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da Amman - UNA CAROVANA NELLA TERRA DI NESSUNO



UNA CAROVANA NELLA TERRA DI NESSUNO

Siamo arrivati ad Amman il 30 giugno: 42 tra donne e uomini rappresentanti
di Amministrazioni locali, Università, associazioni per la globalizzazione
dei diritti, o semplicemente singoli individui determinati a disobbedire
alla logica della guerra globale permanente.
Il nostro intento era quello di raggiungere l´Iraq, la terra madre della
civiltà, devastata, umiliata, saccheggiata dal fuoco di una guerra
vergognosa scatenata dai potenti della terra.
Volevamo vedere Baghdad con le nostre telecamere, i nostri mezzi di
comunicazione, per poi prestare i nostri occhi a chi ancora non ha capito
cosa significa vivere sotto le bombe, addormentarsi con i colpi di
mitragliatrice, camminare per le strade di una città morta.
Volevamo incontrare, dando visibilità e voce, i mille frammenti diversi in
cui è stata frantumata la società irachena dopo la guerra. Una società
stremata da anni di dittatura e di embargo.
Volevamo costruire progetti di solidarietà e di cooperazione dal basso con
ospedali, scuole, artisti e intellettuali; progetti non inquinati dalle
mani colpevoli dei governi occidentali.
Ma come sempre i potenti della terra hanno ritenuto pericoloso quello che
volevamo.
Cavilli burocratici prima, armi puntate addosso poi, ci hanno impedito di
entrare nell´Iraq "liberato".
La prima volta il 31 maggio abbiamo attraversato il deserto giordano di
terra e pietra, ma siamo stati bloccati dai marines americani alla
frontiera irachena di Al Karama: NO BUSINESS, NO ENTRY.
Senza un permesso ufficiale e come semplici cittadini non possiamo varcare
il confine.
Tutti possono passare: autobotti di benzina a centinaia, tir di merci
globalizzate, traffici di tutti i tipi sui mezzi più improvvisati, business
men, organismi di volontariato di ogni genere.
Ma i soldati ci spingono nelle nostre jeep e ci ricacciano nella `no man´s
land´, la fascia terrosa di qualche chilometro che divide l´Iraq dalla
Giordania.
Qui aspettiamo ore, prigionieri del sole che brucia e della polvere, allo
stesso modo delle migliaia di profughi palestinesi, curdi, sudanesi, bedun,
costretti a vivere qui dalla fine del conflitto senza radici nè diritti.
Noi, cittadini del mondo, ostaggi delle divise americane; come noi, più di
noi, migliaia di uomini e donne in fuga dall´orrore della guerra, ostaggi
in un una terra di nessuno, anime invisibili umiliate dalla miseria e
dall´arroganza dell´impero.
Nell´Iraq liberato non c´è più posto per loro; sono considerati
indesiderati dal governo della Giordania, governo complice di chi ha voluto
la guerra e che ora gestisce con le armi il loro vivere che è sopravvivere.
La seconda volta il 2 giugno arriviamo al confine iracheno con la notifica
ufficiale del comando militare americano a Baghdad, ottenuto il giorno
prima dopo ore di occupazione dell´ambasciata italiana ad Amman.
Ancora una volta, però, non possiamo entrare in Iraq. Soldati armati, jeep
militari e carri armati americani ci circondano e ci vietano l´ingresso. Il
permesso ufficiale che abbiamo ottenuto deve essere controllato.
Aspettiamo un´intera giornata nel deserto e dopo 10 ore arriva la risposta:
in un quarto d´ora dobbiamo sgomberare da questi dieci metri di suolo
iracheno che abbiamo calpestato, altrimenti ci sparano addosso.
Siamo determinati a non andarcene da questo confine inesistente per le
merci, ma invalicabile per i cittadini del mondo.
Ancora una volta sono i nostri corpi l´unica arma con cui opporci a questa
pace armata: rimaniamo seduti a terra.
I marines avanzano verso di noi e sollevandoci di peso con violenza ci
buttano fuori dall´Iraq: due di noi sono feriti e quattro contusi.
Presi in giro per due giorni, finalmente scopriamo qual´è il problema:
siamo un´organizzazione antiglobalizzazione; i nuovi padroni dell´Iraq non
vogliono che persone libere camminino e domandino, discutano ed ascoltino
la voce della società irachena.
Hanno paura di chi vuole vedere con i propri occhi la `libertà´ che hanno
portato.
Hanno paura di chi disobbedisce.
Ma noi non ci fermiamo, determinati ad arrivare a Baghdad, determinati ad
arrivare a Ramallah, determinati a lottare insieme a tutte le donne e gli
uomini i cui diritti sono calpestati.
Fiumi di carovane disobbedienti inonderanno questa terra arida e non si
fermeranno davanti a chi impone con le armi la propria perversa libertà.
Saremo la voce di chi è nessuno, di chi è invisibile prigioniero in campi
profughi in cui non esistono diritti.

Amman, 4 giugno 2003


La Carovana verso Baghdad