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Vendola su Quattrocchi



La morte dell'ostaggio italiano, l'ipocrisia di una guerra d'aggressione, la
retorica patriottarda
Eroe di un mondo rovesciato


Hanno spalancato le porte dell'inferno. E nel frattempo ci indicavano il
paradiso posticcio dei valori occidentali. Ci hanno trascinato nel fango
morale e politico di una guerra di aggressione, illegittima e
strutturalmente bugiarda: bugiarda nei suoi pretesti, nei suoi sviluppi, nei
suoi esiti di orrore permanente. E nel frattempo mettevano ai saldi la
propaganda inacidita e talebana di Oriana Fallaci, in una sorta di
casereccio "cupio dissolvi" di ogni traccia di razionalità cristiana o di
intelligenza illuminista. Ci hanno aggregato, come protesi filantropica e
coda petrolifera, ad una avventura post-moderna e medievale, una
occupazione imperiale scandita dall'esproprio di storia, di cultura, di
risorse, di
vita, di una nazione complessa e totalmente sconosciuta agli strateghi
anglo-americani.
E nel frattempo ridavano fiato alle trombe della più bolsa retorica
patriottarda, con gli annessi sacrari di ossa italiche e di tricolori
esposti al vento di "Porta a Porta". Ci hanno impaludato nell'antica e
moderna Mesopotamia. E siamo lì, disonorati dinanzi alla nostra stessa
Costituzione, siamo lì prigionieri delle nostre stesse prigioni ideologiche
e affaristiche, siamo lì a morire e a uccidere: certo, l'uccidere elegante
del galateo delle regole d'ingaggio, l'uccidere anche bimbi che fanno da
scudo a donne che fanno da scudo a uomini che fanno da scudo alla propria
disperazione e al proprio odio. La nostre arte di uccidere è scevra da
pulsioni barbariche, conosce l'igiene delle morti oggettive, asettiche,
neutrali. Noi non spariamo alla tempia di un ostaggio, non fuciliamo un
prigioniero, non infieriamo su un ferito: queste cose magari le fanno gli
americani, che per questo non vogliono l'istituzione di un tribunale penale
internazionale, e anche se le fanno gli americani Bruno Vespa non lo sa, il
giornalismo "embedded" non vuol saperlo, meglio non scriverlo, non dirlo,
non trasmettere le immagini: la realtà che esiste, infatti, è solo quella
che buca lo schermo dei media e che rimbalza nella polemica politica.

Non se ne può più di questa mielosa girandola di cazzate ad alta tensione: i
nostri ragazzi, i nostri soldati, il nostro sangue, la nostra bandiera, la
nostra litania sugli "italiani brava gente". E le parole, come vorticano
leggere nel lessico di noi coalizzati e volenterosi: gli altri fanno le
stragi, noi rispondiamo al fuoco; gli altri sono tutti terroristi, noi tutti
liberatori; gli altri sono disumani e fanatici, noi siamo umanitari e
kantiani.

E in questa mafia degli aggettivi e dei sostantivi, si scioglie nell'acido
del conformismo marziale qualsivoglia domanda impertinente: dove sono le
armi di distruzione di massa? dove sono le folle festanti della maggioranza
sciita che ci avrebbe mitragliato di petali di fiori per questa offerta
generosa di democrazia d'importazione? dov'è la vittoria pur proclamata in
pompa magna da George W. Bush? E ancora: dov'è la pacificazione del Medio
Oriente? dov'è la disfatta delle reti terroristiche che ora s'intessono
anche dove prima non c'erano? E quante di queste domande affogano nei pozzi
di petrolio? quante abortiscono di aborti preventivi per non disturbare il
calendario delle elezioni americane ma anche di quelle europee? E infine:
dove siamo noi? Cosa facciamo? Chi siamo, certo noi chi siamo?

Chi era Fabrizio Quattrocchi, l'ostaggio giustiziato senza pietà, senza
neppure aver avuto la possibilità di guardare in faccia la propria stessa
morte, colpito alla tempia come un animale da macello in quanto simbolo di
un paese aggressore? Era una persona il cui strazio ci fa disperare. Nella
stessa maniera in cui ci spezza il cuore la strage degli anonimi, soldati e
civili, di tutte le razze, di tutti le fedi, crepati nel fuoco incrociato di
una guerra che è una forma pubblica e industriale di terrorismo. Ma Fabrizio
era un eroe, come ha detto senza pudore l'inquilino della Farnesina? Eroe
per quell'ultima frase? Ti faccio vedere come muore un italiano. Frase
straziante, certo, e disperata, e a modo suo orgogliosa, e spaventata,
pronunciata come in un soprassalto, come in un volo per saltare il fosso di
quella incombente premonizione di morte: ma eroe? un uomo che non è un
soldato, che non combatte per la causa ma per un salario dieci volte più
alto di uno stipendio medio, un uomo "arruolato" per le proprie abilità
combattentistiche da una azienda privata e ovviamente quotata in borsa?

Un mercenario - sia detto con la più indicibile pietà per Fabrizio -
sperduto nel labirinto di una guerra in cui agisce il trapassato prossimo (o
il futuro remoto) dei soldati di ventura e degli eserciti privati? Eroe come
Carlo Pisacane, come Salvo d'Acquisto, magari come Muzio Scevola? Già gli
eroi veri meritano più rispetto di quanto non ne consentano le fanfare, le
coccarde, le medaglie. Ma questo ragazzo andato a morire nella palude
irakena è l'eroe di un mondo capovolto, un eroe all'incontrario: eroe senza
peso specifico se non quello del suo corpo sequestrato in macelleria. Dai,
Frattini, fammi vedere come muore un italiano: e se invece di dire una frase
forte, si mette a piangere e a supplicare dinanzi al suo boia, non sarà un
eroe? Dai, Berlusconi, fammi vedere come muore un irakeno, non so se sciita
o sannita, se vecchio o bambino, e dimmi la differenza. Dimmi perché le
morti debbano essere diseguali come le vite. Dimmi per cosa valga la pena di
immolarsi.

Lo chiederei anche ai redivivi cantori dell'unità nazionale, quelli che
vedono con un occhio solo e parlano con due lingue: mettono a fuoco il
terrorismo, scongiurando che non colpisca a casa nostra, ma sfocano
l'inquadratura della guerra; quelli che dicono pace ma con l'elmo di Scipio
in testa. Questa infinita cosa che ancora scoppia a Kabul e che tracima ben
oltre Bagdad, questa guerra che i "neocons" americani vogliono preventiva e
permanente, questa lurida guerra del dollaro e del petrolio è anche la più
sofisticata macchina di distruzione del senso delle parole. Falsifica,
inquina, manipola pure le ombre. Come l'ombra triste di Fabrizio
Quattrocchi, eroe dello spreco di vita, eroe di se stesso e della nostra
globale, insaziabile, ipocrisia.

Nichi Vendola
(su "LIBERAZIONE" di domenica)