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l'"onore italiano" ad El Alamein (secondo Ciampi)



From: "Enrico Peyretti" <peyretti@tiscalinet.it>

Lettera aperta al Presidente Ciampi
LA GUERRA E' SEMPRE UN DISONORE

Caro Presidente Ciampi, a quanto posso apprendere da un giornale (La
Stampa, 18 febbraio), Lei, in visita ad El Alamein, al cimitero dei soldati
italiani uccisi (non è esatto chiamarli "caduti") in quella battaglia,
avrebbe detto che essi morirono "per seguire la voce dell'onore, della
lealtà, del dovere". 
Ora, noi sappiamo che, nella loro buonafede, e comunque privi di libertà,
quei poveri soldati combattevano una guerra assolutamente ingiusta, voluta
da un governo dittatoriale ed aggressivo, e che quindi nella loro azione
non ci fu oggettivamente né onore, né lealtà, né dovere. La verità è che
quel dovere non lo avevano, ma avevano il dovere contrario, di disobbedire.
Che non potessero saperlo e capirlo, è un fatto per cui ne abbiamo
rispettosa pietà, ma questa verità va detta sempre.
Ad un comando ingiusto essi avevano obbedito non per motivi nobili, ma per
ignoranza, per impreparazione civile e morale, per i danni interiori subiti
dall'educazione fascista e dal tradimento di tanti che avrebbero dovuto
essergli maestri di intelligenza e di coscienza. Essi furono vittime,
mandati a fare altre vittime. Noi possiamo comprenderli e scusarli, ma non
possiamo dire che fu onorevole l'azione in cui morirono. L'idea di patria
non basta a giustificare e nobilitare ogni azione, compiuta abusivamente
nel suo nome, tanto più se si tratta di azioni di guerra.  
Quei soldati, mandati per uccidere altri uomini strumentalizzati come loro,
furono uccisi perché non furono i più svelti e i più attrezzati
nell'uccidere. La loro morte è da compiangere con viva pietà, ma non è
umanamente onorevole: è invece uno dei modi più tristi e umilianti di
morire, perché è un morire da potenziali omicidi. 
Chi combatte - o è trascinato a combattere - con armi che uccidono, invece
che con la forza della ragione e della dignità umana, non può sfuggire ad
una di queste sorti: o uccide, ed è un omicida; o è ucciso mentre è
nell'animo un potenziale omicida; o se la cava per fortuna, ma era
moralmente disposto ad uccidere; o ne esce vivo perché ha pensato
soprattutto a salvare la pelle (e questa è cosa buona, perché così ha
salvato, per quanto poteva, anche la vita del "nemico"). C'è poi una scelta
più grande: quella di chi, trascinato nella guerra, si rifiuta di uccidere,
pronto a morire piuttosto che uccidere, come fece, tra tanti altri ignoti,
il soldato Guido Plavan, di Torre Pellice, nella prima guerra mondiale:
egli usciva con gli altri dalla trincea lasciandovi il fucile, oppure con
il fucile scarico, col consenso del tenente Carlo Lupo (questa storia è
narrata nel volume Le periferie della memoria, Profili di testimoni di
pace, ed. ANPPIA e Movimento Nonviolento, 1999). Plavan ebbe la fortuna di
non essere ucciso, e visse dando frutti di pace. Chi fa così disobbedisce
al comando guerresco, ma è il più fedele e coraggioso difensore
dell'umanità di noi tutti.
La sorte di chi muore in guerra da combattente è triste ed anche
vergognosa, come ogni partecipazione alla guerra. La quale è sempre
paragonabile alle lotte mortali tra gladiatori, volute da poteri e da
mentalità che usano gli uomini come pedine in giochi disumani. La guerra è
orrenda non perché siano moralmente orrendi gli uomini che la combattono,
ma perché fa fare cose orrende anche a persone buone, che quelle cose non
farebbero mai, cose che poi non hanno l'animo di confessare. Qui sta il
carattere infernale, imperdonabile, intollerabile, dello strumento e
dell'istituzione guerra, sia di offesa che di difesa, che deve essere
finalmente del tutto "ripudiata", come ci impone la Costituzione, vero
onore, essa sì, dell'Italia.
Solo la Resistenza popolare al nazifascismo fu una guerra "giusta" (meglio:
giustificabile), ma solo in quelle precise e limitate circostanze temporali
e culturali, perché oggi, a differenza di allora, si conoscono esperienze e
metodi di lotta non armata e nonviolenta (citati anche nella legge
230/1998, art. 8), con possibilità di efficacia, che permettono di
emanciparsi dall'uso contraddittorio e controproducente di un mezzo
ingiusto - come sono senza dubbio le armi - per uno scopo giusto. 
Il giornale citato scrive che anche Lei combattè nella seconda guerra
mondiale per lo stesso senso dell'onore, della lealtà, del dovere che ora
rivendica per i Suoi commilitoni caduti (uccisi). Io amo credere invece
che, in questo ricordo, Lei abbia sentito di nuovo l'umiliazione e il senso
di fallimento umano che non può non venire dall'aver dato mano alla guerra,
qualunque essa sia, e tanto più quella ingiustissima; sentimento
riscattabile e riscattato da chi ha poi agito per la pace e la giustizia.
Perciò trovo che Lei ci ha dato una lezione di civiltà, di cui Le sono
grato, visitando, con la stessa pietà, anche le tombe dei soldati "nemici"
uccisi dagli italiani in quella battaglia. L'onore distrutto dalla guerra,
da ogni guerra, si ricostruisce proprio ritrovando la comune umanità, al di
là delle assurde ragioni di odio con cui politiche disumane spinsero gli
uni contro gli altri uomini non capaci in quel momento di difendersi da
quelle politiche. 
Da cittadino attivo, insieme ad altri, nel Movimento Nonviolento di Aldo
Capitini (il cui magistero e testimonianza di pace Lei poté forse
incontrare nella Scuola Normale di Pisa), impegnato nel cercare le ragioni
più alte della nostra convivenza - che risiedono nella pace, nella
giustizia, nella libertà solidale, e non nella sopraffazione bellica o
economica, non nella giustificazione storica delle ingiustizie - vorrei
modestamente contribuire a difendere la nostra patria dalla più grave delle
sconfitte, che è ogni ricaduta nel mito disonorevole della guerra. 
In questo tragico errore anche recentemente il nostro paese si è lasciato
trascinare, incapace di vedere e volere le alternative all'uso
dell'omicidio organizzato dallo Stato, utile solo ai fabbricanti di armi,
ai loro committenti e agli speculatori, tutti servi della morte. Tali
alternative esistono sempre, e le si vedrebbe se solo si avesse
l'immaginazione, la volontà e la cultura di pace per conoscere e sviluppare
i metodi per le soluzioni costruttive dei conflitti, col prevenire e con
l'opporsi alle soluzioni distruttive. Ciò era possibile, innegabilmente,
anche nella crisi del Kossovo, come le analisi più serie e più libere hanno
dimostrato.
Le propongo queste considerazioni con rispetto, fiducia e franchezza, in
questa lettera aperta e pubblica, data l'eminente importanza pubblica
dell'argomento. Le sarei grato, e non solo io, di una Sua risposta
parimenti pubblica. 

Torino, 21 febbraio 2000
Enrico Peyretti