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Lo strappo della Croce rossa italiana



fonte L'unita'
di l.s.

 Un commissario straordinario perché è straordinaria la situazione e l'
ambiente in cui si muove la Croce Rossa italiana. Maurizio Scelli, avvocato,
è commissario straordinario della Cri dal dicembre 2002. Non ne è il
presidente perché dopo la fine del mandato di Maria Pia Garavaglia, la
situazione e la gestione dell'organizzazione umanitaria «impose» tale
scelta. Fu il secondo (e attuale) governo Berlusconi a prendersi la
responsabilità di nominare un commissario straordinario (Staffan de Mistura,
anche rappresentante personale del segretario generale dell'Onu, Kofi Annan,
per il Medioriente) e un vice-commissario straordinario. Scelli, appunto. De
Mistura abbandonò l'incarico per seguire solo il mandato delle Nazioni
Unite, anche dopo le pressioni in tal senso ricevute da Annan. Scelli passò
a essere commissario straordinario con la decisione presa dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri, il 3 dicembre 2002.
La mancanza di un presidente e la presenza di un commissario straordinario
della Cri lascia intendere una situazione in movimento, una gestione
transitoria in vista di una completa riforma dell'organizzazione. Una
riforma diventata obbligatoria e palese con lo studio fatto dalla Corte dei
Conti un anno dopo. La Cri, si leggeva nelle agenzie di allora, necessitava
di un'«adeguata e razionale regolamentazione della gestione dei fondi
ottenuti da pubbliche sottoscrizioni; di una tempestività negli accertamenti
ispettivi; di una severa limitazione del ricorso alla nomina di consulenti
esterni».
La particolarità della gestione della Cri, emersa anche negli anni
precedenti, si lega dunque a una nomina ministeriale di Scelli. A questa
particolarità, però, se ne lega un'altra. Una particolarità passata come
«umanitaria» ma che, in realtà, è del tutto «politica». La Croce Rossa
italiana, dal novembre del 2003, è l'unica -tra le organizzazioni nazionali
della Croce Rossa- ad essere presente in Iraq, dopo i gravi attentati
kamikaze contro le sedi Onu e della Cicr (il Comitato internazionale della
Croce Rossa) nella capitale irachena. Perché? La versione di Scelli fu
accolta da molti applausi: «Siamo lì da fine aprile, cioè da subito dopo la
fine della guerra, e siamo abituati a convivere con certe situazioni. Nel
nostro ospedale arrivano centinaia di persone, molti bambini, alcuni dei
quali in condizioni gravissime. Il lavoro è incessante, ma la gente non
smette mai di esserci grata. Non c'è tempo, lì, per aver paura».
Vero. Ma Scelli omise i «costi» di una tale scelta «umanitaria». Le
virgolette, senza sminuire il lavoro degli operatori della Cri a Baghdad,
sono d'obbligo. Tra i sette principi d'azione fissati dalla Federazione
internazionale della Croce Rossa (Cicr) di Ginevra (di cui la Cri italiana
fa parte), ci sono la neutralità e l'indipendenza rispetto alle «parti in
causa» in un conflitto. Gli attentati dell'autunno scorso, secondo Ginevra,
avevano azzerato la sicurezza per gli operatori umanitari. Dunque: per
rimanere l'unica possibilità era ricevere protezione militare, che almeno
nella prima fase fu garantita dai carabinieri. Ma ciò, avrebbe cancellato i
due principi di neutralità e d'indipendenza. Scelli accettò di pagare questo
prezzo. Forse la presenza della Cri in Iraq doveva rafforzare l'immagine
«umanitaria» della missione militare italiana?