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"Costituzione Europea Problemi politici e soluzioni giuridiche"di U. Allegretti



Salve,

l'articolo sui lavori della Convenzione Europea che qui
vi propongo  in effetti é un pò vecchietto (é uscito sul numero del 15
giugno della rivista Rocca), e Umberto Allegretti mi ha  fatto sapere che i
suoi commenti agli esiti del
vertice di Salonicco usciranno solo fra 2 numeri della stessa rivista , però
forse  vi può far piacere
leggerlo ugualmente.
Secondo la mia personale opinione in Sardegna si discute troppo poco di
questioni europee trascurando che ormai é quello il nostro principale quadro
di riferimento.

Ciao

Cristina


"Costituzione Europea
Problemi
 politici e soluzioni giuridiche", uscito nel numero  del 15 giugno
c.a. della rivista " Rocca" (Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi).

Nelle prime settimane di giugno, importanti sviluppi dovrebbero aversi in
Europa su un terreno che è insieme politico, giuridico-istituzionale,
sociale e, vorrei dire, culturale e addirittura filosofico. Da un lato la
Convenzione (l'organismo incaricato della redazione della bozza di Trattato
costituzionale europeo) dovrebbe consegnare il suo prodotto al Consiglio
europeo; dall'altro, con i vari incontri internazionali in corso dovrebbe
farsi un po' di chiarezza in più sui dissidi nei rapporti con gli Stati
Uniti e in seno all'Europa generati soprattutto dalla guerra contro l'Iraq.
Pur nella loro distinzione i due ordini di problemi sono connessi e comunque
il legame temporale che si è stabilito tra loro deve essere tenuto in conto
se si vuole affrontarli correttamente. Certamente, essi non si prestano a
diagnosi facili e non desta meraviglia che, allo stato delle cose, la
situazione sia molto fluida; è perciò impensabile che chi ne scrive possa
darne una sintesi sufficientemente sicura, per cui converrà limitarsi a un
bilancio approssimativo e a qualche criterio che aiuti nella lettura delle
novità destinate a maturare.

Cominciando dai lavori della Convenzione, dopo l'incerto avvio del 2002,
quest'organismo - che malgrado i suoi limiti costituisce una modalità nuova
e positivamente apprezzabile per progredire negli ordinamenti del nostro
continente, rispetto alle pure trattative intergovernative del passato - ha
consentito di preparare alcuni traguardi significativi. Sembrano ormai
acquisiti, infatti, alcuni orientamenti che i governi non potranno
sconfessare : il nuovo trattato europeo ci darà un ordinamento che merita il
nome di Costituzione; in esso figurerà la Carta dei diritti fondamentali già
proclamata a Nizza ma che finora era priva di vero valore giuridico; l'
Unione cesserà di essere un coacervo di varie comunità per presentarsi nell'
arena internazionale come persona giuridica unica; le disposizioni dei
trattati saranno semplificate e riordinate, rivestendo le funzioni e gli
atti dell'Unione di concetti giuridici precisi e corretti coi quali si
introdurrà finalmente un discorso di competenze, atti e procedure
legislative al posto dell'improprio linguaggio precedente.

Molte tuttavia sono ancora le incertezze e le insoddisfazioni che le bozze
finora rese note dalla Presidenza della Convenzione sollevano e che, se non
sciolte positivamente, darebbero un risultato non certo adeguato alle
necessità e possibilità di una svolta nell'organizzazione politica e
giuridica del continente. La pace, il contributo dell'Europa a una società
mondiale fondata sulla giustizia economica, sul rispetto dei diritti umani e
su un corretto rapporto tra le culture, la sua opera per realizzare i
principi che stanno correttamente a base delle Nazioni Unite ma che trovano
nel loro funzionamento tanta difficoltà a essere seguiti, non sono ancorati
nel progetto a precise norme, ma solo affidati alla indicazione di obiettivi
vaghi sebbene ripetutamente enunciati, talora espressi i termini
eurocentrici e paternalistici. La fisionomia degli organi fondamentali dell'
Unione oscilla (come è ben noto dalle polemiche di stampa) tra l'
accentuazione del loro carattere intergovernativo conseguente al
potenziamento massimo del Consiglio e del suo Presidente e la difesa di un
organo meritorio ma di natura eccessivamente tecnocratica come la
Commissione, senza che si veda un'adeguata valorizzazione dei circuiti
democratici, neppure attraverso il Parlamento europeo e attraverso i
parlamenti nazionali. Tra le carenze più importanti, la insufficiente
espansione del principio di maggioranza, terreno sul quale ha giustamente
sollevato accese critiche la previsione come procedura normale per la
politica estera e di sicurezza di quel principio di unanimità che,
consentendo su ogni decisione il veto di ogni singolo stato membro,
paralizza la possibilità di sviluppo di una comune politica estera dell'
Europa, provocando casi più che gravi come le posizioni radicalmente diverse
che si sono avute sulla questione dell'Iraq e più in generale determinando
la mancanza di una linea europea di politica internazionale.

E' da tutto questo (e non solo da questo) che si vede quanto cammino ci sia
ancora da fare per rinnovare il "senso" d'Europa rispetto alla
cinquantennale storia dell'unità e alle carenze delle politiche degli Stati.
E' appunto sul senso d'Europa, sul senso che essa vuol avere verso l'interno
e verso l'esterno, che bisogna progredire. Verso l'interno: è giusto parlare
di modello sociale europeo come un sistema di relazioni
individuo-stato-società diverso, per esempio, da quello degli Usa. Ma è allo
stesso tempo inutile, se poi l'Europa si attarda in una concezione
economicistica che - benché verbalmente superata con la indivisibilità dei
diritti sociali da quelli di libertà proclamata dalla Carta dei diritti
fondamentali - rimane sostanzialmente intatta per il fatto che, mentre i
diritti sociali restano nella competenza degli Stati, le politiche
necessarie per realizzarli (le politiche sociali) sono radicalmente messe in
difficoltà dalla scelte economiche, monetarie e finanziarie di competenza
dell'Unione. E dunque non serve che nella prima parte del Trattato
costituzionale si elenchino occupazione, sanità e sicurezza sociale tra le
"competenze condivise" tra Unione e Stati, se poi le disposizioni che le
regolano sono quelle delle vecchie "politiche" trasfuse nella terza parte,
che le riducono a mere "azioni di sostegno" complementari a quelle degli
Stati.

Verso l'esterno, il progresso non c'è se l'Europa non precisa il suo impegno
per la pace e la cooperazione internazionale riproducendo (sulla base di
emendamenti italiani) il divieto della guerra stabilito dall'art. 11 della
nostra Costituzione, impegnandosi al rispetto non solo dei principi ma anche
di tutte le disposizioni dello Statuto dell'Onu e mettendo in piedi norme e
politiche ben più coraggiose delle precedenti verso il Sud del mondo. In
questo quadro, la ricerca in corso, ora torpida ora affannosa, della
costruzione di una forza armata comune europea dovrebbe avere un ruolo
subalterno e assolutamente strumentale rispetto alla presenza di una
concezione politica e non militare della vita internazionale; altrimenti, la
creazione di un esercito europeo anticipata rispetto alla creazione d'una
vera politica e svincolata da questa risulterebbe in un ulteriore contributo
alla crescente militarizzazione del pianeta.

Ma questioni di questo tipo non sono inquadrabili correttamente facendo
riferimento soltanto a creazioni di tipo giuridico. Le soluzioni giuridiche,
che non sarebbero di per sé difficili da trovare, si intrecciano con fatti e
problemi politici e questi affondano le loro radici in concezioni, prima che
politiche, culturali e antropologiche più generali.

E' qui che si inserisce il ruolo della crisi che si è aperta di recente sul
piano internazionale. I problemi sorti con gli Stati Uniti, a seguito degli
sviluppi che questi hanno dato alla lotta contro il terrorismo e rivelatisi
drammaticamente con la decisione e la messa in opera della guerra all'Iraq,
non possono essere considerati degli avvenimenti episodici per quanto gravi,
ma sono probabilmente qualcosa di più: il rivelatore dell'addensarsi di
approcci diversi ai problemi della convivenza nel mondo globalizzato. Il
sospetto è accreditato da alcune recentissime prese di posizione di
intellettuali statunitensi vicini alla politica: ad esempio Huntington e
Kagan. Il primo ha avuto l'improntitudine di dichiarare al Corriere della
Sera, nel corso della riunione di Venezia dell'Aspen Institute, che sarebbe
ormai il caso di togliere il potere di veto in seno al Consiglio di
Sicurezza alle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, esclusi gli
Stati Uniti, che vi avrebbero diritto come superpotenza planetaria. Il
secondo, nel libro Paradiso e potere (Mondadori), che va letto per capire
che possibilità ci aspettano, teorizza una contrapposizione drastica tra
americani ed europei: i primi avrebbero una concezione "hobbesiana" delle
relazioni internazionali - stato di natura retto dal confronto delle forze -
mentre i secondi sarebbero illusi dall'utopia "kantiana" di un pianeta
pacificato; la sua origine si troverebbe in tutta la storia americana
(alcune prove, anche secondo noi, non mancano) e la contrapposizione sarebbe
destinata a perpetuarsi nel futuro.

Ma c'è nella realtà presente qualcosa di più d'una crisi nelle concezioni
sull'uso della forza e sui rapporti pacifici tra i popoli. Discutendo con
Huntington a Firenze durante il suo viaggio italiano, è stato evidente che
il modo che si sta delineando negli Stati Uniti e che egli ha teorizzato in
un libro famoso, di affrontare la convivenza mondiale dopo la fine della
guerra fredda in termini di scontro di civiltà, trascura l'esistenza del
divario profondissimo e crescente tra quello che siamo soliti chiamare il
Nord ed enormi zone del pianeta comprendenti la maggior parte dell'umanità,
al quale il disprezzo dell'Occidente per le culture diverse da sé si mischia
unendo insieme contrapposizione spirituale e condizione materiale. I
documenti periodicamente pubblicati dalla Presidenza degli Stati Uniti e
denominati National Security Strategy - sia quelli delle due presidenze
Bush, sia, si badi, quelli della presidenza Clinton, senza apprezzabili
diversità tra loro - mettono in rilievo un modo di porsi degli Usa di fronte
ai problemi del mondo in termini di pura e cieca fiducia negli automatismi
del mercato come via per la soluzione dei problemi economici di tutto il
globo, che si combina con un altrettanto cieco orgoglio per la superiorità
tecnologica e ideologica dell'America rispetto al resto dell'umanità, tale
da abilitarla alla così chiamata leadership universale.

Ci pare che sia tutto questo complesso di concezioni che l'Europa deve saper
mettere in gioco nel dibattito con il grande alleato e dentro se stessa.
Essa non può più rattrappirsi - come ha fatto per cinquanta anni - in una
concezione dei rapporti mondiali sostanzialmente mimetica rispetto agli
Stati Uniti, deve saperla mettere in discussione, non per sfidare gli Usa
sul piano economico o militare, cosa non solo impensabile ma negativa, non
per praticare una politica simile ad essi all'ombra d'una retorica della
diversità, ma per riavviare una discussione su nientemeno che perché stiamo
al mondo come uomini e donne del nostro tempo. Se dovesse risultare seria e
realizzabile la strada individuata per l'avvio a soluzione del problema
della Palestina, sarebbe una prova che tra Europa e Stati Uniti è possibile
trovare vie comuni qualora si voglia confrontarsi su un terreno aderente
alla gravità dei problemi. Sarebbe positivo porsi nello stesso modo nei
confronti delle questioni poste dall'evoluzione dell'Est europeo. Per le
ex-democrazie popolari, il percorso dovrebbe essere segnato dalla già
avvenuta integrazione all'Unione, purché questa venga perseguita con un'
adeguata apertura nella condotta dei paesi dell'Europa, diciamo, "vecchia",
e con il senso della misura da parte di quelli della "nuova". Questi non
possono pretendere di instaurare con gli Stati Uniti, come gli Usa
manifestamente desiderano e come sta avvenendo soprattutto da parte della
Polonia, un rapporto privilegiato che scavalchi l'Europa. Per quanto
riguarda la Russia, viene già avanzato (dal suo governo, da Berlusconi) il
proposito, quanto meno prematuro, della sua adesione all'Unione. Appare più
praticabile, dato il gran numero di variabili in gioco, la proposta di Prodi
di un partenariato, di una forma di associazione che consenta un elevato
grado di collaborazione ma non inserisca quel paese nell'Unione.

E' con uno sguardo di questo tipo, che ardisca mirare alto e lontano e allo
stesso tempo sia consapevole della complessità e della processualità dei
problemi del presente, che possiamo leggere (così almeno crediamo) in
maniera adeguata le notizie che ci perverranno attraverso i mezzi di
informazione sui prossimi sviluppi della discussione europea, sviluppi che
meritano un'attenzione e, in quanto possibile, un intervento come società
civile, che in passato non abbiamo sufficientemente praticato.

Umberto Allegretti

Prof. di diritto pubblico generale presso l'università di Firenze
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Movimento Federalista Europeo
Sezione di Cagliari
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