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"Ho 13 anni e mi hanno preso a sprangate in testa!" (testimonianza di una giornalista)



Partita da Torino con i 31 pullman del Torino Social Forun, sabato 21 
luglio, se pur con qualche preoccupazione perché si annunciava una 
manifestazione particolarmente calda, ero a Genova per partecipare al 
corteo contro il G8.
All'arrivo alle 11.30 c'era un fitto schieramento di polizia ad accogliere 
la tantissima gente in arrivo dall'autostrada con pullman, auto e moto: 
talmente tanta che l'ingresso in città dal casello di Genova Nervi era 
totalmente bloccato; siamo stati quindi scaricati dai pullman giusto due 
curve di strada dopo il casello.
In realtà quindi per noi il corteo è iniziato là, fuori dal centro abitato, 
dove un serpentone di gente scendeva a piedi in città per raggiungere il 
luogo di ritrovo in via Caprera angolo via Cavallotti.
Avrei dovuto andare a ritirare l'accredito e il pettorale da indossare come 
giornalista al Centro Media in via Battisti, presso la scuola Diaz, ma la 
cosa si è rivelata subito impossibile per una persona sola in tutta quella 
folla, se non affrontando rischi inutili.
Ho quindi attaccato alla mia maglietta gialla personale un adesivo 
artigianale con la scritta STAMPA e con il mio gruppo siamo scesi in città.
Già lungo il tragitto di avvicinamento ci siamo resi conto che i 
dimostranti non erano tutti uguali e che tra gli altri c'erano gruppi dai 
quali era prevedibile avrebbero potuto venire problemi.  In alto, prima su 
un terrazzamento in cima alla collina, dietro una rete metallica, poi in 
cima ad una delle strade che dalla collina scendevano  sul nostro percorso, 
potevi vedere fittissimi schieramenti di polizia silenziosa e immobile. 
Elicotteri sorvolavano la zona: in seguito ho potuto vedere nei 
telegiornali che da un elicottero si può avere una visione estremamente 
chiara fin nei particolari più minuti e si può arrivare a distinguere anche 
il viso di una persona.
All'incrocio di una strada che dalla collina confluiva nel percorso del 
corteo abbiamo incrociato un furgone tipo "ducato" da cui erano scesi 
parecchi ragazzi che si stavano vestendo da tute nere e che scaricavano 
manganelli. Come li abbiamo potuto vedere noi, (e non cercavano in alcun 
modo di nascondersi, come se essere una tuta nera sia la cosa più naturale 
del mondo), allo stesso modo certamente la polizia li ha potuti notare e 
identificare, ma non c'è stato nessun tipo di intervento preventivo nei 
loro confronti.
Scendevamo noi quindici  la strada veloci e avevamo come obiettivo di 
raggiungere, nel corteo che si stava strutturando, qualche che si 
dimostrasse abbastanza organizzato e con un consistente servizio d'ordine a 
cui aggregarci con la garanzia di una certa sicurezza. Noi eravamo una 
quindicina, riuniti in modo abbastanza casuale attraverso l'amicizia di 
qualcuno con altri, ma molto sincronizzati tra noi: il primo andava avanti 
con occhi ben aperti e gli altri dietro, tenendosi sempre in contatto e 
quando ci capitava di perderci di vista nella folla in movimento ci 
richiamavamo con il cellulare. Uno di noi era fornito di una radio 
sintonizzata su Radio Lanterna che trasmetteva in diretta notizie e 
avvisava degli scontri in atto nelle varie zone della città. Un gruppo 
mobile, elastico e solidale, che per queste caratteristiche ha potuto 
rimanere compatto fino alla fine.
In questo modo abbiamo raggiunto il luogo di appuntamento per l'inizio del 
corteo e continuato a scorrere al margine risalendolo velocemente.  Abbiamo 
avuto l'impressione di poca o nulla presenza di servizio d'ordine né 
interno né esterno e che non ci fosse  spazio per sfilare in sicurezza se 
ci fossero stati scontri.  Neppure i gruppi di CGIL ci sono sembrati 
sufficientemente compatti e sicuri. Il grido "Assassini" risuonava spesso 
durante tutto la lunghezza del serpentone e la tensione era altissima.
Abbiamo superato gruppi che ci sembravano decisamente "agitati" fino a che, 
arrivati ormai verso la testa del corteo, abbiamo raggiunto quelli di 
ATTAC, visibilmente molto strutturati e con un efficiente servizio 
d'ordine: una catena umana ai bordi impediva l'ingresso nel loro gruppo ad 
elementi estranei. Ci siamo aggregati a loro, percorrendo così l'ultimo 
tratto di corso Italia, girando a destra in corso Torino, ultimo lungo 
rettilineo del percorso stabilito e ci siamo lasciati a sinistra piazzale 
Kennedy.
A quel punto avevamo alla nostra sinistra la "zona rossa", ben visibile al 
fondo delle strade, delimitata da containers che ne impedivano le 
violazione e uno spazio  di  sicurezza verso il corso mantenuto sgombro 
dalla polizia.
Gli scontri erano nell'aria: ci arrivavano dalla radio pesanti notizie da 
piazza Kennedy, dove il corteo era stato tagliato in due tronconi dalla 
polizia all'altezza di un gruppo in cui sembravano essersi infiltrate tute 
nere. Ci siamo fermati in vista del sottopasso della ferrovia che sembrava 
una trappola: voci di scontri alla testa del corteo subito dopo il 
sottopasso,  verso Marassi, nel centro in piazza Kennedy  e in coda verso 
Quarto, e noi in mezzo.
La situazione si è ad un certo punto improvvisamente risolta: su una via 
parallela abbiamo visto una lunga teoria di autoblindo con poliziotti che 
con il busto sporgevano dal tettuccio imbracciando mitragliatori, seguiti 
da camionette della polizia che abbandonavano la testa della manifestazione 
per correre in direzione opposta alla nostra, verso piazza Kennedy, verso i 
disordini e il nostro troncone di corteo ormai libero ha ricominciato a 
scorrere arrivando a destinazione in piazza Ferraris, dove sono iniziati i 
comizi.
Seduti per terra, finalmente a riposare all'ombra, dopo circa mezz'ora, 
(saranno state le 15.30)  abbiamo sentito arrivare grida da un gruppo 
particolarmente agitato che si avvicinava e, per evitare di essere 
coinvolti in eventuali scontri con la polizia, abbiamo deciso di lasciare 
la manifestazione, per noi ormai terminata, puntando verso la collina del 
quartiere San Fruttuoso per scendere dall'altra parte verso il mare e 
attendere là le dieci di sera, ora prevista per il per il ritorno a Torino.
E da questo momento è cominciata una fuga durata fino alle sette di sera, 
braccati in ogni strada dalla polizia che inseguiva ora questo ora quel 
gruppo, coinvolgendoci nelle fughe.
In verità io da quel momento non ho più visto poliziotti con i miei occhi, 
ma solo ho sentito il rumore dei loro pesanti passi di corsa sulle strade 
improvvisamente deserte o piene di gente che scappava gridando. Si 
procedeva tranquilli per una strada in cui tutto sembrava ormai finito e 
improvvisamente il rombo degli elicotteri in arrivo segnalava che tutto 
stava per ricominciare e, come materializzato dal nulla, arrivava il fumo 
acre dei lacrimogeni e le urla della gente ferita, atterrita in fuga, che 
arrivava e ti travolgeva inseguita da una polizia sempre alla carica.
In un istante di pace siamo stati raggiunti da un padre e i suoi due figli 
di 15 e 13 anni, che, sotto shock, ci chiedevano dove fosse una via di 
fuga. Erano di Trento e si erano trovati involontariamente coinvolti in uno 
scontro con un ferito gravissimo, immerso in un lago di sangue (morto, 
dicevano loro); terrorizzati, a braccia alzate, i due ragazzi avevano 
chiesto aiuto ai poliziotti e come risposta erano stati presi a sprangate 
sulla testa: "Ho tredici anni, sono un ragazzo, chiedevo aiuto e mi hanno 
preso a sprangate in testa!". Non siamo stati in grado di aiutarli: era 
chiaro che non esisteva una via di fuga che portasse a qualche posto sicuro.
Poi di nuovo corse, fughe, finché un gruppo di una ventina di tute nere che 
stavano scappando inseguite dai lacrimogeni, intrappolate da un gruppo di 
poliziotti che scendeva dall'alto della collina e da un altro che la 
risaliva, ci ha travolti in un angolo senza uscita di una strada 
stretta.  I miei amici sono riusciti a saltare oltre un muro di cinta, a 
strapiombo su una decina di metri di vuoto, dentro un giardino selvatico, 
pieno di alberi e di sterpaglia e io, a causa di un attimo di indecisione 
per la paura di saltare e di cadere nel vuoto, sono stata separata da loro 
e letteralmente schiacciata a terra dalle tute nere in fuga che cercavano 
di saltare dalla stessa parte tagliando quindi a me la via di fuga. La 
polizia era vicinissima e tirava lacrimogeni contro di noi, sulla 
automobile che fortunatamente ci faceva da scudo e dietro cui io ero 
schiacciata e potevo sentire i candelotti crepitare contro la carrozzeria. 
Il rumore era assordante e il fumo acre e denso mi ha preso agli occhi e 
alla gola e mi faceva soffocare: ho capito che o riuscivo a scappare o mi 
avrebbero massacrata e, non so dire come, ho trovato la forza e la lucidità 
di scrollarmi le poche tute nere rimaste indietro e, benché semiacciecata e 
soffocata, sono riuscita a saltare il muro, dall'altra parte del quale gli 
amici mi aspettavano sgomenti.
Nel selvatico del giardino, in perfetto silenzio per non farci sentire né 
dalle tute nere né dalla polizia, al riparo sotto gli alberi per non farci 
vedere dall'elicottero che sorvolava bassissimo cercando di individuarci, 
(sembrava di essere dentro la sequenza  di un film ambientato in Vietnam, 
invece era la realtà) abbiamo disceso un pezzo della collina fino ad 
arrivare davanti ad un gruppo di case, dove siamo stati avvistati da gente 
dalle finestre. Una signora aveva il telefono in mano e abbiamo capito che 
stava chiamando la polizia: eravamo in flagranza di reato di violazione di 
domicilio e in una situazione pericolosissima. Non potevamo continuare a 
scappare in quella boscaglia fitta che non sapevamo dove portasse, per cui 
abbiamo chiesto aiuto ad una signora anziana che ci osservava dalla 
finestra, fidando nel suo buon cuore. Ho dichiarato di essere giornalista e 
detto che eravamo stati presi in mezzo in un attacco tra polizia e tute 
nere e la signora, pur non riuscendo a capire nulla della situazione, ci ha 
permesso di entrare nel suo giardino e da questo, per una porticina 
secondaria, passare in casa e infine in strada, in corso Gastaldi, dove 
tutto sembrava finalmente tranquillo.
Tra il suono delle sirene delle autoambulanze e il rombo degli elicotteri 
che sorvolavano la città da cui saliva il fumo nero di un incendio e quello 
dei lacrimogeni sparati dalla polizia, la nostra fuga, ancora a volte 
inseguiti, è ripresa verso l'ospedale San Martino, e poi di nuovo verso il 
mare, là dove eravamo partiti la mattina.
Alle sette di sera siamo arrivati alla spiaggia stanchissimi, con gli 
elicotteri che ancora volavano sopra le nostre teste, ormai incapaci di 
continuare a fuggire. Gruppetti di bagnanti in mutande invece che in 
costume ci dicevano che non eravamo i soli in questa situazione. Poi alla 
fine il silenzio, la calma e il rumore del mare.

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Sono contenta di essere stata a Genova, perché ho visto con i miei occhi 
cose che dovevo capire e che forse non sarei stata in grado di credere: che 
non ci sono i buoni e i cattivi; che le tute nere non hanno altro obiettivo 
che provocare morte e distruzione e agiscono con apparente calma e non per 
rabbia; che sono organizzatissime e coordinate e sono ovunque e da nessuna 
parte; che la polizia, validamente   aiutata dagli elicotteri che dall'alto 
segnalavano ogni movimento nelle strade e identificavano i manifestanti in 
fuga, (sospetti o pacifici che fossero),  ha inseguito la gente, senza 
chiaramente nessun interesse di distinguere tra coloro che cercavano in 
qualche modo una via per tornare a casa e le tute nere, colpendo a caso e 
provocando feriti e terrore. Contando poi che tra i feriti e i fermati pare 
non ci sia UNA tuta nera viene il dubbio fortissimo che la caccia non fosse 
diretta a loro, ma al comune manifestante, al solo scopo di provocare 
panico e dare la chiara idea di quali sono oggi i rapporti di forza.
Ho visto e sperimentato che non c'è stato nessun tipo di prevenzione da 
parte della polizia che ha lasciato agire indisturbate le tute nere quando 
avrebbe potuto intervenire con una azione preventiva, scatenandosi invece 
alla fine in una caccia all'uomo e tagliando ogni via di ritirata verso i 
pullman e le auto e l'autostrada o la ferrovia a chi voleva andarsene 
pacificamente  dalla città. Genova è una città trappola e le tecniche di 
guerriglia delle tute nere e della polizia hanno trovato in questo terreno 
la loro migliore espressione.
Ho visto che la violenza cieca di polizia e tute nere è diversa, ma non 
molto. Che poche centinaia di persone  decise a distruggere la città hanno 
impedito la risonanza mondiale della notizia incredibile di 300.000 persone 
riunite per manifestare in modo civile il loro dissenso al G8. Che è 
impossibile definire la matrice politica delle tute nere che fanno 
apertamente un gioco che  giova alla destra e favorisce la repressione e 
anzi porta la gente normale che si sente minacciata nella persona e nel 
patrimonio ad invocarla. Ben altra cosa è la rabbia, anche se talvolta 
pesante ed eccessiva, degli anarchici!
E dentro ho una rabbia e una angoscia grandissima, perché chiunque abbia un 
microfono può dire le enormità più incredibili, accusare senza prove solo 
per creare diffidenza e discredito e può contare su di una cassa di 
risonanza nazionale e internazionale, e di conseguenza quello che viene 
detto è alle orecchie di molti indiscutibilmente la verità, mentre le mie 
parole di verità arrivano a pochi che sono quelli che già pensano come me; 
perché è spaventoso un bliz della polizia in un dormitorio che ha come 
bilancio finale 90 arresti e 66 feriti, che significa che per ogni tre 
arrestati ci sono due feriti (e a questo punto che siano  tute nere o 
civili inermi non importa più: è un macello)!
Dalla giornata di sabato mi è rimasto il terrore per il rumore degli 
elicotteri e la sensazione di essere braccata: e io ho 54 anni, non sono un 
elemento politicamente attivo, ero con gente senza appartenenza politica e 
profondamente pacifista. Oggi sto rivedendo le mie posizioni e ho paura che 
la rabbia prenda il sopravvento.



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Sono andata a Genova sabato 21 perché in me c'è il bisogno fondamentale di 
vedere con i miei occhi, partecipare in prima persona agli avvenimenti per 
riuscire a capire e sentirmi parte del mondo in cui vivo.
A Genova andavamo in tanti per manifestare il nostro pesante giudizio 
negativo e il nostro disprezzo per un  mondo che ha come interesse massimo 
l'economia e che dal denaro e dalle sue logiche si lascia guidare.
Nei venti giorni precedenti il G8 i giornali italiani hanno contribuito, 
con le loro previsioni catastrofiche e spesso infondate di violenza,  alla 
costruzione del dramma che è stato poi messo in scena a Genova venerdì 20 e 
sabato 21 luglio. La ricerca dei giornalisti in quei giorni sembrava essere 
tutta tesa a cercare di capire non "se"  ma "in quale modo" si sarebbe 
arrivati allo scontro, sottolineando previsioni di inevitabili violenze. In 
questo modo molti lettori sono stati spinti a sentire dentro di sé 
legittimo l'uso della repressione da parte della polizia, senza indagare in 
modo serio le motivazioni alla base delle manifestazioni di dissenso. 
Sembrava di vederli, i giornalisti, tutti attenti a vedere chi per primo 
sarebbe riuscito a scattare le foto dei morti ormai in programma.
Giovedì sera, quando sono arrivate le prime notizie di un corteo di 
migranti pacifico e addirittura festoso non riuscivo a crederci. Venerdì 
invece, ancora prima di sapere della morte di Giuliani, ho capito che la 
tensione era tale che il morto era ormai questione di ore; a quel punto 
però la mia decisione di partire non poteva più essere messa in 
discussione: dovevo esserci, dovevo capire che cosa si stava scatenando, 
dovevo vedere con i miei occhi; anche se certamente nessuno poteva 
assolutamente immaginare una tale furia cieca da parte della polizia.
Poi la cronaca, anche la mia personale, che parla un corteo inseguito, 
spezzato, colpito a caso qua e là con una inumana violenza; un corteo a cui 
è stato impedito ogni normale deflusso verso l'uscita dalla città e quindi 
verso una qualsiasi conclusione; parla di fughe, di inseguimenti, di 
rabbia, di disperazione, di paura, di terrore della morte che sai che ti 
aspetta ma non sai se al fondo di questa o di quella strada; del rombo 
degli elicotteri che ti inseguono per snidarti, del rumore assordante dei 
lacrimogeni, decine e decine,  sparati contro di te da 10 metri di 
distanza; e parla del soffocamento, quel terribile annebbiamento, quella 
fatica a vivere, a dominare il terrore cieco che ti prende; parla del 
ricordo dell'Argentina e del Chile anni settanta che ti prende mentre 
scappi non sai dove e non sai per quanto; dell'incredulità che in Italia la 
democrazia sia stata soppressa in soli tre giorni. Parla del rumore degli 
scarponi della polizia che ti insegue, ti bracca, arrivando da tutte le 
direzioni, impedendoti di arrivare in qualunque posto sicuro o di fermarti 
nella tua fuga per riprendere il fiato. Parla delle grida di 
terrore,  della  mancanza di umanità, della fine della pietà, della 
cancellazione della dignità; parla della fine della giustizia, della fine 
di uno stato civile con elementari garanzie di legge; parla di connivenza 
della polizia, o almeno di tolleranza, con i veri registi delle 
distruzioni; parla di black bloc molto più simili ad ordinate e 
programmate  bande di nazi che ad anarchici imbottiti di frustrazione e di 
rabbia.
Ad un mese di distanza cerco di superare l'angoscia che ancora mi fa 
sussultare al rumore di un elicottero e cerco di trovare un filo logico in 
quello che è successo: perché credo che se non capiamo davvero quello che 
succede e il perché di tutto questo non abbiamo in mano nessuna arma per 
difenderci in futuro.
Credo che questa dimostrazione di violenza così totale avesse lo scopo di 
dimostrare in modo assolutamente inequivocabile che la polizia, e lo stato 
che la finanzia, può ridurti in una situazione di terrore non umano, che il 
Potere sta nelle mani di chi ha strumenti così convincenti, e che può 
esibirli e utilizzarli quando vuole: non importa che li usi, tu sai che li 
può usare quando vuole. Credo che la democrazia è una facciata di elezioni 
e giochi politici, ma il governo vero sta nel capitale e nelle sue leggi 
più o meno nascoste e che opporti a queste è a rischio della vita.
Credo anche che tutto questo abbia nascosto il vero gioco che si stava 
giocando nella zona rossa: la non firma degli accordi per la preservazione 
della terra come unico ecosistema mondiale in nome oggi di maggiori 
ricchezze in denaro per pochi. Tra i tanti esempi di questa cieca e stupida 
politica del guadagno facile ed immediato posso citare l'arcipelago delle 
Maldive: più di 1500 isole, 300.000 abitanti con una cultura, una 
tradizione, una storia, piante, fiori, uccelli, suoni, colori, a causa 
dell'innalzamento delle acque dei mari dovuto all'effetto serra tra venti 
anni non esisteranno più e i maldiviani sopravvissuti alla catastrofe 
saranno sparsi sulla terra come profughi perenni, e a causa di questo 
l'umanità intera avrà subito una perdita irreparabile.
Rivendico quindi il mio irrinunciabile diritto a partecipare, a manifestare 
le mie opinioni, il mio assenso o dissenso, come, quando e dove voglio, nei 
limiti impostimi dalle leggi democratiche che dovrebbero regolare questo 
paese e con le salvaguardie che queste leggi mi dovrebbero garantire.
Lo rivendico, questo diritto, per me, ma anche per tutti coloro che non 
hanno la voce e la forza per affermare i propri diritti.

Paola