso il
lavoro sotterraneo che stava conducendo in una delle borgate a più alta
densità mafiosa di tutta la città. Non lo tenevamo d'occhio perché raramente
aveva fatto parlare di sé e mai aveva fatto notizia. (...) Chi era veramente
quel prete apparentemente piccolo piccolo?
Testimonianze ne ho raccolte tante, e sono concordanti. Tutti quelli che lo
hanno conosciuto lo descrivono come umile, dolcissimo, ma anche capace di
usare il pugno di ferro. Non accettava imposizioni. Rifiutava le situazioni
ambigue giustificate da una lunga pressi che nessuno, prima di lui, aveva
osato mettere in discussione. Si ribellava, con lo stesso spirito
combattivo, sia alle spaventose condizioni di vita degli abitanti della sua
parrocchia, sia a tutti quei gruppi organizzati che, a vario titolo, avevano
interesse al mantenimento della palude. Era giunto a Brancaccio nel 1990.
Nei tre anni trascorsi alla guida di san Gaetano non fece mai nulla per
mantenere le vecchie regole del gioco. Fece di tutto per sovvertirle.
[Brani estratti da Saverio Lodato, Dall'altare contro la mafia, Rizzoli,
Milano 1994, pp. 133-135. Questo libro è opera di uno dei giornalisti che
più hanno contribuito ad una informazione corretta ed alla lotta contro il
potere mafioso; Lodato è autore tra l'altro di un libro molto noto, cronaca
giornalistica che si avvicina alla storiografia, che nella sua più recente
edizione aggiornata si intitola Venti anni di mafia, Rizzoli, Milano 2000.
Nell'introduzione di Dall'altare contro la mafia, Lodato scrive (alle pp.
12-13): "Questo libro che avete appena cominciato a leggere parlerà solo di
un delitto: l'uccisione di padre Pino Puglisi, parroco della borgata
Brancaccio a Palermo"].
*
Luigi Ciotti: La parabola di don Pino
"Entrato nella città di Gerico, Gesù la stava attraversando" (Lc 19, 1).
Gesù percorreva quelle strade attento non soltanto a incontrare la folla che
gli era attorno, ma anche chi, a causa della ressa, non riusciva a vederlo:
Zaccheo. Un Gesù che attraversa le strade del suo tempo è, probabilmente, il
più bel ricordo di don Giuseppe Puglisi ucciso a Palermo esattamente un anno
fa, nel giorno del suo compleanno.
Lo hanno ucciso in "strada". Dove viveva, dove incontrava i "piccoli", gli
adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la
propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e
violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così
radicale di abitare la "strada" e di esercitare il ministero del parroco è
scomodo. Lo hanno ucciso nell'illusione di spegnere una presenza fatta di
ascolto, di denuncia, di condivisione. Ricordare quel momento significa non
soltanto "celebrare", ma prima di tutto alzare lo sguardo, far nostro l'
impegno di don Giuseppe, raccogliere quell'eredità con la stessa
determinazione, con identica passione e uguale umiltà.
Cosa ci ha consegnato don Giuseppe? Innanzitutto il suo modo di intendere e
di vivere la parrocchia, di essere parroco. Non ha pensato, infatti, la
parrocchia unicamente come la "sua" comunità di fedeli, come comunità di
credenti slegata dal contesto storico e geografico in cui è inserita. L'ha
vissuta, prima di tutto, come territorio, cioè come persone chiamate a
condividere uno spazio, dei tempi e dei luoghi di vita. Per partecipare alla
vita di chi gli era vicino ha accettato di percorrere e ripercorrere le
strade del rione Brancaccio. Ha vissuto la strada -quella strada che Gesù ha
fatto sua- come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e
di domande in continua trasformazione. L'ha abitata così e ha tentato, a
ogni costo, di restarvi fedele. In altre parole, ha incarnato pienamente la
povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in
parrocchia. Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti
vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi
rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello
"stare" nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami.
"Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei
cieli" (Mt 5, 10). Anche questo ci ha consegnato don Giuseppe: una grande
passione per la giustizia, una direzione e un senso per il nostro essere
Chiesa e soprattutto un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo
sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi per perseguire quella
giustizia e quella legalità che tutti, a parole, desideriamo. Per questo don
Giuseppe è morto: perché con l'ostinata volontà del cercare giustizia è
andato oltre i confini della sua stessa comunità di credenti.
"Entrato in casa di uno dei capi dei farisei, Gesù..." (Lc 14, 1). Ecco un
altro aspetto ricco di significati. Al di là dei princìpi o delle roboanti
dichiarazioni ciò che conta è la capacità di viverli e di praticarli nella
quotidianità. Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua
chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro
genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i
problemi assumono la dimensione più vera.
Tre dimensioni, tre consegne e tre aspetti che rendono questa ricorrenza
estremamente ricca e significativa. Tre messaggi perché le nostre parrocchie
e quanti in esse lavorano possano essere sostenuti con gli strumenti
necessari.
[Questo testo è apparso dapprima nel quotidiano "Avvenire" il 15 settembre
1994, poi è stato ristampato in Luigi Ciotti, Persone, non problemi,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, pp. 72-73; da lì lo abbiamo ripreso. Don
Luigi Ciotti, come è noto, è il fondatore del Gruppo Abele di Torino, ed il
presidente di "Libera", l'associazione di associazioni impegnate contro la
mafia].

2. ESPERIENZE. MASSIMO BRICOCOLI, MARIANELLA SCLAVI: SICUREZZA URBANA,
GESTIONE DEI CONFLITTI ED ESPERIENZE DI FORMAZIONE DELLA POLIZIA MUNICIPALE
(PARTE SECONDA)
[Siamo assai grati a Marianella Sclavi, che da anni conduce un'esperienza di
formazione con la polizia municipale di Milano, per averci messo a
disposizione queso testo, dal titolo originale "Etnografia della sicurezza
urbana. Il ruolo dell'ascolto attivo e della gestione creativa dei conflitti
nella amministrazione del territorio", gia' apparso nell'"Archivio di studi
urbani e regionali", n. 68 del 2000. Pubblichiamo oggi la seconda parte del
saggio, l'ultima parte pubblicheremo domani.
Massimo Bricocoli e' impegnato nella ricerca-azione sulla sicurezza urbana e
nella formazione della Polizia Municipale.
Marianella Sclavi e' docente universitaria al Politecnico di Milano, e'
antropologa, e si occupa di progettazione urbana partecipata e di formazione
della Polizia Municipale a Milano. Per contatti: msclavi@libero.it]
* Terza Storia. Meno multe, più conversazioni.
Massimo: Quella di Largo Marinai d'Italia e' un'area verde molto frequentata
nella zona Vittoria a Milano, in cui una serie di "popolazioni" sono
decisamente in "competizione" nell'uso dello spazio.
E' uno spazio verde molto interessante ed eterogeneo. Per intenderci, e' al
suo interno che sorge la Palazzina Liberty, teatro in passato di una celebre
occupazione...
In particolare, negli anni, il conflitto tra proprietari di cani, anziani e
bambini e' stato al centro delle problematiche del parco e della fatica di
chi (Guardie Ecologiche Volontarie e Polizia Municipale) viene chiamato in
causa per dirimere le controverse interpretazioni del regolamento d'uso del
verde pubblico.
Il vigile di quartiere di cui ho fatto lo shadowing, seguendolo come un'
ombra nel suo servizio quotidiano, e' giovane, di bell'aspetto, molto curato
e trendy nei dettagli di abbigliamento che sfuggono al rigore della divisa d
'ordinanza e cerca sempre di mettere in campo un approccio creativo alla
gestione dei conflitti con cui si misura quotidianamente.
L'occasione piu' interessante gli e' stata offerta dall'introduzione di un'
area riservata ai cani nel parco. Ecco come lui stesso mi ha raccontato la
sua strategia:
"Prima che introducessero l'area cani, ho pensato che fosse necessario
"preparare il campo". Mi sono preoccupato di come entrare in contatto con i
proprietari di cani in un modo alternativo rispetto a quello piu' consueto
ed ordinario dell'affrontarli faccia a faccia in mezzo al prato dovendo
contestare loro (e' un mio diritto e dovere in quanto pubblico ufficiale) il
mancato rispetto delle regole, cioe' il cane senza guinzaglio e senza
museruola e al di fuori dell'area dedicata.
Mi ero accorto, facendo servizio nel quartiere, che proprio di fronte al
parco c'e' un negozio di prodotti per animali molto ben rifornito e sempre
pieno di clienti. Ho iniziato a frequentarlo, entrando con delle scuse e
mettendomi a chiacchierare con la ragazza che lo gestisce. Di volta in
volta, stando dentro il negozio, ho avuto modo di conoscere molti dei
proprietari di cani che frequentano il parco e di discutere con loro i
cambiamenti che stavano per essere introdotti nella gestione dell'area".
Marianella: Chiedeva la loro adesione non come figura estranea all'ambiente
che impone delle regole e ha il potere di punirti se non le rispetti, ma
come membro di quell'ambiente e figura che istituzionalmente ha a cuore le
regole della reciproca convivenza. Inoltre immagino che si sia trattato di
conversazioni quasi mai a due, ma corali, in cui tutti i presenti dicevano
la loro, con la possibilità di creare un senso di solidarieta' e di impegno
comune.
Massimo: Proprio cosi', questo modo di procedere ha provocato un incredibile
cambiamento nel modo di rapportarsi fra loro non solo dei proprietari di
cani, ma anche degli altri frequentatori del parco. Un cambiamento letterale
del "set". Allo stato attuale, il parco e' molto frequentato e da una grande
varieta' di persone: anziani che passeggiano e sostano sulle panchine,
giovani ai bordi del parco, moltissimi bambini nell'area attrezzata e molti
proprietari di cani rispettosi delle regole e delle aree a loro dedicate (al
90% i cani sono nelle aree dedicate, che risultano anch'esse molto curate, a
differenza di altri parchi cittadini).
Il vigile di quartiere attraversa il parco nel primo mattino, per una
verifica, e poi vi si sofferma piu' a lungo nel pomeriggio, quando e' piu'
frequentato. La riprova dell'efficacia della modalita' di lavoro del vigile
l'ho proprio avuta passeggiando al suo fianco nel parco e vedendo che e'
salutato con larghi sorrisi da un grande numero di persone di ogni sorta.
Pero' adesso voglio raccontare una storia "in negativo", una di quelle
tragicomiche che, come dicevi tu all'inizio, se si e' rilassati e si sentono
raccontare, fanno ridere per la patologica mancanza di capacità di ascolto
attivo.
In questo caso chi "inciampa sui gradini" che richiederebbero un sapere
della gestione creativa dei conflitti, e' la amministrazione comunale, nella
persona dei dirigenti dei tecnici di settore, dei soggetti decisionali.
Marianella: Prima lasciami aggiungere che quel vigile, forse senza sapere
che si chiama cosi', ha attuato una pratica basata sulla "network analysis";
ha cioe' individuato il posto e la persona giusta (la commessa di quel
negozio molto frequentato dai proprietari di animali) che gli ha consentito
di innescare un lavoro enorme con relativamente poco sforzo.
Infatti e' immaginabile che ogni cliente avra' ripetuto quelle informazioni
e discussioni ad un'altra decina di persone. E' molto piu' efficace che
appendere dei manifesti. Spero che i suoi dirigenti sappiano apprezzare
questo acume sociologico.
Massimo: Un vigile non puo' operare in questo modo se non ha l'appoggio del
funzionario di quella zona e del suo diretto superiore, i quali in questo
caso (li conosco e li ho intervistati) sono anzi dei fautori di questo
approccio.
Vedi, la Polizia Municipale e' caratterizzata da una forte struttura
gerarchica e allora e' essenziale, ad esempio, che si riconosca l'utilita'
del "darsi tempo" stazionando dentro un negozio anziche' tacciare l'agente
di connivenza con i negozianti o di bighellonare. Altri dirigenti invece
sono contrari perché concepiscono ancora i controlli come rispetto di norme
procedurali, fisse; temono che il vigile sfugga al loro "controllo" e il suo
lavoro alle verifiche.
Noi stiamo lavorando insieme a loro per creare lo spazio, la legittimita' e
l'apprezzamento di un approccio ai problemi che connotano il servizio di
quartiere  che sia "prestazionale" e non "prescrittivo", non e' facile ma e'
davvero molto importante per l'efficacia dell'azione.
Marianella: In tutti i Paesi europei ci si sta muovendo in questa direzione,
per esempio in Francia c'e' il "contrat local de securite'" che instaura una
nuova figura del "mediatore sociale" con compiti di prevenzione della
microcriminalita' attraverso il dialogo e con la regolazione partecipata
degli spazi pubblici. In Inghilterra sono gia' alcuni anni che le forze di
polizia metropolitana in parecchie citta' si assumono direttamente questi
compiti con training periodici e in collegamento con altri operatori
pubblici, associazioni e volontari sul territorio locale.
*
* Quarta storia. Come peggiorare un ambiente urbano "riqualificandolo"
Massimo: Baggio e' una localita' della periferia sud di Milano. L'antico
nucleo e' ormai parte del perimetro amministrativo ed e' letteralmente
circondato da grandi insediamenti residenziali.
Piazza Stovani e' situata nel cuore del vecchio borgo. Una strada che
attraversa il centro storico e sulla quale si affacciano alcuni negozi, un
bar e una pizzeria, corre su un lato della piazza che e' delimitata sugli
altri tre da edifici. Su due lati si tratta di edifici pubblici che hanno
via via cambiato destinazione d'uso.
L'edificio a due piani che occupa il lato sud, forse un tempo era il
Municipio di Baggio e oggi ospita una serie di gruppi e associazioni: il
gruppo Alpini, la Croce Rossa, una sede di partito, un'associazione di
volontariato.
Sull'altro lato, la scuola elementare di inizio secolo ha lasciato il posto
alla sede della Azienda Sanitaria Locale di zona che vede un flusso costante
di utenti. Nella palazzina a due piani al suo fianco, un edificio di inizio
secolo, l'asilo, ha ceduto il posto al Sert, il Servizio Territoriale
Tossicodipendenze, dove ogni giorno circa duecento tossicodipendenti
ricevono la propria dose di metadone e un numero minore si reca per visite e
colloqui con i medici.
Infine, il quarto lato della piazza e' delimitato da un alto muro che
racchiude un edificio che affaccia sulla strada e che ospita un convento di
suore Missionarie di Madre Teresa. Quale attivita' caritatevole, le suore
hanno attivato da circa un anno un servizio di distribuzione di pasti ai
poveri, per lo più stranieri. La distribuzione del pasto avviene alle 18.30,
ma già alle 17 una folla variabile tra le 150 e le 250 persone fa dell'
attesa un'occasione di incontro e di ritrovo giornaliero. Le suore
distribuiscono il pasto ma purtroppo non mettono a disposizione uno spazio
interno, di conseguenza gli utenti della mensa stazionano nelle adiacenze
della piazza, consumano il proprio pasto e si arrangiano come possono in
assenza di servizi igienici, provocando le proteste e il risentimento  dei
commercianti  e degli abitanti della zona.
Invece di cercare di affrontare questi disagi e conflitti in modo creativo,
cosa fa il Comune?
Decide di iniziare i lavori di "riqualificazione della piazza",
trasformandola in un cantiere.
L'intera piazza e' cintata e off limits. Il cartello segnaletico che
fornisce informazioni sui lavori non e' affatto rassicurante, laddove
(sembra per un errore) indica come data di fine lavori l'anno 2002. Nulla di
piu' e' indicato sui contenuti dell'intervento.
La sistemazione della piazza e' un progetto rivendicato da tempo sia dalla
popolazione che dai commercianti , ma i lavori sono stati avviati senza
tenere conto dell'impatto del cantiere sui non piccoli problemi di
affollamento e convivenza gia' presenti.
Infatti :
- l'impossibilita' di fruire dello spazio della piazza ha esasperato le
tensioni tra gli utenti della mensa e i commercianti: l'inaccessibilita'
dello spazio pubblico spinge infatti i poveri a consumare il proprio pasto
presso le vetrine dei negozi, spesso sulle soglie, arrecando "disturbo" e
danno alle attività commerciali;
- l'apertura del cantiere sull'intera superficie della piazza ha reso
incredibilmente difficoltoso l'accesso ai numerosi servizi che su di essa
affacciano. E' in particolare il caso dell'ASL e del Sert, cui si accede
attraverso uno stretto e tortuoso camminamento realizzato con una palizzata
in legno e ricavato tra la cinta esterna del cantiere e gli edifici, che
costringe entro lo spazio di un metro di larghezza il passaggio degli
utenti, con conseguente preoccupazione e ansia nei confronti degli utenti
del Sert, percepiti come pericolosi. Confesso che anch'io e Simona Pognant,
la collega con cui ho svolto questa indagine, non ci sentivamo del tutto a
nostro agio, a camminare dentro quel budello.
La convivenza di per se' gia' difficile tra gli utenti dei diversi servizi e
il fragile equilibrio del piccolo commercio in questo modo sono  messe
davvero a dura prova. Se non succede nessun incidente grave, bisognera' fare
una ricerca apposita per capire come mai. Che fai, ridi?
Marianella: E' un riso amaro. Mi conforta pero' il pensiero che cose del
genere oggi non sono piu' ammissibili se non altro perche' ci stiamo
sprovincializzando.
Oggi chi amministra non può più ignorare che esistono Barcellona, Lione,
Brent... che esistono altri stili e comportamenti decisionali e
amministrativi.
Col federalismo la competizione per l'efficacia fra comuni e fra regioni ci
costringono a toglierci molti paraocchi. Anche le amministrazioni comunali e
non solo le aziende private, pur con molte resistenze, incominciano a
sperimentare almeno settorialmente un modello organizzativo a "piramide
rovesciata", ad operare come una "impresa che ascolta".
Gli amministratori del tuo esempio dovevano non aver timore (che invece
hanno) di andare a cercare i rappresentanti dei diversi interessi in gioco,
le suore, i commercianti, i medici della Asl e del Sert e gli stessi utenti
della mensa delle suore, per discutere con loro come affrontare i problemi
sia vecchi che quelli nuovi posti dall'apertura del cantiere.
Cosi' hanno fatto, per esempio, a Lione, quando hanno affrontato in termini
di "cantiere evento" (gestito fra l'altro da una ditta italiana, la GRM di
Dioguardi...) la ristrutturazione di una delle piazze principali.
Bisogna ammettere che le resistenze al cambiamento sono giustificate dalle
carenze di formazione, solo molto lentamente nelle nostre università si
incomincia ad affrontare con rigore e immaginazione questo ordine di
problemi.
Massimo: In effetti e' ancora abbastanza raro trovare, non solo nella
pubblica amministrazione, persone pienamente consapevoli del tipo di
cambiamento sistemico per molti versi gia' in atto.
Per questo siamo rimasti profondamente e felicemente sorpresi nel trovare
proprio fra gli addetti della Polizia Municipale un numero insospettatamente
alto di persone a tutti i livelli non solo consapevoli di questo, ma
disponibili a esplorare nuovi "mondi possibili".
Per molti versi la loro esperienza indica la strada anche ad altri settori
della Pubblica Amministrazione. Quindi adesso porteremo una serie di esempi
centrati proprio su questa nuova figura.
Marianella: In realtà la figura dei vigili di quartiere anche come emerge
dai nostri esempi non e' nuova, ne' in Italia (una volta a Milano c'erano "i
ghisa") ne' nel mondo, nei paesi anglosassoni sono una antica istituzione.
Quello che e' nuovo e' la contingenza in cui questo cambiamento avviene:
cioe' in un momento in cui la pressione a un cambiamento di mentalita',
professionalita', di diversa allocazione e ridefinizione delle competenze
decisionali, investe l'intera pubblica amministrazione.
In questo contesto i vigili di quartiere diventano i "sensori" dei problemi
di convivenza sia fra i cittadini che fra questi e la pubblica
amministrazione.
Massimo: Diventano anche i parafulmini, coloro a cui tutti si rivolgono per
dar voce a cio' che non funziona. E quindi molto interessati a che l'intera
macchina funzioni diversamente e meglio.
(Continua)

3. RIFLESSIONE. MARINA FORTI INTERVISTA JOSEPH KI-ZERBO
[Questa intervista, realizzata a Durba nin occasione della Conferenza
dell'Onu contro il razzismo, abbiamo ripreso dal quotidiano "Il manifesto"
dell'8 settembre.
Marina Forti e' giornalista, particolarmente attenta ai temi dell'ambiente,
dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione.
Joseph Ki-Zerbo e' uno dei piu' illustri intellettuali contemporanei]
Joseph Ki-Zerbo, un anziano signore dal portamento regale nel lungo abito
bianco ricamato, e' il decano degli storici africani. La sua Storia
dell'Africa nera (1972, in Italia da Einaudi, 1977) ha segnato una svolta
nella storiografia del continente africano: una sorta di "riscatto"
dell'Africa cancellata o immiserita da secoli di quella rappresentazione
coloniale che faceva cominciare la civilta' con l'arrivo degli europei. Nato
a Toma nell'Alto Volta (oggi Burkina Faso) da una famiglia di contadini, ha
compiuto i suoi primi studi in scuole missionarie e ha dovuto fare vari
mestieri prima di poter arrivare a Parigi e seguirvi regolari studi
superiori. Dopo il diploma all'Institut d'Etudes Politiques nel 1954, e due
anni di post-laurea in storia alla Sorbona, si e' dedicato al suo paese, di
cui e' stato deputato all'Assemblea nazionale. Di recente ha collaborato
alla General History of Africa pubblicata dall'Unesco, l'organizzazione Onu
per la cultura. Era a Durban nei giorni scorsi per partecipare al seminario
promosso appunto dall'Unesco su "La via degli schiavi", la tratta degli
schiavi neri dall'Africa alle Americhe: una catastrofe, dice, che ha
cambiato la demografia del continente africano e il suo futuro.
Marina Forti: Cos'e' che rende la tratta degli africani attraverso
l'Atlantico un evento cosi' unico nella storia umana?
Joseph Ki-Zerbo: Vede, la schiavitu' e' esistita in molte regioni, e' stata
una fase importante dello sviluppo di quasi tutte le civilta' umane.
Ma credo che i popoli neri abbiano subito un'esperienza della schiavitu'
unica nel suo genere per la durata, per le dimensioni e per l'orrore. Sono
queste le caratteristiche uniche dell'esperienza africana. Per quattro
secoli e mezzo, dalla meta' del XV alla fine del XIX, sono venuti a cercare
schiavi neri in Africa per trasportarli in altri continenti, con una
progressione costante negli effettivi fino al 1830. Poi nel 1848
l'abolizionismo ha cominciato a produrre degli effetti - anche se non ha
ancora fermato la tratta, anzi si e' creata una situazione ancora piu'
terribile perche' gli europei venivano a fare guerre con armi ormai piu'
sofisticate, conoscevano meglio i villaggi, era una caccia all'uomo mirata.
E poi, le dimensioni: ci sono stime diverse sul numero degli schiavi presi,
ma considerate che il Portogallo del sedicesimo secolo aveva appena un
milione e mezzo di abitanti. L'Africa nera era un vivaio: i demografi
stimano che avesse allora 100 milioni di abitanti. Gli europei conservarono
gelosamente le loro tecnologie di navigazione o la polvere da sparo, benche'
i re africani chiedessero maestri esperti alle loro corti, per istruite
tecnici africani. Invece, usarono l'Africa come una riserva di manodopera...
Faccio notare che l'Africa e l'Europa allora erano comparabili quanto a
organizzazione sociale e politica, e anche economica. Ma le sue forze
migliori furono prelevate sistematicamente. Su oltre quattro secoli sono
stati presi tra 30 e 100 milioni di abitanti: i piu' forti, robusti,
giovani, l'avvenire dell'Africa. Le incursioni dei negrieri erano come
attacchi chirurgici, ben diretti a prelevare gli uomini e donne che gli
servivano.
Infine, l'orrore: l'essere umano in Africa e' stato considerato al pari del
bestiame, selvaggi da ridurre a obbedienza e addomesticare. Presi a forza,
obbligati a lavorare, sottomessi a un regime peggiore di quello riservato
alle bestie. Mai la schiavitu' era stata marcata da un tale disprezzo umano.
Allo schiavo che non obbediva si poteva tagliare le orecchie, la lingua, le
mani. Uomini e donne neri erano chiusi insieme perche' producessero figli,
come si fa con i cavalli. Inaudito! Non gli era riconosciuta nemmeno la
qualita' umana: il nero africano era una merce. Pensi che quando si faceva
l'inventario dei beni di una proprieta' in vendita si elencavano i neri come
beni mobili: una casa, tanti carri, tanti negri... Giunsero a creare una
moneta astratta per stimare gli africani, un'unita' di conto chiamata piece
d'Inde. Corrispondeva a un negro perfetto: giovane, in piena forza. C'erano
frazioni e multipli: una donna con un bambino facevano una piece d'Inde, due
donne una piece e mezza. Per tutto questo, non vedo un altro popolo nella
storia che abbia sofferto di un traffico del genere cosi' a lungo, e in
dimensioni comparabili al popolo nero.
Forti: Gli europei inoltre si davano giustificazioni di ordine legale,
morale...
Ki-Zerbo: Si', ma il complesso di superiorita' e' venuto dopo. E' stata la
stessa tratta degli schiavi a sviluppare il razzismo. Si metta al posto dei
portoghesi, quel milione e mezzo di abitanti, i grandi regni africani
dell'epoca erano molto piu' popolosi di quello di Lisbona.
Abbiamo le testimonianze dei viaggiatori arabi, venuti in Africa per primi
seguiti poi dagli europei. Descrivevano una demografia abbondante, villaggi
molto fitti, il benessere, l'avanzamento delle scienze come la pedagogia:
sappiamo ad esempio che nel XIV secolo la citta' di Timbuctu aveva un tasso
di alfabetizzazione piu' alto che nelle metropoli europee. Era in arabo, ma
tutti i figli dei liberi erano scolarizzati. Ibn Battuta, il grande
viaggiatore arabo che percorse sia l'Africa che l'Europa e l'oceano Indiano,
dice che il Mali all'epoca era governato nella pace e della sicurezza, al
contrario dell'Europa nello stesso periodo. L'imperatore del Mali nel
quattordicesimo secolo fece il pellegrinaggio alla Mecca portando con se'
tonnellate d'oro: tanto che nel mediterraneo il corso dell'oro si abbasso'.
Il regno del Mali era segnato nelle carte del tempo, disegnate in Europa,
perche' la sua reputazione era grande. Ibn Battuta scrisse un capitolo su
"quel che c'e' di buono e di cattivo presso i neri": non approva che le
donne vadano a torso nudo, ma riconosce che la giustizia e' molto
rigorosa...
Quando i primi portoghesi arrivarono nel regno del Congo si prostrarono e
baciarono la mano del re come avrebbero fatto a Lisbona. No, il complesso di
superiorita' e' cominciato piu' tardi. Con lo schiavismo si e' costruito
poco a poco il disprezzo, fino al diciannovesimo secolo quando il razzismo
e' diventato per cosi' dire "scientifico": quando si comincio' a dire che la
scatola cranica degli africani era piu' piccola, che non erano capaci di
capire certe cose. E' stata costruita un'ideologia che giustificava la
pratica della schiavitu'.
Forti: In questa conferenza si discute di "riparazioni". Si puo', e come,
riparare a una colpa come la tratta degli schiavi?
Ki-Zerbo: Ma e' gia' stato fatto in altri casi, ad esempio i tedeschi
l'hanno fatto per gli ebrei.
E' un problema di diritto e di etica. Il silenzio sulla tratta degli schiavi
e' durato secoli.
Oggi, dopo che il mondo ha adottato principi generosi e giusti sui diritti
umani e dei popoli, non e' accettabile che il silenzio continui. Il
parlamento francese ha riconosciuto che la schiavitu' e' un crimine contro
l'umanita' perche' degli esseri umani non sono stati considerati come tali,
e che e' stata disconosciuta troppo a lungo.
Se seguiamo un principio di diritto, quando c'e' stato un torto deve seguire
una riparazione. Sul principio non dovrebbe esserci discussione. E' sulle
modalita' che qui discutono.
La tratta dei neri ha permesso all'Europa di disporre del lavoro necessario
a entrare nella fase dell'industrializzazione. L'Europa ha approfittato e si
e' sviluppata mentre l'Africa sprofondava.
Certo non si ripara alla vita di 50 o cento milioni di persone, al sangue
versato, agli orrori, agli schiavi ribelli fatti a pezzi sulle navi negriere
per darli in pasto agli altri; ci sono orrori impossibili da riparare. Ma
cercare di diminuire gli effetti della tratta dei neri, questo non e'
chiedere troppo. Una volta riconosciuto un crimine contro l'umanita',
bisogna controbilanciare gli effetti del male fatto.
Forti: Ma appunto: altri paesi non hanno riconosciuto, come la Francia, che
c'e' stato un "crimine contro l'umanita'".
Ki-Zerbo: Si', ma e' un ritardo nelle coscienza morale, etica e giuridica
rispetto alle loro stesse leggi. Guardi: qui c'era l'apartheid, ed e' durato
fin troppo a lungo. Durante la guerra fredda gli americani non volevano
riconoscerlo perche' credevano che i loro interessi fossero minacciati.
Quelli che oggi non riconoscono il torto fatto all'Africa dovranno
riconoscerlo prima o poi, perche' questa lotta non si fermera'.
D'altra parte e' una lotta non solo per i neri ma per la dignita' umana.
Questi paesi ora non vogliono riconoscere cio' che e' chiaro come il sole
per un calcolo di interesse immediato: temono di dover rinunciare a una
parte delle loro ricchezze, quando il 20% dell'umanita' ha l'80% delle
risorse: non gli basta? Gli stati badano solo all'interesse immediato: io
dico che i popoli devono prendere il relais. E' un mostruoso ritardo delle
coscienze, e va denunciato.

4. POESIA. IDA DALIA: COME LA VITA
[La seguente poesia di Ida Dalia abbiamo estratto da AA. VV. (a cura di
Mario Scalise, Atsuko Mizuguchi Folchi Vici, Carla Vasio), Haiku antichi e
moderni, Vallardi Garzanti, Milano 1996, p. 247. Questo testo e' stato
segnalato all'International Haiku Contest in occasione del quarantesimo
anniversario della Gendai Haiku Kyokai, Tokyo 1987]

Come la vita
trasparente fantasma
cala la Luna

5. POESIA. IMMA VON BODMERSHOF: IL VECCHIO MELO
[Il testo seguente abbiamo tratto da Imma von Bodmershof, La meridiana.
Haiku, All'insegna del Pesce d'Oro (Scheiwiller), Milano 1980, p. 37
(traduzione di Berta Burgio Ahrens).
Imma von Bodmershof, figlia di Christian von Ehrenfels, fondatore della
psicologia della forma, e' nata a Graz. Ha pubblicato racconti, romanzi e
haiku (che hanno incontrato particolare interesse in Giappone e vi sono
stati tradotti). Le sono stati conferiti vari premi letterari, tra cui il
grande premio statale austriaco nel 1958]

Il vecchio melo
ha un solo ramo -
ma gemma tocca gemma.

6. POESIA. HILDEGARD MARIA BINDER: I DICIANNOVENNI
[La poesia seguente abbiamo estratto da Maria Teresa Mandalari (a cura di),
Poesia operaia tedesca del '900, Feltrinelli, Milano 1974, p. 209.
L'autrice, Hildegard Maria Binder, e' nata nel 1935, casalinga, ha
pubblicato su riviste e antologie]

* I diciannovenni

occupati in svanite contorsioni
trasformano l'ordinato disordine
dei loro padri e portano vecchi cappelli
sopra capelli lunghi
mutano
il torto in ragione
e indossano camicie finemente ricamate
di piu' non si puo' fare
i diciannovenni
nella loro crepuscolare raffinatezza
assaporano i propri giochi servili
e il moto di qualche dozzina di memorie a forcella
che producono rumori
i diciannovenni
intricati nelle impalcature
di volute oscurita'
mostrano nella cute
il colore dei quarantenni
che li hanno generati
portano
a ripide vette
la carriera
a qualsiasi costo
il vicino
paga con una lacerazione
non importa
i diciannovenni costruiscono il proprio mondo
recitano la formuletta
tutti dobbiamo morire
e infilano in bocca al bambino
la canna del fucile
hanno imparato a scaricarlo
non in corsi speciali
perche' non fanno che essere disponibili
alle esigenze
della civilizzazione

7. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA GINO PICCIO A HAROLD
PINTER

* GINO PICCIO
Profilo: impegnato in un lavoro comunitario di soldiarieta' utilizzando (e
quindi reinventando creativamente e contestualmente) la metodologia di Paulo
Freire. Opere di Gino Piccio: cfr. alcuni materiali in Leandro Rossi, Paulo
Freire profeta di liberazione, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi 1998.

* LUIGI PICCIONI
Profilo: mpegnato sin dai primi anni '90 nell'ecopacifismo e nel commercio
equo e solidale pisano, ha collaborato con Francesco Gesualdi nella
redazione della "Guida al consumo critico" e alla diffusione delle sue
tematiche in Italia grazie a molte decine di incontri pubblici. Di mestiere
storico dell'ambiente e dell'ambientalismo, insegna presso l'Universita'
degli Studi della Calabria. Ha pubblicato, tra le altre cose, Il volto amato
della patria, ricostruzione delle vicende del primo movimento di protezione
della natura in Italia, tra la fine dell'Ottocento e i primi anni '30 del
Novecento. Ha curato l'edizione italiana del libro di Jeremy Brecher e Tim
Costello, Contro il capitale globale, Feltrinelli, Milano. Collabora con il
"Centro nuovo modello di sviluppo" di Vecchiano e con la Rete di Lilliput.

* LILIANA PICCIOTTO FARGION
Profilo: illustre studiosa della Shoah, ha svolto una fondamentale attività
di ricerca, recupero, preservazione e trasmissione della memoria delle
vittime. Opere di Liliana Picciotto Fargion: L'occupazione tedesca e gli
ebrei di Roma, Carucci, 1979;  Il libro della memoria, Mursia, Milano 1991;
Per ignota destinazione. Gli ebrei e il nazismo, Mondadori, Milano 1994.

* TONI PIERI
Profilo: impegnato nella solidarieta' internazionale, e' nel viterbese una
delle figure storiche dell'impegno ambientalista, pacifista, per i diritti e
di solidarieta'.

* FRANCA PIERONI BORTOLOTTI
Profilo: storica italiana. Opere di Franca Pieroni Bortolotti: Socialismo e
questione femminile in Italia (1982-1922), Mazzotta, Milano 1974; Alle
origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Einaudi, Torino 1975;
Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in
Emilia-Romagna, Vangelista, Milano 1978; La donna, la pace, l'Europa, Franco
Angeli, Milano 1985.

* MASSIMILIANO PILATI
Profilo: e' impegnato nel Movimento Nonviolento

* PIETRO PINNA
Profilo: primo obiettore di coscienza nel 1950, collaboratore di Aldo
Capitini e di Danilo Dolci, infaticabile promotore della nonviolenza, è una
delle figure di riferimento per i movimenti e le iniziative per la pace.
Opere di Pietro Pinna: La mia obiezione di coscienza, Edizioni del Movimento
Nonviolento; numerosi suoi contributi sono stati pubblicati in vari volumi.

* ENNIO PINTACUDA
Profilo: nato a Prizzi nel 1933, laurea in giurisprudenza alla Cattolica di
Milano, studi di teologia alla Gregoriana a Roma, e specializzazione in
sociologia alla New York University. Gesuita, tra i protagonisti della lotta
contro mafia a Palermo. Opere di Ennio Pintacuda: Breve corso di politica,
Rizzoli, Milano 1988; La scelta, Piemme, Casale Monferrato 1993. Opere su
Ennio Pintacuda: Pierluigi Diaco, Andrea Scrosati (a cura di), Padre Ennio
Pintacuda. Un prete e la politica, Bonanno, Acireale 1992.

* HAROLD PINTER
Profilo: drammaturgo inglese, nato nel 1930. Autore anche di sceneggiature
cinematografiche (è nota la sua collaborazione con Losey in film memorabili:
Il servo, L'incidente, Messaggero d'amore). Intellettuale d'opposizione, di
saldo impegno politico. Opere di Harold Pinter: il suo Teatro è edito in
italiano da Einaudi, Torino. Opere su Harold Pinter: Gianfranco Capitta,
Roberto Canziani, Harold Pinter, un ritratto, Anabasi, Milano 1995.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ;
per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it ;
angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 225 dell'11 settembre 2001