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----- Original Message ----- 
From: un ponte per ... 
To: non taglio la corda 
Sent: Friday, October 08, 2004 7:18 PM
Subject: INTERVENTO DI FABIO ALBERTI, PRESIDENTE DI UN PONTE PER... AL 
CONGRESSO NAZIONALE DELL’ARCI 



Car* amic*, vi inviamo l'intervento di oggi di Fabio Alberti che in parte 
risponde anche alle domande e ai dubbi che ci sono stati posti.
Da domani troverete sul sito www.unponteper.it un elenco dettagliato di 
risposte ai molti quesiti che sono stati sollevati in questi giorni (quelli a 
cui possiamo e riteniamo di rispondere)
Fraterni saluti
Ass. Un ponte per...

INTERVENTO DI FABIO ALBERTI, PRESIDENTE DI UN PONTE PER… AL CONGRESSO NAZIONALE 
DELL’ARCI 
ROMA, VENERDI 8 OTTOBRE 2004

Cari amici, Care amiche,
Grazie.

Grazie per esserci stati vicino, davvero molto vicino, nei giorni terribili che 
abbiamo appena trascorso. Grazie per la mobilitazione, per le fiaccolate, per 
gli appelli, per le telefonate, per gli sms per le e-mail. Grazie per aver 
compreso senza discutere alcune cautele che abbiamo chiesto al movimento. 
Davvero, insieme al meraviglioso mondo delle bandiere arcobaleno ci avete 
permesso di sostenere il peso della responsabilità che ci è piovuto addosso il 
7 di settembre. Avete contribuito, in modo determinante, a far si che tutti, in 
Italia facessero il loro dovere.

Grazie per l’onore che ci fate ad intervenire a questo vostro congresso. Al 
congresso dell’Arci, una associazione che Tom, il lampadiere, insieme a tutti 
voi, ci ha fatto considerare anche nostra, insostituibile per il ruolo di perno 
che ha svolto nel movimento dei movimenti, essenziale per favorire 
l’affermarsi, in Italia, della autonomia politica della società civile. Tom è 
stato maestro di tanti e se lo permettete, un po’ anche nostro. 
All’Arci tutta e a Paolo, suo nuovo presidente, che ne raccoglie il cammino, 
vanno i nostri più calorosi auguri. Continuate ad esserci vicino, ne abbiamo 
bisogno.

Abbiamo descritto la storia del rapimento e della liberazione di Raad, Manhaz, 
Simona e Simona come una metafora della guerra e della pace.
Lo abbiamo fatto innanzi tutto per non rischiare di guardare il dito invece che 
la luna. Per non perdere di vista il contesto. Il contesto non giustifica, ma 
spiega. Il contesto è un contesto di guerra, in cui atti di barbarie, ed il 
rapimento è un atto di barbarie, diventano normali. Per quanto dolore 
provassimo per i nostri cari non abbiamo mai scordato - e abbiamo chiesto di 
non scordare mai - che loro erano solo quattro di molti milioni di ostaggi. 
Ostaggi sono gli altri occidentali e gli iracheni rapiti, ostaggi sono le 
persone incarcerate da mesi senza accuse specifiche, ostaggi sono i bambini che 
non possono andare a scuola, ostaggi sono i giovani che non possono arruolarsi 
nella polizia, ostaggi sono i civili nelle città assediate e bombardate 
dall’alto. Oggi un raid aereo su Falluja ha colpito una festa di nozze. 11 
morti e 17 feriti. Ostaggio è l’intera popolazione irachena. Oggi Kennet Bigley 
è stato barbaramente trucidato. Nella situazione irachena non abbiamo il 
monopolio del dolore. E le immagini di decapitazioni si alternano nella nostra 
mente a quelle di Abu Ghraib. Barbarie contro barbarie.

Abbiamo letto decine di ricostruzioni sui motivi del rapimento e della 
liberazione. A noi sembra invece una storia semplice.

Raad, Mahnaz, Simona e Simona sono stati rapiti perché c’è la guerra e perché 
vi sono gruppi che considerano tutti gli occidentali, e tutti gli italiani in 
particolare, parte dell’occupazione del paese. Potrebbero esserci state cause 
scatenanti, ne abbiamo lette sui giornali alcune decisamente fantasiose. 
Potremmo fornirvi decine di altre ipotesi. Cercheremo anche noi di comprendere 
meglio, ma non cambierebbe il giudizio di fondo.

Raad, Mahnaz, Simona e Simona sono stati liberati perché la condanna del 
rapimento, la richiesta di rilascio e la pressione politica sul gruppo di 
rapitori è stata fortissima e generalizzata. Il gruppo che ha operato il 
sequestro è un gruppo politico religioso armato iracheno. Terroristi? 
Resistenti? Non sappiamo. Quello che sappiamo è che è stato sensibile alle 
pressione politiche del mondo arabo-islamico. 

Per questo abbiamo ringraziato innanzi tutto il mondo arabo e islamico 
attirandoci le ire di chi confondendo la parte per il tutto considera l’attuale 
guerra una battaglia di civiltà. Il mondo arabo islamico è stato il principale 
protagonista della liberazione, che piaccia o no. Poi ci sono stati molti altri 
attori. Tutti, veramente tutti, e ne abbiamo dato atto, in Italia, hanno fatto 
la loro parte.
Certo potevamo essere in mano di qualche oscuro disegno politico o di una banda 
di criminali, sarebbe andata diversamente, ma così non è stato.

Questa è la verità semplice che conosciamo, il resto sono dettagli che ci 
interessa approfondire, e lo faremo, ma che se messi in primo piano ci fanno 
perdere lucidità e visione realistica della situazione.

Per questo la liberazione di Raad, Manhaz, Simona e Simona è una metafora della 
pace possibile. 

Essa è stata ottenuta con il concorso di tanti utilizzando il metodo del 
dialogo e della collaborazione. E’ stata evitata ogni azione che potesse 
nuocere agli ostaggi, per una volta la vita è stata messa al primo posto. E’ 
stato cercato un rapporto negoziale. Si è cercata la collaborazione degli 
iracheni. Gruppi di resistenza compresi.

E’ stato detto, con scandalo, che vogliamo sostenere la resistenza. Certo 
sosteniamo la resistenza pacifica e nonviolenta all’occupazione, ma 
riconosciamo anche l'esistenza e la legittimità di una resistenza armata. 
Riconoscere la esistenza e la legittimità di forme di resistenza anche armata 
all’occupazione è una necessità politica. Senza questo passo non sarà possibile 
né avviare quel processo politico unitario interno alla società irachena che 
può portare alla pace, né isolare il terrorismo. Ha fatto bene ad esempio la 
Francia a chiedere che rappresentanze della resistenza armata siano invitate 
alla conferenza internazionale. Senza questo passo le elezioni previste in 
gennaio preluderanno alla guerra civile.

Ma riconoscere l'esistenza e la legittimità della resistenza armata non 
significa né condividerne i mezzi - gli attacchi ai civili sono crimini di 
guerra sia che vengano fatti dai bombardieri che dalle autobomba - né 
condividerne la scelta politica. La volontà di recupero della pace e della 
sovranità è talmente forte e diffusa in Iraq, in tutte le comunità, che è 
possibile e desiderabile una via pacifica, fatta di mobilitazione di massa e di 
disubbidienza civile. L'azione nonviolenta con cui si è messo fine all’assedio 
della moschea di Ali a Najaf e si è negoziato un accordo tra l’esercito di Al 
Mahdi e il Governo Transitorio crediamo lo dimostri. 

Ma c’è un’altra parte dell’Iraq a cui va dato riconoscimento di legittimità e 
rappresentatività.
E’ la società civile, è quella parte di società che non si fida del Governo 
Transitorio perché nominato dagli occupanti e non vuole imbracciare le armi 
perché questo prelude a nuovi intollerabili lutti per la popolazione. E’ 
probabilmente la parte maggioritaria della popolazione che chiede pace e 
sovranità. E’ compito nostro sostenere questa che crediamo sia la risorsa più 
importante per il futuro dell’Iraq e che oggi è schiacciata, quasi annichilita, 
dal fragore delle armi.

Ci si scandalizza anche per la richiesta di ritiro delle truppe, quando è 
chiaro a tutti che la presenza militare è oggi una parte del problema e non la 
soluzione. In termini semplici: dopo Abu Grahib, dopo l’assedio e il 
bombardamento delle città, l’esercito degli Stati Uniti e i loro alleati non 
sono credibili per nessuno in Iraq come portatori di pace e democrazia, se mai 
lo sono stati. Non c’è nulla da fare, anche se lo volessero non potrebbero. 
Certo ritirare le truppe non basta, lo abbiamo detto fino alla noia, occorre 
favorire e sostenere un processo politico unitario all’interno del paese, 
occorrono investimenti consistenti per la ripresa dell’economia e la 
ricostruzione, occorre il concorso di tutti i paesi dell’area, ma se non si 
comincia a ritirare gli eserciti non si potrà far nulla di tutto questo e si 
condannerà la popolazione ad un futuro di violenza.

E queste cose forse non bastano nemmeno.
La pace in Iraq, come in Palestina, come in Medio Oriente necessita di nuove 
idee.
Pensiamo che per scongiurare quello che chiamano lo scontro di civiltà e 
conquistare la pace in Medio Oriente, per noi e per loro, ci sia bisogno di una 
nuova capacità di analisi e di un nuovo ambizioso progetto politico culturale a 
cavallo tra l’Europa e il mondo arabo.
Il fondamentalismo si è sviluppato, anche con il sostegno iniziale dei paesi 
occidentali, sulla crisi o la sconfitta delle forze laiche che hanno guidato il 
processo di decolonizzazione e come reazione a governi dispotici e corrotti, 
filo-occidentali o meno, in gran parte dei paesi dell’area. 
Per battere il terrorismo, ancora oggi c’è stato un terribile attentato in 
Egitto, occorre che emerga una alternativa democratica, indipendente e 
credibile al fondamentalismo e ai governi cosiddetti arabi moderati. E perché 
sia credibile occorre che questa alternativa abbia basi solide non solo nel 
mondo arabo, ma nella società civile mondiale e in Europa. 
Un progetto politico culturale per la pace in medio oriente è un progetto che 
deve legare la parte migliore della società europea con la parte migliore della 
società araba e mondiale. Noi possiamo e dobbiamo contribuire a realizzarlo 
lavorando all’incontro e allo sviluppo di strategie comuni delle società civili 
europee e mediorientali.
Ma sono necessarie alcune condizioni politiche. Una è la rinuncia definitiva al 
controllo del prezzo dell’energia, l’altra è la rinuncia all’idea di 
universalismo dello stile di vita e dei modelli istituzionali occidentali.
Crediamo che il movimento se è per la pace e non solo contro la guerra ha molto 
da lavorare in questo senso e ne ha la possibilità. Abbiamo vissuto in questi 
ultimi anni una esperienza unica di lavoro comune ove contenuti, unità ed 
autonomia ci hanno permesso di affermare la società civile come attore politico 
in Italia. Le nostre idee hanno fatto molta strada dentro la società italiana 
dobbiamo continuare così. 
Ritorneremo in pazza tutti insieme il 30 ottobre, contro lo scontro di civiltà, 
contro il razzismo, per la pace, i diritti di tutti, per una nuova politica 
estera. Sarà una nuova occasione per dire che continuiamo a esserci e a essere 
una speranza per il futuro. 

Se permettete vorrei infine utilizzare questa occasione anche per togliermi 
qualche sassolino dalla scarpa. In questi giorni, come sapete, è in corso una 
campagna di denigrazione della nostra associazione e delle nostre operatrici. 
Pensiamo che questo riguardi tutto il movimento per la pace. Non parlo di 
Libero, la mazzetta di giornali è già nella mani degli avvocati. Parlo di 
un’opera più sottile tesa a mettere in dubbio le basi morali di chi fa 
solidarietà. 

No. Gli operatori di Un ponte per all’estero non guadagnano 7/8000 euro come 
qualche giornale ha scritto. Gli operatori di Un ponte per all’estero 
guadagnano 1200 euro, in Iraq hanno una indennità aggiuntiva di disagio di 300 
euro e si pagano il pranzo. 

No. Un ponte per non ha finanziamenti occulti. Il nostro bilancio è formato per 
un terzo dal vostro sostegno, dalle sottoscrizioni di privati, per un terzo da 
contributi di enti locali italiani e per un terzo da contributi delle Nazioni 
Unite e dell’Unione Europea. Il nostro bilancio è certificato a disposizione di 
tutti.

No. Non abbandoneremo l’Iraq. In questa vicenda abbiamo contratto un debito di 
riconoscenza verso la popolazione irachena. Ma non manderemo nemmeno gente allo 
sbaraglio a rischiare la vita in una situazione ove la percezione del confine 
tra umanitario e militare è stata ormai cancellata. Non abbiamo mai amato gli 
eroi.
La situazione ci obbliga a ripensare le modalità del nostro lavoro. Ne stiamo 
discutendo, e vorremo che questa discussione, che riguarda tutti, la facessimo 
insieme. Sappiamo che abbiamo una responsabilità in questo senso nei confronti 
di tutto il movimento.

Sì. Per l’ufficio di Un ponte per a Baghdad sono passati tutti, è passato 
Baldoni, come Gareeb e la Castellani. Dall’Ufficio di Un ponte per a Baghdad 
sono passati l’Ics, Intersos, Terres des Homme, la Cgil, Beati costruttori di 
pace, Pax Christi, la Fiom, la Uisp e molte altre organizzazioni E’ passata la 
delegazione di parlamentari contro la guerra. Nei 12 anni di nostra attività in 
Iraq sono passati sul Ponte artisti, atleti, professori universitari, 
giornalisti, parlamentari, assessori comunali, pacifisti nonviolenti, militanti 
antimperialisti, turisti, archeologi. 
Sono passati nei due sensi, dall’Italia all’Iraq, dall’Iraq all’Italia.
Molti di questi hanno stretto legami di conoscenza che hanno poi avuto uno 
sviluppo autonomo. Ne siamo felici. E’ questa la mission principale della 
nostra associazione che padre Balducci ha voluto definire “un ponte sul baratro 
scavato dalla guerra”. 
Siamo stati e vogliamo continuare ad essere strumento di incontro. Non incontro 
tra culture o tra civiltà, non abbiamo questa ambizione, semplicemente incontro 
tra persone di culture diverse, convinti che il conoscersi è il solo vero 
antidoto al razzismo e alla guerra. 
Vogliamo continuare a farlo. Nei prossimi mesi non potendo più portare gente in 
Iraq, insieme a voi dell’Arci e ad altre associazioni faremo il contrario: 
porteremo gli iracheni in Italia. Esponenti della società civile, delle 
associazioni femminili, dei diritti umani, degli studenti, dei disabili, dei 
sindacati, personalità religiose attraverseranno questo ponte per incontrare la 
società civile italiana. Teniamo molto a questo progetto lo consideriamo parte 
di quel progetto politico-culturale per la pace in medio oriente di cui 
riteniamo ci sia assoluto bisogno.

Vorrei finire con una citazione. Alle volte litighiamo tra di noi perché 
abbiamo una visione diversa delle cose. Alcuni vedono il bicchiere mezzo pieno, 
altri mezzo vuoto. Ebbene qualcuno ci ha detto che “il problema non è come 
vediamo il bicchiere, il problema è riempirlo”.
La frase è di Raad Abdul Aziz, operatore di pace rapito a Baghdad il 7 
settembre 2004 e liberato il 28 settembre.
Questa è anche la nostra e crediamo la vostra filosofia.
Grazie e ancora auguri
 
      
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