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lettera di Ettore Masina (maggio)
LETTERA 61 maggio 2000
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Leggendo sui giornali italiani i commenti al 25.mo anniversario della
vittoria vietnamita nella guerra di liberazione, mi sono tornate alla mente
alcune imma-gini e alcuni libri.
Le immagini sono quelle dei cimiteri che costellano le regioni del Nord:
tombe vuote, "virtuali": dopo il conflitto, il poverissimo Vietnam non ha
potuto af-frontare il costo economico della traslazione di un milione di
militari morti combattendo al Centro e al Sud del paese, ma le famiglie
hanno voluto almeno un cippo sul quale posare un fiore. E, anche, le
immagini che ho rivisto nella memoria, sono quelle dei "bambini-granchi",
come un giornalista europeo li de-finì una volta: quelli cui, a
Hochiminhville, la dottoressa Nguyen Thi Ngoc Phuong, chiamata per questo
"la mamma dei mostri", cercava, con sapienza e tenerezza, di dare sembianze
umane: piccini stravolti da orrende deformità, nati da madri avvelenate
dall'Agent Orange, il defoliante alla diossina irrorato dagli americani su
grandi zone del Vietnam per stanare i partigiani dalle giungle. (Bambini
così nascono ancora, a centinaia: l'avvelenamento passa di generazio-ne in
generazione). Ho rivisto le montagne desolate in cui le immense foreste
tropicali sono state ridotte dalla diossina a macchie di sterpi: neppure
più le far-falle né gli uccelli, soltanto zanzare e cobra. E ho rivisto nei
ricordi le catacombe di Cuu Chi, nei pressi di Saigon, capitale del Vietnam
del Sud e dell'armata americana: 240 chilometri di cunicoli in cui le
"ombre gialle" si nascondevano, curavano i feriti, addestravano le reclute,
sbucando poi alle spalle del nemico, da pertugi che si aprivano nelle
risaie. Un immenso formicaio umano, poiché anche questo fu la guerra in
Vietnam: un popolo di minuscoli guerrieri in lotta contro la più potente
macchina militare della storia. L'opinione pubblica mondiale lo comprese,
in molti luoghi della Terra - e anche in Italia - fu appassionatamente con
i soldati dello zio Ho e con i patrioti del Sud.
Ho trovato anche, incise nei miei ricordi, le immagini atroci dei film
americani che coraggiosamente denunziavano i crimini di una politica
dominata dagli inte-ressi dell'industria pesante, da un'ossessiva
convinzione che l'Asia potesse di-ventare un continente "rosso"; e
raccontavano lo svilimento umano prodotto da
un militarismo ottuso e feroce: "Apocalipsis now", "Full Metal Jacket",
"Plat-oon", "Il Cacciatore", "Nato il 4 luglio"…In quei film, i vietnamiti
quasi non c'erano, se non come ombre nella giungla, belve infide mescolate
alla gente dei villaggi. Contro di loro, un immenso stuolo di ragazzi
supernutriti e superarmati spinti all'uso della tortura sui nemici e
consegnati alla disperazione dall'impos-sibilità di comprendere la tragedia
in cui erano coinvolti e che giorno dopo gior-no minava la loro stessa
umanità. Nella conclusione di uno di quei terribili film i "rangers"
avanzano verso un orizzonte in fiamme, cantando "Topolin, Topolin, viva
Topolin". Ritornati bambini, terrorizzati e feroci.
E anche libri, dicevo, ho ricordato: libri di autori americani come
Fitzgerald e Karnow, O' Brian e Currey, ma anche Nixon e McNamara e
Kissinger; e tutti, anche quelli scritti per difendere le ragioni della
guerra, costretti ad ammettere l'inutilità dell'avere messo a ferro e fuoco
l'intera ex Indocina (non soltanto il Vietnam ma anche la Cambogia e il
Laos); a riconoscere i crimini della CIA (come l'assassinio, per ordine di
Kennedy, dei fratelli Diem, dittatori sudviet-namiti: o la propaganda
menzognera per incentivare la fuga dei cristiani del Nord); ad ammettere le
bestiali atrocità commesse dai militari di Saigon (le "gabbie di tigre", le
prigioniere violentate dai cani…).
Anche questo, infatti, fu la guerra nel Vietnam: la tragedia, la barbarie,
il cini-smo dei politicanti, ma anche il coraggio dei democratici americani
- giornalisti, intellettuali, studenti e reduci - e di molti, moltissimi
cristiani che insorsero con-tro la perpetuazione degli orrori, per
testimoniare la verità contro la propaganda "ufficiale" e l'escalation
delle armi.
Perché ho ricordato queste immagini e queste letture? Perché nella
stragrande maggioranza dei giornali italiani nelle scorse settimane si è
parlato esclusivamente o quasi dei maltrattamenti ai prigionieri americani,
dei campi di punizione per i collaborazionisti del governo di Thieu, delle
persecuzioni che spinsero centinaia di migliaia di cino-vietnamiti a
trasformarsi in boat-people, disperati fuggiaschi per mare. E lo si è fatto
cancellando ogni altra realtà, com'è proprio del revisionismo storico che
nega le tragedie altrui per cancellare ogni ricordo delle colpe della
nostra "civiltà occidentale e cristiana".
Io credo, invece, che con pietà e con coraggio noi dobbiamo mantenere la
memoria delle tragedie, delle crudeltà, delle sofferenze e anche degli
eroismi che segnarono la storia del secolo che va concludendosi. Quando,
come si è fatto in questi giorni (assai più nell'Italia berlusconiana che
negli Stati Uniti), si pretende di giudicare non il presente ma il passato
del Vietnam, non si può dimenticare che gli aerei americani lanciarono sul
Vietnam tre volte più bombe di quante ne furono usate su tutti i fronti del
secondo conflitto mondiale. Le vittime vietna-mite furono più di tre
milioni; un milione le vedove, ottocentomila gli orfani. Distrutti tutti i
ponti, gli ospedali, le scuole, le fabbriche. E Saigon contava, alla fine
della guerra, - sono cifre di fonte americana - un milione di prostitute e
prostituti, di "borsari neri", di spacciatori di droga...
Dimenticare tutto questo e dimenticare la ferocia dei colonialismi che per
secoli devastarono il Vietnam significa negare la complessità della storia
per affermare una brutale, ottusa parzialità. La vittoria vietnamita
rimane, nonostante tutto, il simbolo delle capacità dei Piccoli di non
arrendersi allo strapotere dei Grandi.
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(Questo spazio avrebbe dovuto essere riempito da qualche parola di gioia.
L'altro ieri e ieri -7 maggio - le telefonate si sono susseguite sino a
sera, con l'allegria di chi vede realizzarsi un caro sogno: "Hai sentito?
Il Papa dichiarerà martire monsignor Romero". Confesso di avere pensato:
anche questa volta Giovanni Paolo Secondo mostra capacità profetiche che
scavalcano la triste (per non dire peggio, molto peggio) prudenza della
curia vaticana. Non è accaduto. Marco Politi su "La Repubblica" di oggi
scrive: "Una sola mancanza o uno scandalo, come sostengono in molti: fra le
testimonianze (nella cerimonia di ieri sera, nota mia) non si è ricordata
nessuna vittima dei regimi cristiani, quelle dittature che specie in
America Latina ammazzavano; recandosi ossequienti alla messa. "I martiri
della civiltà occidentale cristiana" commenta il vescovo salvadoregno Rosa
Chavez su Trenta Giorni. Il nome del vescovo Romero, assassinato in
Salvador dalle squadracce della oligarchia di destra, dimenticato alla
vigilia, viene infilato frettolosamente in una preghiera. Ma non la
pronuncia il Papa, com'era stato preannunciato in Vaticano all'ultimo
momento".
E ci sono da aggiungere due particolari che rendono tanto più grave
l'afonìa del Papa. Il primo è che era stato lo stesso portavoce vaticano,
Navarra, ad annunziare in sala stampa che il pontefice avrebbe nominato
Romero; il secondo che neppure in quella preghiera si è parlato degli
assassini di Monsignore; indicati per gli altri due vescovi di cui è stato
fatto il nome: i quali assassini - guarda caso! - sono per l'uno un gruppo
di indios e per il secondo un gruppo di guerriglieri colombiani. Insomma
nessuno, tanto meno il Papa, tocchi gli amici del cardinale Sodano, i buoni
vecchi generalissimi, i pii terratenientes!
Sento la risata sarcastica di qualche persona cara che mi addebita
un'ostinata fedeltà a una Chiesa incapace di riconoscere i suoi figli
migliori. Ma è la stessa Chiesa nella quale Romero stava consapevolmente,
perché ci stavano anche i poveri. Essi, i poveri, continuano ad essere la
mia bussola anche quando i cardinali preferiscono la "gente con l'anello al
dito" (v. la Lettera detta di San Giacomo) e, come spesso avviene, i vecchi
papi non riescono più a scostarsi dai loro "consiglieri".
Ettore Masina
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