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Vespe, merli e altri animali. La fattoria della retorica ai tempidella guerra al terrorismo



Vespe, merli e altri animali
La fattoria della retorica ai tempi della guerra al terrorismo

di Simone Ramella (s.ramella@giornalismo.org)

E' difficile evitare di essere retorici quando si parla di retorica. Lo
dimostra bene il corsivo di Francesco Merlo sui carabinieri caduti a
Nassiriya, pubblicato lunedì 17 novembre sulla prima pagina di Repubblica
(e, per chi non l'avesse letto, anche sul sito del quotidiano). Partendo
dall'affermazione che "la retorica non fa bene ai carabinieri", Merlo
infatti se la prende con le barzellette, avventurandosi in una lunga e
contorta dissertazione per sostenere la tesi secondo cui "dopo i funerali di
Stato, lentamente ma con tutta la loro forza, i pregiudizi ormai secolari
sui carabinieri si riproporranno tutti, perché è più facile disintegrare un
atomo che distruggere un luogo comune". Il tutto tirando in ballo, riga dopo
riga, Fabrizio De André, il generale golpista De Lorenzo, la Grande Guerra,
il generale Dalla Chiesa, Luca Casarini, Salvo D'Acquisto e Mario Placanica,
"che, a Genova, smarrito in un agguato di piazza e armato da panico e
confusione, per legittima difesa ha lasciato a terra esanime un ragazzo come
lui, un suo sosia, il suo ritratto di Dorian Gray, il povero Carlo Giuliani
che ancora oggi viene usato per alimentare la retorica contro i carabinieri"
.

Smarrita nelle sue stesse argomentazioni, l'ex firma del Corriere della Sera
conclude il suo pezzo anti-retorica con un crescendo molto retorico. "Il
funerale di un soldato è un nucleo d'onore attorno a cui si raccolgono gli
italiani, i buoni italiani - scrive Merlo - Quando moriva un acheo si
raggruppavano tutti i migliori guerrieri del campo e su loro sputacchiava l'
astioso e miserabile Tersite che aveva sempre un motivo per tentare di
disonorare l'onore dei soldati, immaginandoli come ragazzi allo sbaraglio,
pennacchi inadeguati, 'piume di pollo', vittime sprovvedute incolpevoli e
inconsapevoli di una presunta e giusta resistenza. Invece oggi nella camera
ardente e domani al funerale celebriamo il costo che la nostra complessa e
fragile civiltà paga per stare in piedi. Se restiamo in piedi, senza
lacrime, lo dobbiamo a questi morti che ci sorreggono e ci confortano, ai
carabinieri che hanno saputo essere migliori di noi pur essendo poveri
ragazzi come noi. Ebbene, i migliori non si piangono, i migliori si imitano"
.

Forse è proprio in virtù di queste acrobazie d'inchiostro, che mettono a
dura prova la pazienza del lettore, che l'opinionista della Repubblica si è
guadagnato un posto di rilievo sulle pagine dei più importanti quotidiani
italiani. Un cronista di provincia, infatti, si sarebbe limitato a prendere
atto del fatto che i carabinieri, al pari dei dipendenti pubblici, dei
piccoli imprenditori e dei metalmeccanici, sono tanti, e dunque è normale
che tra di loro possano convivere brave persone come Salvo d'Acquisto e
loschi figuri come il generale De Lorenzo.

A differenza di dipendenti pubblici, piccoli imprenditori e metalmeccanici,
però, intorno ai carabinieri è fiorita una vasta produzione di fiction
televisive, dal "Maresciallo Rocca" della Rai ai "Carabinieri" targati
Mediaset. Il perpetuarsi di barzellette intorno agli uomini dell'Arma, che
tanto rammarica Francesco Merlo, è anche il frutto di questa
sovraesposizione mediatica, che porta inevitabilmente al raffronto
quotidiano tra il carabiniere televisivo, incarnato dal bonario Proietti e
dalla maggiorata Arcuri, e i tanti carabinieri in carne e ossa che popolano
le caserme della penisola. Quello delle barzellette, però, è un fenomeno che
invece di gettare fango sulla Benemerita testimonia, semmai, quanto sia
radicata la sua presenza nell'immaginario collettivo. Del resto, in un paese
che si è scelto come capo del governo un uomo capace di ironizzare su
Mussolini e sui campi di sterminio, le barzellette sui carabinieri, una
volta elaborato il lutto, sono il minimo che ci si possa attendere.

Parafrasando l'attacco del corsivo di Francesco Merlo, viene piuttosto da
dire che la retorica che trasuda dai commenti sui tragici eventi di questi
giorni fa male all'Italia e a tutti gli italiani, non solo a quelli che
indossano una divisa. La copertura mediatica, e soprattutto televisiva,
riservata all'attentato contro i nostri soldati suggella infatti un
mutamento significativo, per quanto ignorato, nella storia dell'informazione
del nostro paese. E' quella che, con un ardito neologismo, potrebbe essere
definita la "dianizzazione" dei mass media italiani, dal nome della
principessa del Galles rimasta vittima di un incidente stradale nell'estate
del 1997.

La condanna a pubblico ludibrio che in Inghilterra, nelle settimane
successive all'incidente, colpì qualsiasi opinione fuori dal coro di
beatificazione della principessa, trova infatti un'eco molto simile nella
stragrande maggioranza delle cronache di questi giorni, che ruotano intorno
alla ripetizione ossessiva di alcune parole d'ordine come patria, eroi,
onore e sacrificio, di fronte alle quali non viene ammessa alcuna
possibilità di replica. Il giornalismo nostrano, tanto affezionato al
condizionale, strumento  linguistico perfetto per tirare il sasso
nascondendo la mano, all'improvviso riscopre le virtù di indicativo e
imperativo. Così Francesco Merlo ci ammonisce, come abbiamo visto,
affermando che "i migliori non si piangono, i migliori si imitano", mentre
Bruno Vespa, aprendo la puntata di Porta a porta nel giorno dei funerali dei
caduti di Nassiriya, ci informa, anzi ci intima, che "oggi, dopo tempo
immemorabile, l'Italia è davvero unita". A prescindere che lo sia davvero e
dai sondaggi di Renato Mannheimer.

Tra gli studi sulle comunicazioni di massa, l'ipotesi dell'agenda-setting
sostiene che i mass media hanno il potere di fissare l'agenda delle
questioni più importanti all'ordine del giorno, di dare cioè visibilità a un
tema piuttosto che a un altro, presentando una lista degli eventi attorno a
cui avere un'opinione e discutere. L'informazione del dopo-Nassiriya, però,
non si è limitata a questo ruolo, ma è andata oltre, indicando al proprio
pubblico non solo di cosa discutere, ma anche quale opinione avere in
proposito. Senza se e senza ma. Nell'Italia del conflitto di interessi il
fenomeno non è nuovo in assoluto, ma in questo caso ha agito con una
virulenza di gran lunga maggiore rispetto al passato.

Sarà un caso, ma questa volontà di promuovere un punto di vista a verità
assoluta si sposa alla perfezione con l'operato del nostro governo, che
finora si è dimostrato abile solo a risolvere i problemi personali del suo
capo. Un governo che non fa quello che dovrebbe fare, cioè governare, ma
promuove una serie di iniziative che mirano a imporre un unico codice
(im)morale, il suo, a tutti i cittadini. Gli stessi provvedimenti di
espulsione, varati in fretta e furia dal ministero dell'Interno per colpire
alcuni presunti fiancheggiatori del terrorismo di matrice islamica, sono
parenti stretti del famigerato Patriot Act, che negli Usa di Bush ha
consentito di imprigionare o deportare centinaia di cittadini stranieri
sospettati di "attività terrorista" aggirando la giurisdizione dei tribunali
regolari. E rivelano la smania della "Casa delle libertà" di "fare come
cazzo le pare", come aveva puntualmente profetizzato alla vigilia delle
ultime elezioni politiche la satira dell'Ottavo Nano, in barba agli altri
poteri dello Stato e alle più elementari regole della democrazia.

Resta da chiedersi se accettare "usi a obbedir tacendo", come recita il
motto dei carabinieri, la retorica degli "angeli in divisa", che ci è stata
propinata a ogni ora del giorno e della notte come unica verità
inconfutabile, sia davvero il modo migliore per onorare la memoria delle
vittime ed evitare che altre tragedie simili si ripetano. A giudicare da
quanto avvenuto oltreoceano all'indomani degli attentati dell'11 settembre
2001, si direbbe di no. E' stata proprio l'accettazione incondizionata della
dottrina della guerra preventiva, infatti, a portare gli Stati Uniti al varo
della più fallimentare campagna militare dai tempi della guerra in Vietnam
e, in ultima istanza, ai 19 morti italiani del 12 novembre 2003.

Se i dirigenti Rai non fossero troppo impegnati a censurare trasmissioni
satiriche anti-governative e a celebrare i successi di audience conquistati
dalla televisione pubblica grazie alle trash-performance di Pappalardo e
Bonolis, verrebbe perciò spontaneo chiedere loro di onorare le vittime di
Nassiriya rompendo la monotonia retorica che sta paralizzando l'informazione
televisiva italiana. Come? Per esempio non lasciando l'onere di portare
avanti un serio lavoro di inchiesta ai pochi e volenterosi giornalisti di
trasmissioni come Report e C'era una volta, ma estendendo il loro modello
anche al resto della truppa giornalistica delle reti di Stato. E magari
togliendo il monopolio dell'approfondimento sull'attualità dalle grinfie di
Bruno Vespa, restituendo uno spicchio d'etere a personaggi come Enzo Biagi e
Michele Santoro, che forse sarebbero in grado di spiegarci i veri motivi per
cui i nostri soldati sono stati spediti, contro la volontà della maggioranza
degli italiani, in quello che sulla copertina di Internazionale è stato
definito il "pantano iracheno".

La Rai, però, non è la Bbc, e dunque accontentiamoci di spegnere il
televisore. Almeno fino a quando non approveranno una legge che ci impedisce
di farlo.


(24 novembre 2003)