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Barbarie



Barbarie
lanfranco caminiti

Ho guardato le foto dei cadaveri dei figli di Saddam Hussein, Uday e
Qusay. Erano cani rabbiosi, e nessun sentimento di "pietas" mi turbava.
Non ho mai pensato di identificarli con una qualunque "resistenza", con
una qualunque epopea. Nei commenti, ho letto, è stato scomodato il Che,
Moro, Pasolini, e, a ritroso, persino Antigone e Achille e Ettore. Per
favore.  Li hanno uccisi, chiuso. Per favore.
Non cercavo la "prova provata" delle dichiarazioni americane: stanno
facendo una gaffe dietro l'altra e questa non potevano proprio
permettersela: se hanno detto che erano loro, ragionevolmente dovevano
essere loro. Un menzogna o persino un errore, in questo caso, sarebbe
stato davvero suicida per quei sapientoni della Casa Bianca.
Un corpo sfigurato dopo un bombardamento e una battaglia a colpi di
fucili mitragliatori, pistole, bombe, difficilmente può essere
riconosciuto. Immagino. Sono come quei cadaveri ritrovati nei boschi
dopo giorni e giorni, che sono stati preda di animali randagi o
selvatici, o dopo settimane di galleggiamento nel mare. Come quei corpi
che vengono estratti dalle lamiere dopo un incidente terribile in cui
sono coinvolti più mezzi, auto, camion pesanti, o quelli che ruzzolano
giù dalle scogliere o si lanciano dai piani più alti d'un palazzo. Cosa
ne rimane? Un'arcata dentaria: l'espressione ormai è di uso comune, pur
non sapendo esattamente cosa significhi, si intuisce, anche i bambini la
capiscono: telefilm seriali e cinema rendono condiviso il nostro
lessico. A volte, neppure quella. Cosa rimane d'un corpo dopo lo
spostamento d'aria delle bombe? Le parti molli si rimescolano? Gli occhi
escono dalle orbite? I denti, imperituri, si frantumano? Cosa rimane di
uno "shahid", di un "martire" che si fa esplodere? E di quelli che erano
attorno a lui, su un autobus, a una fermata, a un tavolo?
Eppure, per corruzione dei sensi, per confusione d'anima,  non saprei,
ho guardato le foto. Cercavo tratti riconoscibilmente "umani", non
un'arcata dentaria. Didascalicamente, l'amministrazione americana, e
molti mezzi di informazione, hanno accompagnato le foto dei cadaveri con
i volti di quello che erano. Come nelle pubblicità per perdere il peso,
dove ci sono uomini e donne prima obesi e poi snelli, o in quelle per
riacquistare i capelli perduti. Prima e dopo la cura. Qui, la "cura" era
il trattamento americano. Qui, ciò che era stato "vivo" avrebbe dovuto
spiegare, introdurci a quanto era adesso "morto". E all'incontrario:
quanto adesso si mostrava nella sua orribile fine era accostato a quanto
detestabilmente in vita. Come se questa fosse stata già designata. Il
fulmine divino - e più prosaicamente decine di razzi americani - ha
compiuto un destino ineluttabile e vindice. Non c'è scampo. Prima o
dopo. Avvalorato da un "prima e dopo".
Centinaia di milioni di persone nel mondo hanno guardato quelle foto. Le
hanno confrontate, ne hanno discusso, al bar, per strada, a casa,
volutamente o distrattamente, scorrendo il dito sulle pagine di carta
stampata o indicando l'immagine in tv, un particolare che non quadrava o
che era incontestabile. Ci saranno state discussioni. Centinaia di
milioni di discussioni. Tutta la tecnologia del mondo, quella cosa che
ci dovrebbe rendere sempre più "puliti" senza sporcarci di grasso e di
sudore, quella cosa fatta di fili e di onde, che è incorporea, si è
incagliata e incanaglita su quei cadaveri. I missili intelligenti, i
puntamenti laser, i radar che percepiscono l'invisibile, i satelliti e
le attrezzature iperboliche, tutto ciò che rende "differente" la nostra
"civiltà", che fa "pulita" la guerra e il potere si è improvvisamente
incarnato lì, in quei corpi massacrati e irriconoscibili. In quei
cadaveri schifosi. Mostrati bellamente al mondo. La civiltà, baluardo
alla barbarie, si imbarbarisce. La guerra e il potere questo comportano,
questo sono: schifosi. Parti molli che si rimescolano, occhi fuori dalle
orbite, denti frantumati. Clic. Foto.
Mi sono vergognato di me, dell'attardarmi su quelle immagini. Non ero il
pescatore, fotografato col suo luccio enorme, non ero la preda. Ero come
centinaia di milioni di persone nel mondo. Mi sono sentito sporco,
appestato. Come se mi ci avessero legato a quei corpi, una di quelle
terribili condanne che incatenava il vivo al morto. Qui, con lo sguardo.
Mi sono sentito complice di qualcosa: non riuscivo neanche a condannare
quei giornali che avevano deciso di pubblicare le foto. Avrei potuto
distogliere lo sguardo, girarmi dall'altra parte, come quando mi succede
al cinema per un film dell'orrore e c'è una scena troppo violenta,
magari avrei chiesto al vicino, dopo, cos'è successo. Perché le hanno
pubblicate anche qui? Avrebbero potuto limitarsi a pubblicarle lì, in
Iraq o nel mondo arabo, se era per monito e per verità. Che ammonimento
dovrebbero dare a noi? Qui, la civiltà ci fa da baluardo alla barbarie.
E quale sensazione di verità avrebbero dovuto dare, come se fosse questa
in gioco e non sapessimo tutti che sono solo frottole quelle che
raccontano gli americani ["la democrazia, che minchia c'entra con le
bombe?"] e che in gioco c'è altro, come se il nostro "collettivo
cinismo" potesse essere scosso da un'ulteriore bugia. La guerra e il
potere questo comportano, questo sono: schifosi. Parti molli che si
rimescolano, occhi fuori dalle orbite, denti frantumati. Clic. Foto.
E' proprio questo che ci viene ricordato, che diventa monito per tutto
il mondo. Le immagini sono per noi, non per gli iraqeni, gli iraqeni non
ci crederanno mai adesso, per uno o due anni inventeranno, obietteranno,
le leggende metropolitane hanno una lunga filologia nella chiacchiera
umana. Loro, gli americani, fanno il lavoro sporco. Ma lo stanno facendo
per tutti noi qui. Si fanno le foto, con il luccio enorme. Poi, si
mostrano agli amici. Siamo complici: anche solo guardando. Clic. Foto.

Roma, 19 luglio 2003

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