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[ba ro news] (#217) Barghouti sui crimini di Israele



Israele vuole il caos in Palestina
Una lucida analisi di Mustafa Barghouti

Premessa (c.n.)

Il precipitare della guerra in Iraq, ha distolto, per un verso, 
l’attenzione generale da ciò che avviene in Palestina, mentre dall’altro 
Sharon e Bush stabiliscono un asse di ferro tra criminali. L’appoggio 
incondizionato degli Usa al piano unilaterale israeliano del “ritiro” da 
Gaza non è una sorpresa, questa scelta dell’amministrazione statunitense, 
finalmente, toglie la maschera di “mediatore” ad un Paese, gli Usa, che in 
realtà non hanno mai mediato alcunché. Il balbettio dell’Europa, in ogni 
caso, non è meno ipocrita e non è il risultato del vertice Blair-Bush, ma 
di una politica “unilaterale” della UE che ha portato recentemente a 
stabilire rapporti di partenariato economico privilegiato con Israele. I 
“rimproveri morali” di Kofi Annan, non spaventeranno certo Sharon. Certo, 
il segretario generale dell’Onu di rende conto, a differenza di Bush, che 
accettare pienamente il “piano Gaza” significa portare all’esasperazione 
totale un popolo che letteralmente da solo affronta un genocidio lento ma 
inesorabile.
I paesi arabi, dal canto loro, vittime del ricatto imperialista, che con il 
piano per il “Grande Medio Oriente”, che cerca di realizzare in tutta 
l’area gli obiettivi che in Iraq si cerca di ottenere con la guerra, hanno 
saputo solo annullare la riunione della Lega Araba prevista per fine marzo.
Ora le provocazioni israeliane hanno raggiunto l’apice con l’assassinio di 
Abdel Aziz Rantisi, nuovo leader di Hamas, dopo l’assassinio dello Sheih 
Ahmed Yassin meno di un mese fa. Rantisi, l’uomo deportato in Libano, che 
durante gli anni trascorsi sotto le tende nell’inospitale no man’s land 
alfabetizzava i compagni di detenzione, era il leader della resistenza 
sicuramente più amato nella Striscia di Gaza. Eliminandolo Israele pensa di 
provocare una ulteriore frammentazione dei palestinesi. Non possiamo 
prevedere quale sarà la reazione, ma sicuramente non è decapitando la 
direzione palestinese che il dialogo sarà agevolato, tutt’altro. Il 
tentativo è quello di portare allo sbando totale le organizzazioni della 
resistenza, che però finora, hanno dimostrato molta maturità politica 
accelerando il percorso di rimessa a punto dell’unità nazionale palestinese.
L’articolo di Mustafa Barghouti, pur essendo stato scritto a marzo, ci 
permette di comprendere più a fondo le vere ragioni che hanno spinto Sharon 
a doversi inventare il piano su Gaza. L’articolo di Barghouti, inoltre, ci 
consente di capire perché i palestinesi non possono che proseguire la 
resistenza, con ogni mezzo a loro disposizione. (18 aprile 2004)
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L’ultimo stratagemma di Sharon: non cadiamo nella stessa fossa dei serpenti

di Mustafa Barghouti (segretario generale di Iniziativa Nazionale 
Palestinese e presidente del Comitato palestinese di soccorso medico ­PMRC-)


Una delle caratteristiche politiche cruciali è, forse, l’abilità di 
distinguere l’illusione dalla realtà. Un’altra è quella di attirare 
l’avversario in un labirinto di miraggi perché non riesca più a 
concentrarsi su ciò che è realmente importante.
Questo è precisamente quel che cerca di fare Sharon con i palestinesi e con 
il mondo, attraverso il suo piano per il “ritiro” unilaterale dalla 
Striscia di Gaza. Prima di analizzare la “chimera ” che Sharon cerca di 
realizzare, cerchiamo di vedere dapprima quale verità egli cerca di nascondere.

Sharon, l’uomo, non è mai cambiato e non ha mai cercato di cambiare le sue 
caratteristiche attuali. E’ lo stesso razzista fanatico che pensa di poter 
imporre uno status quo espansionista con la forza dei blindati e la 
distruzione. Il suo obiettivo è di raggiungere l’ebraicizzazione della 
Cisgiordania, e grazie a questo, di annullare ogni possibilità di creare 
uno Stato palestinese indipendente, uno Stato vitale e sovrano. Sharon 
vuole risolvere il problema demografico confinando i palestinesi in 
prigioni a cielo aperto, delle sacche isolate, dei ghetti isolati. Poiché è 
fallita la messa in opera del trasferimento esterno, spera di poter 
realizzare un trasferimento interno. Egli spera che un giorno i palestinesi 
emigreranno avendo perso ogni speranza di poter vivere una vita decente a 
casa loro.
In altre parole, Sharon spera di perpetuare l’occupazione insieme ad un 
sistema di apartheid, il peggior sistema che si sia mai visto nella storia 
umana.
La sua visione di un ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza mira a 
tirare fuori Israele da una profonda crisi economica, di sicurezza, 
politica e demografica, una crisi provocata da questa stessa occupazione 
che egli spera di perpetuare.
La principale causa della crisi israeliana non è solo la visione a breve 
termine dei suoi governi, ma anche la rinnovata sollevazione e la continua 
resistenza contro l’occupazione.
Israele capisce che si avvicina il momento ­ come con la prima Intifada ­ 
in cui il costo dell’occupazione supera i benefici che ne può trarre. Una 
situazione simile è una di quelle situazioni che Israele non può tollerare 
né sopportare, sarebbe una situazione che potrebbe portare forzatamente 
alla fine dell’occupazione, quindi a stabilire una pace reale.
All’epoca della prima Intifada, solo le inafferrabili strade di Oslo hanno 
potuto preservare Israele dalla crisi grazie a questo tallonamento 
laborioso nel corso del quale delle soluzioni parziali, transitorie e 
provvisorie, hanno soppiantato gli obiettivi della lotta dei palestinesi e 
le questioni cruciali del conflitto. Le penose carte di Oslo (le regioni A, 
B, e C) hanno distratto dalla questione dei profughi, dalla questione di 
Gerusalemme, dall’occupazione, dal problema delle colonie e delle frontiere.
A quell’epoca Israele aveva prospettato l’illusoria esistenza di una 
direzione nazionale [palestinese, ndt] interna e alternativa come 
meccanismo d’intimidazione e costringere l’Olp ad appiattirsi su Oslo, 
senza calcolarne le conseguenze. Oggi, la minaccia di vedere “Hamas 
impadronirsi del potere a Gaza” è usata con lo stesso scopo.
Non esiste un limite alle anomalie di Sharon che possono indurlo a brusche 
decelerate, ma è difficile negare la sua attitudine al calcolo strategico. 
E’ innegabile che il piano di Sharon per Gaza comporta la realizzazione di 
cinque obiettivi strategici:

1.
Distogliere l’attenzione dalle colonie e dal Muro, guadagnare tempo per 
proseguire la costruzione criminale del Muro, annettere ed ebraicizzare al 
meno il 58% della Cisgiordania e trasformare il resto in prigioni, cantoni 
e ghetti. Ciò annienterà ogni speranza verso uno Stato palestinese 
indipendente e sovrano così come verso una pace reale.

2.
Spingere i palestinesi in una guerra civile alfine di minare sia l’Autorità 
Nazionale Palestinese che i movimenti nazionalisti e islamici, favorendo 
così la frammentazione dei palestinesi e la riduzione della loro direzione 
nazionale a semplici “prefetti di polizia” e agenti di sicurezza al 
servizio dell’occupazione.

3.
Soppiantare la Road Map, che di fatto Sharon ha sempre rifiutato, con un 
piano  israeliano unilaterale, eliminando di fatto tutto ciò che Sharon non 
vuole dalla Road Map (il congelamento di ogni forma di colonizzazione e la 
creazione di uno Stato palestinese entro il 2005). Rimpiazzando la Road Map 
con il suo piano, Sharon si assicura simultaneamente che siano fissati solo 
gli impegni dei palestinesi per la sicurezza, facendo così del popolo 
palestinese in assoluto la prima nazione sotto occupazione a dover 
garantire la sicurezza dei suoi occupanti.

4.
Rompere l’isolamento internazionale crescente e ridurre i problemi ai quali 
devono far fronte le politiche israeliane di occupazione riguardo al Muro 
dell’apartheid.

5.
Conservare l’iniziativa strategica e costringere i protagonisti 
palestinesi, arabi ed anche internazionali a giocare secondo regole fissate 
da Israele, a danzare al ritmo stabilito da Israele.

Nello stesso tempo, prosegue lo strangolamento brutale dell’economia 
nazionale palestinese. E’ in corso una campagna, tragicamente già coronata 
dal successo in alcune capitali, per colpire l’assistenza umanitaria ai 
palestinesi nei settori della salute, dell’educazione, degli affari 
sociali, e dei profughi. Ancora, ciò che resta di questa assistenza viene 
dirottato verso il consolidamento di altre strutture di sicurezza, come se 
tutta la vita dei palestinesi ­ le attività sociali, economiche e 
scolastiche ­ dovessero cessare d’esistere, riservando ai palestinesi una 
sola funzione, quella di agenti della sicurezza per l’esercito di 
occupazione e per i coloni.
Compresi questi obiettivi strategici, un esame più approfondito dell’ 
“illusione” che Sharon crea riguardo al “ritiro dalla Striscia di Gaza” non 
rivela nulla di più che un trucco ammantato dall’ambiguità internazionale. 
Il piano di Sharon non è concepito per influire sul ritiro, ma per 
riorganizzare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, rendendo questo 
meno costoso e pericolo per l’occupante.
Coloro che pensano questo sia un vero ritiro, così come è concepito, 
dovranno spiegare prima di tutto come un simile piano può essere conciliato 
con quello che segue:

a)
La demolizione costante di centinaia di case lungo la frontiera egiziana a 
Rafah, al ritmo di cinque case al giorno. In questa regione dove 82 bambini 
sono stati uccisi dall’esercito, è in atto un vero e proprio processo di 
pulizia etnica.

b)
Diverse centinaia di nuovi ordini di confisca delle terre e l’espansione 
della superficie delle colonie a Deir el-Balah, Kfar Darom e Netzarim.

c)
L’esclusione voluta da Sharon delle più importanti colonie della Striscia 
di Gaza dal cosiddetto piano di ritiro. Il premier Sharon evita inoltre 
ogni riferimento al ritiro dal corridoio che circonda la Striscia di Gaza 
da tutti i lati, corridoio tracciato su terre palestinesi.

L’assassinio del leader spirituale Sheih Ahmed Yassin, il 22 marzo scorso, 
era una palese provocazione di Sharon nel tentativo di provocare un nuovo 
ciclo di violenze senza precedenti, al fine di guadagnare tempo per 
applicare il suo piano. Azioni simili dimostrano chiaramente che questo 
piano è lungi dall’essere concepito come il ritiro dalla Striscia di Gaza, 
ma piuttosto per trasformare la Striscia di Gaza in una vera e propria 
prigione, circondata da ogni parte dalla presenza israeliana. Un ghetto nel 
quale un milione e trecentomila palestinesi sono rinchiusi, e che potrà 
servire da potenziale terra d’esilio per i dirigenti palestinesi (la 
Striscia è stata già usata come esilio per un certo numero di cittadini 
palestinesi espulsi dalla Cisgiordania).
E’ vero che nessuno si opporrà al ritiro da ogni parte del territorio 
palestinese. E’ altrettanto vero che Sharon è stato costretto ad impegnarsi 
in simili manovre strategiche perché oggetto di pressioni, perché deve far 
fronte ad una crisi politica, di sicurezza e demografica, e perché non ha 
potuto mantenere la sua promessa di liquidare l’Intifada in cento giorni. 
Egli è alla guida del governo ormai da più di 1.100 giorni.

Tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare il piano “prima Gaza” di Sharon 
come un riconoscimento di sconfitta. Questo piano è un tentativo di evitare 
la sconfitta, per chiudere i palestinesi in un labirinto peggiore di quello 
di Oslo. E’ un tentativo di Sharon di attirare gli arabi in una trappola 
(nella quale gli egiziani, fino a questo momento, sono riusciti saggiamente 
a non cadere), un tentativo di guadagnare tempo per portare a termine la 
ebraicizzazione della Cisgiordania, di distruggere il futuro del popolo 
palestinese, e di cancellare ogni speranza in pace giusta e reale.
La risposta adeguata all’ultimo trucco di Sharon non è quella di cooperare 
con lui, permettendogli così di sfuggire ad una sconfitta inevitabile. La 
risposta non è quella di impegnarsi in una rivalità futile per decidere chi 
assumerà l’autorità in caso di ritiro. Ancora, la risposta non è di sedersi 
con Sharon e discutere della sua politica unilaterale, ciò darebbe 
legittimità a questo piano.
La risposta, e questo è un consiglio sincero ai dirigenti politici in 
particolare, è seguire l’esempio degli abitanti di Na’alin e Budrus, Qibya 
e Beit Duqqu, Rafah e Qalqiliya, Badw e Deir Qiddis, Beit Leqia e di tutte 
le altre città e villaggi che lottano. La risposta è quella di confrontarsi 
con il Muro dell’apartheid e le mire dell’occupazione, concentrando tutta 
l’attenzione sulle sfide reali: la distruzione del Muro, mettere fine 
all’occupazione di tutte le terre palestinesi occupate, senza eccezione.
La risposta non può che essere il proseguimento della resistenza contro le 
politiche israeliane. La risposta consiste nel confronto con la politica 
d’occupazione e di apartheid finché Israele non finirà per riconoscere il 
diritto che ha il popolo palestinese alla libertà, all’indipendenza e alla 
dignità.
Per conseguenza, la risposta a Sharon dovrà essere la formazione di una 
direzione nazionale unificata, il consolidamento dell’unità nazionale, e 
l’adozione di principi democratici per affrontare le divergenze. La 
risposta deve essere nell’affermazione della sovranità della legge, la 
promozione del settore giudiziario, lo svolgimento di elezioni 
democratiche, il miglioramento dell’amministrazione della politica interna 
e l’accesso, per tutti i cittadini, alla sicurezza, alla stabilità e alla 
giustizia. Tutti devono unirsi in un progetto nazionale comune per mettere 
fine all’occupazione israeliana e alla colonizzazione, per preservare i 
diritti dei profughi e per giungere alla piena indipendenza. La risposta 
che deve essere data a Sharon sta nel consolidamento del fronte interno che 
ha sofferto per l’indisciplina e per il caos e per le rivalità faziose e 
personalistiche, che sono un prezzo troppo grande per l’interesse generale.


Tratto da The Palestine Monitor, marzo 2004

(titolo originale: Sharon’s last ploy: So that we are not bitten  from the 
same snake pit twice)
Traduzione del testo francese, diffuso da Solidarité Palestine il 6 aprile 
2004, di Cinzia Nachira






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