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(Fwd) [CacaoElefante] Il quotidiano delle buone notizie Edizione del Sabato



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Date sent:              23 Oct 2004 00:30:01 -0000
To:                     cacaoelefante at alcatraz.it
Subject:                [CacaoElefante] Il quotidiano delle buone notizie 
Edizione del sabato 
From:                   "C at C@O quotidiano" <quotidiano at alcatraz.it>





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~-~-~ 23 ottobre 2004 ~-~-~

Edizione del sabato
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Un secolo di conflitti in Medio Oriente, di David Hirst, in Italia
grazie alla Nuovi Mondi Media. Ne pubblichiamo un estratto. Buona
lettura.

L'ASSE DEL MALE: L'AMERICA ADOTTA COME PROPRI I
NEMICI D'ISRAELE

Lungi dal preoccuparsi per la dubbia compagnia che seguita a
frequentare, l'America di George Bush figlio e dei suoi tirapiedi
neoconservatori intrattiene con essa rapporti più stretti che mai.
Dopo l'11 settembre si è quasi schierata con Sharon, "l'uomo di pace
di Bush", ha quasi assimilato la sua guerra con Arafat e i 
palestinesi
alla propria contro "l'asse del male", al-Qaeda e il terrorismo
internazionale. C'è stato, è vero, un periodo di incertezza e
tentennamento, in cui sembrava che Bush avesse intuito che le
politiche mediorientali dell'America, e non solo i suoi valori,
avevano qualcosa a che fare con le avversità che l'avevano colpita.
Fu, probabilmente, una genuflessione davanti a Colin Powell e a 
quella
parte più equilibrata e ragionevole, ma più debole, della sua
Amministrazione, che il suo segretario di stato sembrava
rappresentare. Iniziò con una dichiarazione del presidente circa la
necessità di uno stato palestinese, una dichiarazione a lungo attesa 
e
tutt'altro che rivoluzionaria, ma sufficiente perché la Lobby e la 
sua
claque al Congresso la denunciassero come un segno di
"arrendevolezza". "Significa", ha detto Mortimer Zuckerman, a capo
della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebree
Americane, "che se attacchi l'America ottieni qualche cosa". Sharon
stesso si spinse oltre: per lui quella posizione sapeva di
Cecoslovacchia, di Monaco nel 1938. Ma il tentennamento non durò a
lungo. Nell'estate del 2002 Bush aveva già fissato la sua nuova linea
di condotta: "cambio di regime" e riforma dei mondi arabo e musulmano
e, laddove necessario, l'intervento militare americano per conseguire
tali scopi.

Fu così che l'America che all'inizio del XX secolo aveva insistito,
provocando la costernazione delle potenze coloniali europee, sulla
necessità di tener conto dei desideri liberamente e democraticamente
espressi dai popoli arabi, ora intendeva imporre ad essi la
"democrazia" con le armi. Era il nuovo imperialismo "transatlantico"
del XXI secolo sotto un altro nome. Si cominciò con l'Iraq: dopo
l'Afghanistan, fu lì che ebbe luogo la promessa "fase due" della
"guerra al terrorismo", fu lì che s'ingaggiò la battaglia decisiva 
tra
il bene e il male. Fino a quel momento, si era pensato che la
"connessione" tra le due problematiche rendesse molto difficile, se
non impossibile, che gli Stati Uniti potessero muovere guerra in una
delle due grandi zone interessate dalla crisi mediorientale, l'Iraq e
il Golfo, prima di aver almeno in parte risolto i problemi più annosi
ed esplosivi nell'altra area, la Palestina. Conquistare e occupare
l'Iraq, permettendo al contempo a Israele di continuare a depredare 
la
Palestina, equivaleva a una nuova, terribile, espansione della
politica dei due pesi e delle due misure; fu vista come 
un'aggressione
contro l'intero mondo arabo. Ma la risposta dei neoconservatori era
quanto mai semplice; si limitarono a capovolgere la questione. La
strada per muovere guerra all'Iraq non passava più per la pace in
Palestina; era piuttosto la pace in Palestina o, per essere più
precisi, la totale sottomissione dei palestinesi, che passava per la
guerra a Baghdad. La nuova teoria fu esposta esaurientemente, in 
tutta
la sua megalomania, da Norman Podhoretz, il veterano dei luminari
intellettuali neoconservatori, nel numero di settembre 2002 della sua
rivista Commentary. I cambi di regime, proclamava, erano "la conditio
sine qua non in tutta la regione". E quelli che "meritano ampiamente
di essere rovesciati e sostituiti non si limitavano" ai due membri
mediorientali ufficialmente designati dell'asse del male di Bush.
"Quanto meno, l'asse va allargato alla Siria, al Libano e alla Libia,
nonché ad 'amici' dell'America come la famiglia reale saudita e Husni
Mubarak d'Egitto, oltre all'Autorità Palestinese, sia essa guidata da
Arafat o da uno dei suoi scagnozzi".

Un'epurazione così estesa, diceva, avrebbe potuto "spianare la strada
a quella riforma internazionale e modernizzazione dell'Islam attese 
da
tempo". D'altro canto, poteva anche non riuscirci. "È innegabile che
l'alternativa a questi regimi potrebbe facilmente dimostrarsi
peggiore, anche (o specialmente) se assume il potere in seguito a
elezioni democratiche" perché "un gran numero di persone nel mondo
musulmano simpatizza con Osama bin Laden e voterebbe per candidati
islamici radicali della sua specie se gliene venisse data la
possibilità". "Ciò nonostante", proseguiva impavido, "c'è una 
politica
che può scongiurare questa evenienza, purché gli Stati Uniti siano
disposti a combattere la Quarta Guerra Mondiale - la guerra contro
l'Islam militante - per vincerla e purché poi abbiamo il fegato di
imporre agli sconfitti una nuova cultura politica".

Questa, ovviamente, era un'elaborazione compiuta e definitiva di quel
progetto, A Clean Break (Un taglio netto), che alcuni spiriti affini 
a
Podhoretz, avevano presentato al premier israeliano Binyamin 
Netanyahu
già nel 1996. Era l'apoteosi della "alleanza strategica", un 
grandioso
disegno americano almeno quanto israeliano, e forse ancora di più. 
Con
il pretesto di privare l'Iraq delle sue armi di distruzione di massa,
gli Stati Uniti cercano di "ridisegnare" l'intero Medio Oriente,
facendo di questo paese fondamentale e riccamente dotato il fulcro di
un nuovo ordine geopolitico filo-americano. Assistendo a una
manifestazione così schiacciante della volontà e potenza americane,
altri regimi, e in particolare la Siria che sostiene gli hezbollah,
dovranno o piegarsi ai fini americani o subire una sorte analoga.

Con l'aggressione dell'Iraq, gli Stati Uniti non adottavano
semplicemente i metodi consolidati di Israele - dell'iniziativa,
dell'offesa e della prevenzione - ma ne adottavano anche gli 
avversari
come propri. L'Iraq era sempre stato tra i primi della lista; insieme
all'Iran era uno dei cosiddetti nemici "lontani", che ormai 
apparivano
più minacciosi di quelli "vicini", i palestinesi e gli stati arabi
confinanti, soprattutto da quando avevano iniziato a sviluppare armi
di distruzione di massa. Israele aveva sempre propagandato
l'implacabile determinazione a preservare il proprio monopolio in 
quel
campo. Aveva nutrito grandi speranze che George Bush padre
distruggesse Saddam Hussein e il suo regime con la Tempesta nel
Deserto. Quelle speranze si erano infrante, ma la prospettiva che
George Bush figlio completasse il lavoro che il padre aveva lasciato
incompiuto produsse in Israele un consenso raro. Non fu solo Sharon,
il superfalco del Likud, a incitarlo a procedere senza indugi, ma
anche Shimon Peres, il suo ministro degli esteri laburista, ritenuto
un moderato. Autore di tanti inganni e stratagemmi spudorati a spese
degli Usa nei primi anni della nuclearizzazione israeliana, questi 
ora
ammoniva solennemente una platea di Washington che posporre un 
attacco
all'Iraq avrebbe significato "assumersi forse lo stesso rischio che
l'Europa si assunse nel 1939 di fronte all'emergenza rappresentata da
Hitler".

Sharon era così eccitato per questo nuovo assetto mediorientale in
formazione, che disse al Times di Londra che "il giorno dopo" l'Iraq,
Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbero dovuti occupare dell'altro
nemico "lontano". Israele, infatti, aveva sempre considerato l'Iran
degli ayatollah come la minaccia maggiore tra le due, a causa del suo
peso intrinseco, della sua leadership fondamentalista, teologicamente
anti- sionista, del suo programma di armamenti nucleari più serio,
diversificato e, si supponeva, assistito dalla Russia, e della sua
affinità ideologica con organizzazioni islamiche come Hamas o gli
hezbollah, che forse sosteneva direttamente. Nulla, in effetti,
illustrava meglio dell'Iran l'ascendente che Israele e gli "amici
d'Israele" in America avevano sulle decisioni politiche americane.
Molto semplicemente, diceva l'esperto di questioni iraniane James
Bill, gli "Stati Uniti osservano l'Iran attraverso occhiali 
fabbricati
in Israele". A ben guardare, Israele non era soltanto l'unico
beneficiario, bensì il sostenitore di quelle sanzioni commerciali,
molto dannose per gli interessi economici americani, che il 
Presidente
Clinton aveva imposto all'Iran nel 1995 e che Bush, superato in
astuzia dalla Lobby, aveva rinnovato nel 2001, sia pure con
riluttanza. L'effetto deformante di quell'influenza è tale che,
secondo il Washington Post, Israele, con l'aiuto del Congresso, fu
determinante a far sì che la CIA, a spese della propria obiettività
professionale, adottasse una valutazione allarmistica della minaccia
missilistica rappresentata per gli Stati Uniti da paesi "canaglia"
come l'Iran, una valutazione che contraddiceva totalmente la sua
precedente ortodossia.

Convincere gli Stati Uniti della gravità della minaccia iraniana era
da tempo una delle prime preoccupazioni israeliane. All'inizio degli
anni Novanta, il deputato laburista ed ex ministro Moshe Sneh 
dichiarò
a un convegno presso lo Yaffe Center for Stategic Studies che Israele
"non poteva assolutamente accettare l'idea di una bomba atomica in
mano agli iraniani". Un simile evento poteva e doveva essere evitato
collettivamente, disse, "perché l'Iran minaccia gli interessi di 
tutti
gli stati ragionevoli in Medio Oriente". Tuttavia, "se gli stati
occidentali non fanno il loro dovere, Israele si vedrà costretto ad
agire da solo e assolverà al suo compito con ogni mezzo [vale a dire,
anche nucleare]". L'accenno di ricatto anti-americano contenuto in
quell'osservazione non era niente di eccezionale; era sempre stato un
motivo conduttore dei discorsi israeliani sull'argomento.

Un altro esperto, Daniel Lesham, incitava Israele a enfatizzare il
terrorismo iraniano e a "spiegare al mondo" l'urgente necessità di
provocare alla guerra quel paese. Altri ancora sostenevano che gli
Stati Uniti avrebbero dovuto demonizzare e isolare l'Iran 
assediandone
le coste e "stazionando navi da guerra, soprattutto sottomarini
nucleari, minacciosamente vicini" . La resa dei conti con l'Iraq non
ha fatto altro che incoraggiare questo modo di pensare, tanto più
visto che, a quanto riferiscono alcuni, l'impianto nucleare costruito
dai russi a Bushire, che iraniani e russi sostengono abbia scopi
pacifici, mentre israeliani e americani ritengono sia per scopi
militari, entrerà in funzione a breve. "Nel giro di due anni", ha
detto John Pike, direttore di Globalsecurity.org, "o gli Usa o 
Israele
attaccheranno [i siti nucleari] dell'Iran o accetteranno il fatto che
l'Iran sia uno stato nuclearizzato".


SENZA PACE ed. Nuovi Mondi Media.
Traduzione di Giuliana Lupi.

La Redazione: Simone Canova, Jacopo Fo, Gabriella Canova, Maria
Cristina Dalbosco

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