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Attacco allo stato di diritto (da la "rivista del manifesto")



            Da "la rivista del manifesto" numero 38 aprile 2003



            Leggi speciali

            ATTACCO ALLO STATO DI DIRITTO
            Alberto Burgio


            Il mio lavoro è proteggere l'America. Ed è esattamente quello
che farò. Le persone possono attribuire tutte le intenzioni che credono, ma
io ho giurato di difendere la Costituzione. Ho messo la mano sulla Bibbia e
ho preso questo impegno solenne. E farò esattamente quello che ho giurato di
fare.
            George W. Bush nella conferenza stampa del 6 marzo 2003
1.Nel
momento in cui scriviamo non sappiamo come la `crisi irachena' andrà a
finire: se (per quanto ancora) avrà miracolosamente successo l'azione di
differimento del `fronte del rifiuto' che salda la maggioranza dell'attuale
Consiglio di Sicurezza al Vaticano e alle piazze pacifiste del mondo, o
prevarrà invece la determinazione di Bush a occupare militarmente la regione
per impadronirsi degli immensi giacimenti petroliferi iracheni ad ogni costo
e con ogni mezzo (preferibilmente con le armi, in modo da remunerare il
complesso militare-industriale e il suo indotto finanziario e da testare i
nuovi sistemi d'arma in vista della prossima campagna `preventiva') e
puntare poi sull'Iran. Altre cose invece le conosciamo già, in quanto si
tratta di risultati acquisiti della strategia bellica americana varata dopo
gli attentati dell'11 settembre 2001 e, più in generale, delle conseguenze
di due fattori distinti ma tra loro connessi: la nuova fase di guerra
permanente inaugurata dalla prima Guerra del Golfo (sul piano esterno) e la
militarizzazione delle pratiche di repressione del dissenso sociale e dei
movimenti migratori (sul piano interno).
            Dietro le quinte dello scontro tra gli Imperi del Bene e del
Male e della `guerra al terrorismo' e all'immigrazione `clandestina', c'è un
mondo nascosto che coinvolge le forme del governo politico e del controllo
sociale nelle società occidentali e che vede una drastica compressione degli
spazi di libertà, frequenti violazioni delle garanzie giuridiche,
modificazioni striscianti delle Costituzioni: un mondo che raramente
conquista gli onori della cronaca, fatto di leggi incostituzionali, di
circolari e regolamenti riservati, di vertici informali, di prassi
investigative irregolari, di violazioni delle tutele, dei diritti e delle
libertà fondamentali, di nuove pratiche di controllo e di discriminazione,
di tribunali speciali, di detenzioni senza incriminazioni e senza processo,
di processi segreti e senza difesa, di torture, di scomparse misteriose,
persino di assassini legalizzati.
            Raramente questo `mondo nascosto' arriva in superficie e a
conoscenza del grande pubblico. Negli Stati Uniti è accaduto una prima volta
lo scorso 14 ottobre, quando il settimanale «The Nation» pubblicò con grande
evidenza una lettera aperta al Congresso nella quale si affermava che «la
questione più importante tra quelle sollevate dalla guerra» riguarda i
pericoli che incombono sul sistema democratico degli Stati Uniti, seriamente
minacciato da un «nuovo Leviatano» nel quale «il Dipartimento della
Giustizia si arroga il diritto di imprigionare cittadini americani senza
limiti di tempo per il solo fatto che un burocrate del Pentagono li abbia
etichettati come «combattenti nemici"»(1). È successo ancora di recente (lo
scorso 25 febbraio) quando l'American Civil Liberties Union - una delle più
importanti organizzazioni statunitensi di giuristi democratici, sulla
breccia dal 1920 - ha comprato una pagina del «New York Times» per lanciare
l'allarme sulla minaccia rappresentata dalle nuove misure `anti-terrorismo'
invocate dal ministro della Giustizia John Ashcroft (in base alle quali gli
investigatori potrebbero svolgere perquisizioni e indagini bancarie senza
mandato e il governo potrebbe espellere o - nel caso di cittadini
americani - privare della cittadinanza chiunque venga semplicemente accusato
di terrorismo). Ma di tutto ciò di norma non ci si occupa, forse perché il
grado di insicurezza collettiva è ormai talmente elevato, che la rimozione
delle fonti di rischio funziona come una contromisura indispensabile alla
sopravvivenza quotidiana.
            In questo contesto, e pur in presenza di vistose rotture della
legalità e di gravi violazioni dello Stato di diritto, si rivela
singolarmente arduo generalizzare la consapevolezza del crescente rischio di
regressione autoritaria che già oggi i paesi occidentali corrono e che si
aggraverebbe esponenzialmente ove la nuova guerra contro l'Iraq scoppiasse,
alimentando la tendenza alla criminalizzazione del dissenso sociale e
politico e inasprendo - forse al di là dell'immaginabile - le tensioni tra
il Nord e il Sud del mondo. Come si cercherà di mostrare in queste pagine,
si tratta di un rischio talmente elevato, da autorizzare un inquietante
parallelismo storico. Si ha l'impressione di ritrovarsi, settant'anni dopo,
al cospetto di un passaggio analogo a quello verificatosi a cavallo tra gli
anni Venti e Trenta del secolo scorso: dinanzi a una seconda `grande
trasformazione' delle società occidentali, per effetto della quale le classi
dominanti tornano a fare massicciamente ricorso al potere politico,
riaffidando agli apparati coercitivi dello Stato il compito della
regolazione autoritaria dell'economia e del conflitto sociale e alla forza
militare la funzione di arbitro delle relazioni internazionali.
            Non ci è possibile approfondire questo discorso, che suggeriamo
qui come semplice ipotesi di lavoro (2). L'argomento del nostro discorso è
molto meno complesso. Nostro intento è portare alla luce qualche elemento di
quel `mondo nascosto' cui abbiamo fatto riferimento poc'anzi, e che, insieme
alla guerra, rischia di decretare la fine della fase democratica del
capitalismo iniziata nel 1945 ed entrata in sofferenza nel 1989-1991 con la
definitiva conclusione della Guerra Fredda. A questo scopo ci proponiamo di
fornire un primo, sommario e inevitabilmente lacunoso resoconto delle
principali violazioni, nascoste o flagranti, della legalità costituzionale
verificatesi in alcuni paesi occidentali nel periodo successivo all'11
settembre del 2001.
            2. Conviene cominciare dall'evidenza meno soggetta a
controversie, la vicenda dei circa 650 Talibani deportati nella base navale
statunitense di Guantanamo Bay, a Cuba. Sull'argomento i lettori di questa
rivista sono già stati informati dall'appassionato intervento di Judith
Butler(3). Si può aggiungere qualche dettaglio in ordine alle condizioni
della loro detenzione. Le celle di Guantanamo sono piccolissime e non
offrono protezione dalle intemperie. Gli Stati Uniti, che non hanno
formalizzato capi d'accusa sul conto dei prigionieri, negano l'accesso alle
autorità consolari, ai familiari e alla rappresentanza legale. Nonostante le
pressioni di altri paesi e le richieste della Croce Rossa internazionale e
dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, continuano
nella pratica di interrogatori illegali, in assenza di difensori,
minacciando di concludere queste `inchieste' con sentenze capitali senza
appello. Per di più (lo si è appreso in questi giorni da un'inchiesta del
«New York Times»), Guantanamo non è la sede degli interrogatori più estremi,
in quanto i prigionieri più pregiati sono interrogati, direttamente dalla
Cia, nelle basi di Diego Garcia (Oceano Indiano) e di Bagram (Afghanistan),
nelle quali gli interrogatori si protraggono ininterrottamente per giorni e
notti, in assenza di luce e con escursioni termiche di quaranta gradi
centigradi.
            Violazioni inaudite, incompatibili con le Convenzioni
internazionali e con i principi base della Costituzione americana. Ma se ci
si fermasse qui, queste denunce sortirebbero un paradossale effetto
legittimante poiché suggerirebbero che quanto avviene nelle basi militari
dislocate al di fuori del territorio degli Stati Uniti sia un'eccezione alla
regola del rispetto dei diritti e delle garanzie. Avviene esattamente il
contrario. Il timore enunciato da Butler - che Guantanamo diventi un
modello - è più che fondato, e del resto il trattamento dei prigionieri da
parte delle autorità americane rimanda a una serie di provvedimenti
legislativi che hanno già stravolto le norme fondamentali dello Stato di
diritto, a cominciare dal Bill of Rights.
            Tre giorni dopo gli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono, il
Congresso vota, quasi all'unanimità, una risoluzione che conferisce a Bush
il potere illimitato di usare la forza «necessaria e opportuna» contro
Stati, organizzazioni e individui coinvolti negli attentati e in altre
attività terroristiche (4). Se non proprio l'inizio (numerose norme
`anti-terrorismo' - in realtà mirate contro il movimento no global - sono
state varate prima dell'11 settembre 2001), è certamente un passaggio
cruciale di una deriva tesa all'instaurazione di un vero e proprio `Stato
d'eccezione'. Da questo momento l'attività normativa dell'Amministrazione
Bush sul terreno della `guerra' interna ed esterna al terrorismo si fa
sempre più intensa e tradisce una crescente insofferenza per il principio
della separazione dei poteri. Il 20 settembre il Segretario alla Giustizia
Ashcroft accorda all'Ins (la potente agenzia federale incaricata delle
procedure di immigrazione e naturalizzazione) la facoltà di tenere «gli
stranieri» in carcere, senza accuse, per 48 ore o, in circostanze
«straordinarie», per un non meglio precisato «ragionevole periodo di tempo
addizionale» (5). Un secondo regolamento del ministro (emanato il 31
ottobre) consente agli agenti federali, in violazione del VI Emendamento
della Costituzione, di intercettare segretamente e senza mandato le
comunicazioni tra imputati e avvocati. Nel frattempo (approvato dal
Congresso il 26 ottobre, senza discussione e, anch'esso, a schiacciante
maggioranza) vede la luce il Patriot Act (6), pilastro fondamentale della
nuova legislazione d'emergenza.
            Il nuovo reato di «terrorismo interno» (Art. 802) è definito in
termini talmente vaghi (vi rientrano tutti i reati non a scopo di lucro in
cui si sia fatto uso di «armi o dispositivi pericolosi» nonché gli atti che
«appaiono tesi a influenzare la politica di un governo con l'intimidazione o
con la coercizione» purché, anche involontariamente, «mettano in pericolo la
vita umana in violazione del diritto penale») da concedere alle autorità un
potere di controllo pressoché illimitato nei confronti di immigrati e
oppositori politici (7). È prevista la detenzione illimitata e senza formali
accuse di cittadini e non-cittadini (per i quali la nuova legge introduce la
detenzione obbligatoria sino all'espulsione anche per una banale violazione
delle leggi sull'immigrazione). Sulla base di semplici sospetti (il più
delle volte riferiti a un identikit della persona «a rischio» tracciato
sull'idealtipo dell'immigrato di religione musulmana) può capitare (Art.
412) di finire in carcere per sette giorni (estendibili fino a sei mesi)
senza l'autorizzazione del giudice. Violando il I e il VI Emendamento, la
legge (Art. 411) introduce un test d'ingresso su base ideologica e consente
all'Fbi di accedere senza controllo né mandato alle comunicazioni
telefoniche e di posta elettronica e di violare impunemente le garanzie
della difesa nel processo penale. Si tratta di restrizioni della libertà del
tutto simili a quelle disposte nel famigerato McCarran-Walter Act, la legge
che nel 1952 vietò l'ingresso negli Usa agli stranieri membri di partiti o
movimenti comunisti. Al tempo stesso vengono tolti di mezzo tutti quei
`controlli e contrappesi' all'esercizio del potere esecutivo che furono
introdotti nel 1974, allorché si scoprì che l'Fbi e altre agenzie di
intelligence avevano sottoposto illegalmente a spionaggio 10.000 cittadini
americani, tra cui Martin Luther King.
            Non soddisfatto di avere usurpato prerogative essenziali della
magistratura, il 13 novembre Bush vara un secondo micidiale provvedimento,
il President Issues Military Order, che, usurpando anche i poteri del
Congresso (unico legittimato a creare «tribunali inferiori alla Corte
Suprema»), fornisce una base `giuridica' alle atrocità di Guantanamo ma ha
pesanti conseguenze pure all'interno degli Stati Uniti. Questa nuova legge
dà al presidente il potere di istituire e formare tribunali militari
speciali competenti in materia di terrorismo e interamente soggetti a una
catena di comando che riconduce al presidente stesso, in quanto comandante
in capo delle forze armate. Le violazioni delle garanzie giuridiche già
sancite nel Patriot Act vengono enormemente aggravate. Basti pensare che
l'imputato deve esser difeso da un militare designato dal tribunale e che a
ogni altro eventuale difensore viene negato l'accesso alle carte e a parte
delle udienze. Il presidente ha il potere di decidere chi sarà giudicato da
questo sistema, di stabilire le regole del procedimento, di nominare
giudici, pubblici ministeri e avvocati, e di determinare le pene per i
condannati. Come il più assoluto dei sovrani, egli si è disfatto di
qualsiasi controllo di legalità sulle sue azioni.
            Potremmo continuare a lungo. Altri 23 tra «ordini esecutivi» e
«regolamenti provvisori» hanno ampliato a dismisura i poteri extra-legali
del governo fino allo scorso novembre (8), quando Bush vara il progetto del
Total Information Awareness System (una gigantesca rete di spionaggio
interno che dovrà monitorare movimenti, comunicazioni e transazioni
«sospette») e firma lo Homeland Security Act con cui crea il nuovo
mega-Dipartimento della Sicurezza nazionale, terzo per budget e dimensioni
con i suoi 35 miliardi di dollari e 170.000 dipendenti senza diritti
sindacali, ai quali è fatto divieto di denunciare ogni eventuale abuso dei
superiori (9). Ma per farsi un'idea precisa di tutta questa normativa,
occorre a questo punto volgersi alle sue conseguenze materiali.
            Subito dopo l'11 settembre l'Fbi e l'Ins scatenano la caccia al
terrorista. «Gli Stati Uniti - scrive in quei giorni Christopher Bollyn,
dell'«American Free Press» - stanno diventando una `repubblica delle banane'
dove la gente `scompare': un fenomeno che tutti noi abbiamo visto nelle
dittature dell'America Latina negli anni Settanta e Ottanta, con il
sostegno, tra parentesi, del governo degli Stati Uniti» (10). Il «Washington
Post» conferma: «Sia i giuristi che i cittadini dicono di non ricordare un
altro periodo in cui tante persone siano state arrestate e imprigionate
senza vincolo d'accusa, particolarmente per reati minori, in assenza di
connessioni con il caso di cui ci si sta occupando» (11). I dipartimenti di
polizia (con massicci supporti operativi del Dipartimento della Giustizia e
l'assistenza tecnica dell'Fbi) riesumano gli `squadroni rossi', unità di
polizia celebri ai tempi di Edgar Hoover per l'attività di spionaggio,
infiltrazione e repressione delle organizzazioni politiche di sinistra (12).
La gente è incoraggiata alla delazione. Oltre 200.000 segnalazioni di
comportamenti `sospetti' vengono raccolte dall'Fbi. Ne fanno le spese, tra
gli altri, una studentessa del Technical Community College di Durham,
torchiata per 45 minuti perché nella sua stanza qualcuno ha visto un poster
critico nei confronti dell'ex governatore del Texas George W. Bush e della
sua nota predilezione per la sedia elettrica; un attivista di un gruppo di
protesta contro le sanzioni all'Iraq, indagato a Chicago dalla polizia e da
un ispettore postale perché ha chiesto francobolli senza l'aquila americana
per una circolare da inviare a 4000 iscritti della sua associazione; un
pensionato di San Francisco, interrogato per ore sulle sue posizioni
politiche per avere confidato agli amici in palestra i propri dubbi sulla
guerra in Afghanistan.
            Stando alle denunce di Amnesty International e del Center for
Constitutional Rights (13) almeno duemila persone (erano 1.147 già il 5
novembre 2001) sono state arrestate sulla base di semplici sospetti, senza
mandato e il più delle volte senza addebiti penali; non è stata fornita loro
la motivazione dell'arresto né la possibilità di avvalersi di un difensore;
spesso il luogo di detenzione non è stato rivelato nemmeno ai familiari; in
molti casi sono trascorsi cinquanta giorni e in almeno un caso quattro mesi
prima che il detenuto incontrasse un magistrato; molti detenuti sono stati
tenuti in carcere per mesi sulla base di trasgressioni veniali delle leggi
sull'immigrazione; per estorcere confessioni si è ricorso a interrogatori
vessatori o `involontari'; senza base legale né la garanzia risarcitoria del
mandato giudiziario di compensazione si sono confiscate le proprietà delle
persone imprigionate; molti processi sono avvenuti in totale segretezza e
talvolta se ne è negata l'avvenuta celebrazione. Gli ultimi episodi noti
risalgono al dicembre 2002, quando la polizia di Los Angeles arresta, senza
accuse né indagini, cinquecento, forse settecento immigrati musulmani
presentatisi agli sportelli dell'Ins per mettersi in regola con le nuove
leggi `anti-terrorismo'. E quando nel Texas quattro fratelli vengono
accusati di finanziare il terrorismo per avere spedito computer e generici
software verso uno «Stato canaglia» (14).
            Non è ancora finita. Mentre la Corte Suprema dichiara
costituzionale la legge californiana che prevede l'ergastolo alla terza
condanna indipendentemente dalla gravità dei reati commessi e vengono resi
noti i dati agghiaccianti della condizione dei minori nel sistema
giudiziario degli Stati Uniti (250.000 adolescenti processati senza che le
corti abbiano tenuto conto della loro età; 16.000 minori detenuti in carceri
per adulti), per puro caso, il 10 febbraio scorso, un collaboratore del
Center for Public Integrity (un'associazione impegnata nella difesa dei
diritti civili) si imbatte nel testo di un nuovo disegno di legge (il
Domestic Security Enhancement) di cui il dipartimento della Giustizia ha
sempre negato l'esistenza. Tra i punti più scabrosi del progetto, subito
soprannominato Patriot Act II, sono l'ulteriore ampliamento del concetto di
«enemy combatant» (quindi dell'insieme dei reati punibili con la pena
capitale e dell'area di legalizzazione degli arresti segreti, per i quali si
rovescia l'onere della prova); la legittimazione di schedature di cittadini
incensurati in assenza di mandato; la facoltà, per il governo, di espellere
l'immigrato accusato - sulla base di semplici sospetti - di terrorismo o di
fiancheggiamento (se l'accusato è cittadino, lo si priva della
cittadinanza). Il commento dell'American Civil Liberties Union è di quelli
che fanno riflettere: per la prima volta dai tempi della Guerra civile, gli
Stati Uniti legalizzano la violazione dell'habeas corpus (15).
            3. L'11 settembre vede anche l'avvio di un'offensiva diplomatica
americana nei confronti degli alleati, per convincerli ad allinearsi alla
strategia `anti-terrorismo' adottata dalla Casa Bianca. L'Europa è
ovviamente tra gli interlocutori chiave, e il 16 ottobre del 2001 Bush invia
a Romano Prodi una lunga lettera che meriterebbe un esame approfondito.
Limitiamoci all'essenziale.
            Il progetto di cooperazione `anti-terrorismo' esposto dal
presidente americano annovera 47 punti, ma ruota intorno a tre cardini: 1.
agevolazione dello scambio di informazioni sulle persone (compresi i dati
bancari), per il quale si chiede di autorizzare procedure informali
(richieste orali); 2. accelerazione dei procedimenti di estradizione (ai
quali si chiede di preferire provvedimenti di «espulsione o deportazione»
nel caso di «violatori di status, criminali e soggetti inammissibili»); 3.
coordinamento della difesa delle frontiere esterne. La lettera trascura il
fatto che gli Stati Uniti non dispongono di leggi sul trattamento dei dati
personali a salvaguardia della privacy; non fa menzione delle Convenzioni
internazionali e delle norme costituzionali sul diritto d'asilo, contro la
tortura e la pena di morte; confonde di continuo terrorismo, criminalità e
immigrazione, oltre ad assumere come ovvia una circostanza inesistente
(almeno sinora), e cioè che gli Stati Uniti e l'Unione europea abbiano
frontiere comuni (16). Ciò nonostante, la Commissione europea promette che
la maggior parte delle richieste sarà esaudita. Dal 26 ottobre del 2001 (lo
si è appreso nel febbraio successivo) ha luogo una fitta serie di incontri
riservati, di «natura confidenziale», tra funzionari americani, canadesi ed
europei, in occasione dei quali vengono costituiti gruppi di lavoro
congiunti sui temi dell'immigrazione, dell'asilo, dei piani di transito, del
controllo delle frontiere, del traffico di stupefacenti e del crimine
informatico (17). Il risultato di questi contatti (emblematici del generale
processo di «governamentalizzazione» della sovranità, che vede il
progressivo esautoramento dei Parlamenti) può essere sintetizzato dicendo
che l'Unione europea ha fatto propria la dottrina Bush della `guerra contro
il terrorismo', in quanto ne ha introiettato i due caposaldi: l'idea che la
minaccia terroristica sia grave al punto di giustificare la sospensione dei
diritti fondamentali, e la propensione ad assimilare (sulla base di
presupposti razzisti) lotta al terrorismo e gestione dei movimenti
migratori.
            Di tale orientamento fanno fede numerosi provvedimenti assunti
in sede comunitaria, a cominciare dal mandato d'arresto europeo (che estende
di fatto all'intero territorio dell'Unione la competenza delle procure dei
singoli Stati e sopprime il sistema di controllo previsto dalle procedure di
estradizione senza che si sia messa mano all'unificazione dei codici) (18) e
dalla Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo (13 giugno 2002),
che contempla una definizione dei «reati terroristici» (Art. 1)
comparabile - per ampiezza e vaghezza - a quella fornita dalla più recente
legislazione statunitense. Viene considerato terroristico, per fare un
esempio, qualsiasi «atto intenzionale», teso a destabilizzare le strutture
«economiche o sociali di un paese», che determini la distruzione di
«proprietà private» e con ciò causi «perdite economiche considerevoli» (19).
Non occorre indossare lenti ideologiche per capire come questa definizione
consenta di criminalizzare qualsiasi manifestazione di dissenso in occasione
della quale si verifichino scontri di piazza. Se la normativa europea fosse
stata tradotta in legge prima del G8 di Genova, sarebbe stato possibile
incriminare per `reati terroristici' tutti i manifestanti fermati dalle
forze dell'ordine. E del resto non è casuale che la maggioranza dei governi
europei si sia opposta a una clausola che neutralizzasse il potenziale
repressivo della Decisione impedendo di usarla contro quanti «agiscono al
fine di preservare o rafforzare i valori democratici ed esercitano il
diritto di manifestare le proprie opinioni, anche ove, nell'esercizio di
tale diritto, abbiano commesso reati» (20).
            Non sorprende, in questo clima, che nei paesi europei si siano
adottati provvedimenti e comportamenti molto simili a quelli messi in atto
dal governo americano. Consideriamo qui due scenari, l'Inghilterra di Blair
e l'Italia di Berlusconi. Benché si tratti di un campione sospetto (di due
paesi che in questa fase fanno a gara nel mostrarsi proni ai desiderata
della Casa Bianca), sarebbe agevole confutare l'illusione che, per quanto
riguarda la lotta al `terrorismo interno', nel resto del continente ci si
muova in controtendenza (21).
            4. L'esame della principale legge inglese contro il terrorismo
varata dopo l'11 settembre potrebbe ridursi a una semplice osservazione.
L'Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001, entrato in vigore il 14
dicembre 2001, è sostanzialmente la copia fotostatica del Patriot Act
americano. Stessa logica emergenzialista («il governo ritiene che sussiste
uno stato di pubblica emergenza [...] in quanto l'11 settembre pone una
sfida diretta al Regno Unito»), identica la richiesta di conferire valore di
legge all'arbitrio dell'esecutivo, nella persona del ministro degli Interni
David Blunkett. Il quale, in base alla IV sezione della legge, ha ora il
potere di definire un individuo «terrorista internazionale» per il semplice
fatto di nutrire «sospetti» nei suoi confronti e di «credere
ragionevolmente» che la sua presenza sul territorio del Regno costituisca
una minaccia per la sicurezza nazionale.
            Ne segue un enorme ampliamento dei poteri che, come negli Stati
Uniti, sbriciola i fondamentali diritti di libertà sanciti nella Convenzione
europea per i diritti dell'uomo. A farne le spese sono in primo luogo gli
immigrati, vero obiettivo della `guerra preventiva' per la `sicurezza
nazionale'. La legge consente di tenere in carcere a tempo indeterminato gli
`stranieri' sulla scorta di sospetti e `prove' segrete, senza formulazione
di accuse né processo; e nega la possibilità di impugnare le decisioni prese
in violazione dei diritti di profughi e richiedenti asilo. Ma ad essere
minacciati sono tutti i residenti sul territorio britannico, in quanto la
semplice accusa di terrorismo determina l'accesso a un «sistema di giustizia
penale ombra» (22) nel quale è lecito negare a detenuti e avvocati qualsiasi
informazione sulle motivazioni dei provvedimenti assunti. L'idea è che in
tempi normali i diritti sono una bella cosa, ma nei momenti difficili si
trasformano in lussi superflui. Così si spiega che la richiesta del rispetto
dell'habeas corpus e delle fondamentali garanzie giuridiche sia stata
liquidata da Blunkett come frutto di una «visione del mondo `libertaria',
superficiale e astratta, incompatibile con la tutela della sicurezza della
nazione in un momento di emergenza» (23).
            Risultato? Stando agli ultimi dati, la politica
«anti-terrorismo» inglese produce molti arresti (304 casi documentati
dall'11 settembre 2001) a fronte di poche incriminazioni (40), in minima
parte (tre casi in tutto, peraltro riferiti ad associazioni che non hanno
relazioni con gruppi terroristici islamici) connesse a reati di terrorismo
(24). Ma questo imbarazzante insuccesso non induce il governo alla cautela.
Dall'11 settembre di due anni fa si susseguono retate, arresti senza
imputazioni, gravi violazioni dei diritti umani nei confronti dei detenuti.
Per darne un'idea, un rapporto di Amnesty International redatto lo scorso
settembre ha reso noto il caso di due detenuti (Lofti Raissi, algerino,
arrestato su richiesta delle autorità statunitensi che ne richiedono
l'estradizione senza addurre prove della sua colpevolezza; Mahmoud Abu
Rideh, profugo palestinese, residente in Inghilterra dal 1977, rinchiuso
senza incriminazioni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh e poi
internato nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Broadmoor) sui 36
riguardo ai quali si è riusciti ad ottenere informazioni (25). Quel che più
preoccupa è lo scontro tra l'esecutivo e la magistratura, nel quale il
governo ostenta indifferenza e disprezzo per i pronunciamenti dei giudici.
Il «Guardian» di Londra ha rivelato che l'anno scorso tre magistrati della
Commissione speciale di appello per l'immigrazione hanno dichiarato illegale
perché discriminatoria e incompatibile con le convenzioni europee sui
diritti umani la detenzione di nove stranieri (ovviamente musulmani) decisa
(sulla scorta di semplici sospetti) in base al Terrorism Act. Il ministro ha
annunciato ricorso, e si è ben guardato dallo scarcerare i detenuti (26).
            In questo clima non stupisce che venga affermandosi un processo
di militarizzazione della società nel quale si inscrivono il rapido aumento
della popolazione carceraria (passata negli ultimi tre anni da 53.000 a
oltre 70.000 unità), l'imposizione del coprifuoco per i minori in diversi
centri urbani, il tendenziale abbandono del procedimento penale in favore di
procedure informali e punizioni sommarie (interrogatori segreti, fermo di
polizia prolungato, detenzione amministrativa) e, da ultimo, il
dispiegamento di carri armati nella caccia al terrorista tra aeroporti e
autostrade (27). Le più elementari garanzie appaiono vincoli incompatibili,
al punto che le autorità inglesi stanno considerando l'opportunità di
proporre un emendamento alla Convenzione europea sui diritti dell'uomo che
cancelli il divieto di «trattamenti o punizioni inumani o degradanti» e
legittimi in sostanza la tortura (28). Del resto, perché andare tanto per il
sottile visto quel che succede a Guantanamo, dove sono detenuti anche
cittadini inglesi della cui sorte il governo Blair si è sempre
scrupolosamente disinteressato? (29). Così, mentre da una parte si provvede
a militarizzare le frontiere (la compagnia Eurotunnel, responsabile del
centro di Sangatte, ha appaltato la direzione della sicurezza a un generale
inglese a riposo e ha investito oltre sette milioni di euro nel 2002 in
misure «antipenetrazione» che vanno dalle telecamere a infrarossi alle reti
munite di lame da rasoio, alle sonde al carbonio), dall'altra si decreta
l'abrogazione del diritto d'asilo (sostituito dal respingimento dei profughi
nelle cosiddette `zone sicure' dell'Onu: la Turchia, l'Iran, la Somalia).
            5. La situazione italiana è meno grave, almeno a prima vista. Il
governo non ha emanato un testo unico contro il terrorismo, ragion per cui
le forzature e le violazioni della legalità da parte delle autorità
politiche e di polizia, che pure non mancano, sono in questo caso meno
evidenti. A ciò si aggiunge il fatto che, nonostante gli incessanti attacchi
lanciati dal governo contro la magistratura, quest'ultima è riuscita sinora
a difendere la propria autonomia e indipendenza e a svolgere nella gran
parte dei casi la funzione di garanzia che la Costituzione le assegna. Ciò
nondimeno, non mancano motivi di seria preoccupazione, sia per quanto
attiene alle manifeste propensioni autoritarie dell'attuale esecutivo, sia
in relazione al prevedibile deteriorarsi del clima sociale e politico del
paese in conseguenza dell'eventuale inizio della guerra in Iraq.
            Il 27 gennaio scorso il ministro degli Interni Pisanu è stato
ascoltato dalle commissioni Affari costituzionali e Difesa della Camera in
seduta congiunta. Oggetto dell'audizione, il fenomeno del terrorismo in
Italia. Nel contesto di un resoconto in gran parte scontato, due
affermazioni appaiono significative. La prima suonerebbe comica, se non
fosse una penosa testimonianza della tradizionale vocazione al servilismo di
ampi settori del nostro ceto politico. Con malcelata soddisfazione il
ministro ha riferito che «solo qualche giorno fa, l'Attorney General degli
Stati Uniti d'America», cioè quel John Ashcroft che non lascia passar giorno
senza attaccare le libertà e i diritti civili sanciti dalla Costituzione
americana, «ha dato pubblicamente atto al nostro paese di aver assunto «un
ruolo di leadership» nella lotta al terrorismo». Il secondo passaggio merita
più attenzione. Affrontando la questione del terrorismo internazionale,
Pisanu ha dichiarato che l'«azione di contrasto» dello Stato su questo
terreno si è avvalsa, «oltre che dei tradizionali strumenti informativi ed
investigativi, anche della più ampia gamma di istituti introdotti con la
normativa antiterrorismo del 2001» (30).
            A quali `istituti' pensava il ministro? Di sicuro, alle
circolari con cui nell'ottobre del 2001 il ministero della Giustizia ha
imposto la censura sulla posta e la detenzione «di alta sicurezza» agli
oltre 10.000 detenuti provenienti dai paesi islamici (31). Con ogni
probabilità - anche se si tratta di un provvedimento molto più recente - il
riferimento concerneva anche la nuova versione dell'Art. 41 bis del codice
penale, che ha esteso il «carcere duro» a «terroristi» e «trafficanti di
esseri umani». Ma è certo che Pisanu alludeva in particolare al dl 374/2001
(Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale) che ha
introdotto la nuova figura delle «associazioni con finalità di terrorismo
anche internazionale», disciplinata, in via definitiva, dal nuovo Art. 270
bis del codice penale. In effetti, la riformulazione di questa famosa e
famigerata norma ha dato vita a uno strumento da molti ritenuto
indispensabile nel nuovo scenario mondiale, in quanto il testo precedente
tutelava soltanto l'ordine costituzionale italiano e non era applicabile ad
organizzazioni interessate all'«eversione» dell'ordinamento di altri paesi
(32). Dopodiché va segnalato che a tale ampliamento non si accompagna
soltanto, come di questi tempi è ovvio, la persistenza della logica
emergenzialista fondata sull'uso e abuso dei reati associativi, ma anche
(grazie alla distinzione di principio tra il reato di «eversione dell'ordine
democratico» e quello di «terrorismo», che la norma si guarda bene dal
definire) la possibilità di classificare e perseguire come terroristica
qualsiasi forma di violenza politica, compresa la resistenza a regimi
repressivi o dispotici (non è un caso che l'elenco delle organizzazioni
terroristiche redatto e periodicamente aggiornato in sede europea dopo l'11
settembre includa il Pkk dei curdi e le Forze unite di autodifesa della
Colombia). Com'è stato osservato proprio a questo riguardo, «la «guerra al
terrorismo" conduce alla criminalizzazione dell'idea stessa di liberazione e
di autodeterminazione» (33).
            Al pari della normativa europea (e anzi ancor più di questa, che
almeno contiene una definizione dei «reati terroristici»), la legge italiana
ha un campo di applicazione virtualmente infinito, suscettibile di coprire
ogni atto di dissenso politico violento. Ma per quanto siano a rigore le
uniche norme «anti-terrorismo» varate in Italia dopo l'11 settembre, quelle
sin qui considerate non esauriscono in realtà l'insieme degli strumenti
attualmente in uso nel nostro paese ai fini della `guerra contro il
terrorismo'. Purché non ci si lasci fuorviare dalle apparenze e dalle
formule propagandistiche, è facile intuire che un formidabile strumento di
repressione e criminalizzazione sul versante strategico dell'immigrazione è
costituito, in questo contesto, dalla Legge Bossi-Fini. Non è possibile
soffermarsi qui analiticamente sugli innumerevoli aspetti di
incostituzionalità di questa legge (peraltro presenti, in parte, già nella
normativa precedente, varata dal centro-sinistra). Occorre concentrarsi sul
suo carattere repressivo e liberticida (34).
            La legge crea ampie zone di arbitrio (sia nelle questure che nei
cosiddetti centri di permanenza temporanea) in cui le forze dell'ordine
possono muoversi in assenza di controlli da parte dell'autorità giudiziaria,
alla quale di fatto si sostituiscono. La pratica della detenzione
amministrativa e delle espulsioni immediate permette di prendere
provvedimenti limitativi della libertà personale senza l'intervento della
magistratura previsto dalla Costituzione. A ciò si aggiunge un uso quanto
meno improprio dello strumento processuale (con un disinvolto ricorso
all'arresto, alla custodia cautelare e al giudizio direttissimo) che
autorizza a parlare del progressivo affermarsi di un diritto penale speciale
per i migranti che accedono o si avvicinano al territorio italiano. Se
questo è vero, possiamo dire che la differenza tra la nuova legislazione
italiana sull'immigrazione e le leggi `anti-terrorismo' varate negli Stati
Uniti e in Inghilterra dopo l'11 settembre è in buona parte puramente
nominale. Nel senso che mentre gli americani e gli inglesi non hanno remore
a dichiarare la logica razzista della `guerra contro il terrorismo' (per cui
inseriscono la gestione repressiva dell'immigrazione nel quadro della nuova
legislazione sicuritaria), il nostro governo si muove più cautamente (cioè
ipocritamente), distinguendo in apparenza gli ambiti di intervento. Ma se
guardiamo i fatti, le differenze dileguano.
            Dall'11 settembre si susseguono controlli e rastrellamenti
etnici (i cosiddetti `pattuglioni') a Roma, Milano, Bologna e in molte altre
città italiane mèta di immigrazione di origine asiatica o mediorientale
(35). L'ultimo episodio è di questi giorni. A Milano decine di immigrati in
attesa di regolarizzazione sono stati prelevati da casa o dal posto di
lavoro senza preavviso e in poche ore imbarcati su un aereo con
provvedimenti di rimpatrio coatto non motivati (36). Sono già migliaia i
profughi pakistani arrestati o rimpatriati perché in possesso di ritagli di
giornale o cartine topografiche; centinaia i musulmani inquisiti per reati
associativi, puntualmente additati sulla stampa come `terroristi',
incarcerati in base a labili indizi, poi - verificata l'inconsistenza degli
addebiti - scarcerati di nascosto e subito rimpatriati per evitare che la
loro vicenda dia adito a spiacevoli incidenti. Ci si rammenta facilmente del
caso di Bologna (agosto 2002), non occultabile perché tra i cinque arrestati
(sospettati di preparare un attentato nella chiesa di San Petronio perché
«sorpresi» a discorrere del crocifisso ligneo posto alle spalle di un
altare) vi era un cittadino italiano, in realtà intento a illustrare
paternità e valore dell'opera d'arte. Ma casi del genere (molto più tristi
per la lunga detenzione dei malcapitati e per il fatto di concludersi con
l'espulsione dall'Italia) si ripetono.
            A Roma quattro cittadini afghani vengono arrestati nel febbraio
del 2002 perché trovati in possesso di una cartina della città in cui sono
evidenziati istituzioni e luoghi di culto cattolici. Si scoprirà che si
tratta di profughi intenzionati a chiedere asilo, e che la cartina era stata
segnata da volontari della Caritas ai quali si erano rivolti per trovare
alloggio. Un'identica vicenda ha luogo a Trieste, con la differenza che in
questo caso i migranti afghani fermati vengono rimpatriati nel loro paese
ancora in guerra (37). A Gela l'11 settembre del 2002 quindici pakistani, a
bordo di un mercantile, vengono trovati in possesso di documenti irregolari;
arrestati con grande clamore («Scoperta cellula di Al Qaeda») e detenuti per
mesi a Caltanissetta, sono scarcerati quando emerge che si tratta di
migranti in cerca di lavoro. Il loro avvocato accusa le autorità italiane di
«avere montato deliberatamente una spettacolare messinscena
nell'anniversario delle Twin Towers» (38).
            Da ultimo, alla fine del gennaio scorso scoppia il caso dei 28
pakistani di Napoli, «nascosti» in una casa di proprietà del capoclan della
camorra Luigi Giuliano a Forcella. Stando ai giornali, gli inquirenti vi
trovano di tutto: tracce di esplosivo, documenti, e naturalmente `mappe', in
base alle quali gli inquirenti ipotizzano che «i terroristi pachistani
volevano colpire un ammiraglio inglese» (39). Il caso resta sotto i
riflettori finché, il 12 febbraio, le accuse cadono e i 28 pakistani vengono
scarcerati. La «Stampa» di Torino relega la notizia in seconda pagina, in
taglio basso, perché l'apertura del giornale è riservata a un'altro scoop:
«Allarme bioterrorismo anche in Italia».
            Se si legge la Relazione sulla situazione e sulle tendenze del
terrorismo in Europa relativa al periodo compreso tra l'ottobre del 2001 e
l'ottobre scorso, si scopre che il dossier sul terrorismo internazionale in
Italia è di gran lunga il più ampio (40). Il motivo è che vi sono elencati
(naturalmente senza rivelarne l'inconsistenza) anche i casi inventati come
la bufala di San Petronio e la vicenda dei poveri pakistani di Gela. Non c'è
da sorriderne. Tutto serve ad alimentare l'ossessione della minaccia
terroristica e a giustificare la sistematica violazione dei diritti di
migranti, profughi e richiedenti asilo.
            Nemmeno in relazione a questi ultimi l'Italia si discosta dalla
prassi adottata di recente dall'Inghilterra, con l'aggravante che il nostro
paese è all'ultimo posto nell'Unione europea (meno di 10.000 riconoscimenti
su un totale di 600.000) nella concessione dell'asilo politico e umanitario
(41). Fece scalpore, lo scorso dicembre, il caso di Mohammad Said Al-Sahri,
profugo politico siriano da vent'anni in Iraq e intenzionato a chiedere
asilo al nostro paese, bruscamente rimpatriato dalla polizia insieme alla
sua famiglia e con ciò esposto al rischio di una condanna a morte. Di lui
non si è saputo più nulla. Ma anche a questo proposito sono molto più
numerosi i casi di cui nessuno viene a conoscenza. È esemplare al riguardo
quanto è avvenuto nel `centro di accoglienza' allestito all'interno della
zona militare dell'aeroporto di Lampedusa, dove centinaia di immigrati
richiedenti asilo sono stati detenuti per lungo tempo in condizioni di
pressoché totale indigenza, finché la gran parte di essi è stata rimpatriata
prima ancora che la richiesta fosse stata presa in esame secondo le norme
vigenti (42).
            La violazione dei diritti dei profughi è sistematica. Anche
nella delicata fase di identificazione, si registra la `collaborazione'
delle autorità consolari dei paesi di provenienza, secondo una prassi
vietata da tutte le convenzioni internazionali (43). Si può dunque ben dire
che il diritto d'asilo è una delle vittime illustri dell'11 settembre, al
pari di tutti i diritti fondamentali dei migranti (44). Ma se questi
ultimi - reclusi in massa nei centri di detenzione e nei penitenziari (un
detenuto su tre nelle carceri italiane è `extracomunitario' (45)) - sono le
vittime privilegiate della `guerra al terrorismo' condotta dalle nostre
autorità, non sono tuttavia i suoi unici obiettivi. L'attacco alle garanzie
giuridiche è generale. Stando all'allarme lanciato dall'associazione dei
Giuristi democratici (46), l'arbitrio dilaga grazie allo smantellamento del
principio dell'obbligatorietà promosso dall'indeterminatezza dei profili di
reato disegnati nelle nuove norme. Sono sempre più frequenti anche nel
nostro paese i casi di attività sotto copertura e di intercettazioni
preventive, mentre si afferma la tendenza alla ri-militarizzazione delle
forze di polizia. Come la tragica esperienza di Genova ha dimostrato,
l'impunità delle forze dell'ordine è sistematicamente garantita dalla
inadeguata conoscenza della catena di comando che ha condotto un'operazione
di polizia in difesa dell'ordine pubblico. Gli abusi si moltiplicano nella
fase delle indagini preliminari (in Italia non esiste un codice di
conduzione degli interrogatori nelle stazioni di polizia, né vi è certezza
della identificabilità dei soggetti che li conducono) e in carcere, dove è
tanto più difficile garantire la regolarità dei trattamenti, in quanto il
controllo è di fatto demandato allo stesso organismo penitenziario che
dispone la custodia delle persone.
            Il momento che viviamo è delicato. Il modello segregativo
incarnato dal carcere accenna a diffondersi per il tramite dei Centri di
permanenza temporanea (è di queste ore l'annuncio della decisione di
costruirne altri 14), delle Comunità di recupero che si contendono una
cospicua massa di denaro pubblico, dei `piccoli manicomi' a cui si delega la
controriforma degli ospedali psichiatrici. E se ancora il nostro paese non
ha raggiunto la sinistra perfezione dell'archetipo americano e inglese, non
mancano i segni premonitori di una tendenza. Gli arresti di Cosenza, nel
novembre 2002, e la pubblicazione - per iniziativa della Digos di Genova -
delle fotografie di due sindacalisti dei Cobas, additati come capi dei black
bloc il 9 gennaio scorso (47), non possono essere archiviati come banali
manifestazioni di leggerezza o di eccesso di zelo. Contro il movimento di
opposizione alla `globalizzazione' capitalistica non ci si è accontentati di
usare il nuovo 270 bis del codice penale, ma, per la prima volta in Italia,
si è anche ritenuto di indicare come addebito rilevante il «tentativo di
sovvertire gli ordinamenti economici»: non è soltanto un tentativo di
sacralizzare penalmente la struttura sociale esistente, sottraendola al
diritto di critica, ma anche un trasparente richiamo alla nuova normativa
europea contro il terrorismo che, come sappiamo, annovera tra i `reati
terroristici' anche gli atti tesi a «destabilizzare le strutture politiche,
economiche o sociali di un paese».
            6. Quelli passati qui in rassegna sono soltanto alcuni snodi
cruciali dell'offensiva scatenata da taluni governi occidentali, con l'alibi
della lotta contro il terrorismo interno e internazionale, contro il sistema
di diritti e garanzie costituzionali nel quale risiede l'essenza dello Stato
democratico. Si dovrebbe andare avanti nel resoconto, soffermarsi almeno su
un altro scenario (l'Asia) meno conosciuto ma altrettanto drammatico. Basti
considerare a questo riguardo un aspetto che ci chiama direttamente in
causa. Tra gli effetti attesi di provvedimenti come il Patriot Act e il
Crime and Terrorism Act vi è il soffocamento della libertà di parola tra i
profughi che risiedono negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e questo può
certamente considerarsi un regalo che i governi occidentali stanno facendo
ai regimi dittatoriali post-coloniali di cui in passato hanno favorito
l'insediamento (48). Lo stesso può dirsi in relazione al nuovo 270 bis del
nostro codice penale, che - lo si è osservato - condanna come terrorismo
l'opposizione politica «violenta» nei confronti di qualsiasi potere
costituito, senza riguardo per le sue caratteristiche, cioè per la presenza
o meno dei requisiti minimi di democraticità.
            Ma è necessario concludere, rimandando ad altre occasioni
un'analisi più ampia della materia. Come si diceva, si è inteso fornire un
semplice resoconto fattuale, senza allegarvi considerazioni politiche. Un
aspetto, tuttavia, deve essere subito sottolineato, se si vuole essere certi
di collocare questi elementi in una prospettiva pertinente. L'ultimo anno e
mezzo ha visto una decisa accelerazione del processo di militarizzazione
delle società occidentali, coerente e rispondente alla militarizzazione
delle relazioni internazionali, al ritorno della guerra come strumento
privilegiato nei rapporti tra le principali aree geopolitiche. In tale
contesto, il termine terrorismo è un operatore discorsivo cruciale in quanto
consente l'unificazione del campo degli obiettivi interni ed esterni
dell'intervento coercitivo (migranti e marginali, criminali, oppositori
politici, `Stati canaglia' e loro protettori) e quindi la polarizzazione di
due ambiti speculari (amici vs. nemici) funzionale alla guerra. Ma proprio
il nesso tra guerra e repressione suggerisce che tale processo non comincia
l'11 settembre del 2001, bensì almeno dal momento in cui la fine
dell'equilibrio bipolare riserva agli Stati Uniti l'iniziativa politica e
militare in vista della definizione di un `nuovo ordine mondiale' (49). Se
coglie nel segno, tale considerazione impone almeno di nominare lo scenario
che costituisce il vero sfondo dei processi evocati in queste pagine. Il
compito è agevolato dal fatto che la leadership statunitense non perde
occasione per puntualizzare che, al di là degli `Stati canaglia', la
minaccia è rappresentata dagli altri poli di potenza mondiale in via di
costituzione: l'Europa (sempre meno affidabile dopo la creazione dell'euro),
 la Russia, l'India e soprattutto la Cina (50). Da questo punto di vista
nulla appare più fuorviante, per quanto oggi è dato intuire, che
drammatizzare la discontinuità tra il Novecento e il nuovo secolo: se la
storia del Xx secolo ha ruotato intorno al conflitto Est-Ovest (senza che
ciò escludesse, ovviamente, i conflitti tra Nord e Sud), quest'asse promette
di rimanere cruciale ancora per molto tempo nel xxi secolo, pur avendo
relegato sullo sfondo - almeno per l'immediato - la contraddizione tra il
mondo capitalistico e il pericolo socialista.
            Questo è lo scenario sullo sfondo del quale si colloca il
processo di restrizione degli spazi democratici nelle nostre società: è bene
saperlo se si vuole che l'analisi del presente non si risolva in un'inerte
ricognizione dei dati di fatto ma aiuti in qualche modo l'azione politica.
Dal riferimento del discorso sulla regressione autoritaria delle nostre
società allo scenario geopolitico generale discendono infatti due
conseguenze rilevanti. La prima è che, nella misura in cui trova la propria
ragion d'essere nella competizione strategica tra gli Stati Uniti e le altre
potenze virtualmente globali, il processo di militarizzazione delle società
occidentali non costituisce un'`emergenza' di breve periodo né appare
destinato a una imminente inversione di tendenza. Esso dev'essere
focalizzato in relazione a una nuova fase delle relazioni internazionali
della quale il Pentagono pronostica una lunga durata (nell'ordine dei
venti-trent'anni) e che il vicepresidente americano Cheney considera
potenzialmente «infinita». La seconda conseguenza è che oggi nuovamente -
come già negli anni Trenta del Novecento - la battaglia democratica contro
lo strapotere degli esecutivi, a salvaguardia dello Stato costituzionale di
diritto, dell'autonomia della magistratura, dei principi di libertà e di
autodeterminazione, si lega inestricabilmente alla lotta per la pace e
contro la guerra. Se è vero che non c'è democrazia possibile quando c'è la
guerra, è altrettanto vero che una grande lotta in difesa della democrazia
può contribuire in modo significativo a sconvolgere i piani imperialistici
di nuova colonizzazione del Sud del mondo su cui oggi Bush e i suoi alleati
giocano il tutto per tutto e che rischiano di rappresentare solo la premessa
di una nuova catastrofe mondiale.


            note:
            1  An Open Letter to the Members of Congress, in «The Nation»,
14 ottobre 2002, p. 5.
            2  Per un suo più approfondito esame rinvio al saggio
introduttivo del mio La guerra delle razze, manifestolibri, Roma 2001.
«Grande trasformazione» Karl Polanyi definì il massiccio ricorso al potere
regolatore e coercitivo dello Stato dopo il fallimento delle politiche di
libero mercato imposte dal grande capitale inglese tra gli anni Trenta e
Settanta dell'Ottocento (cfr. La grande trasformazione. Le origini
economiche e politiche della nostra epoca [1944], Einaudi, Torino 1974).
            3  Modello Guantanamo, apparso sul numero 35 del gennaio 2003 di
questa rivista.
            4  Convinta che la reazione militare al terrorismo sia sbagliata
e che debba essere data una risposta politica, la deputata Barbara Lee è
stata l'unica a votare contro. Questa fedeltà ai propri principi le è
costata l'accusa di tradimento e numerose minacce di morte (cfr. Nancy
Chang, Silencing Political Dissent. How Post-September 11 Anti-Terrorism
Measures Threaten Our Civil Liberies, Seven Stories Press, New York 2002, p.
98).
            5  Cfr. The State of Civil Liberties: One Year Later. Erosion of
Civil Liberties in the Post 9/11 Era, A Report Issued by The Center for
Constitutional Rights (www.ccr-ny.org ), pp. 4-5.
            6  Usa Patriot Act è l'acronimo di Uniting and Strengthening
America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct
Terrorism; vedine il testo nel sito: www.eff.org/Privacy/Surveillance/
Terrorism.
            7  Sulla definizione di «terrorismo interno» nel Patriot Act,
Michael Ratner, Moving Toward a Police State (Or Have We Arrived?), in
«Global Outlook», n. 1, 2002.
            8  Consultabili nel sito: www.whitehouse.gov/news/ orders.
            9  Per il testo integrale, si vada al sito del Dipartimento:
www.whitehouse.gov/deptofhomeland.
            10  In the Name of Security, Thousands Denied Constitutional
Rights, in «American Free Press», 29 settembre 2001.
            11  Riportato in: Gore Vidal, L'undici settembre e dopo (ottobre
2001), in Id., La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Fazi,
Roma 2001, p. 23.
            12  Cfr. Chang, Silencing Political Dissent, cit., p. 119.
            13  Cfr. Amnesty International, All's Concerns Regarding Post
September 11 Detentions in the Usa, marzo 2002, pp. 6-7; Center for
Constitutional Rights, The State of Civil Liberties, cit., p. 12 e passim.
            14  Roberto Rezzo, Los Angeles, manette «preventive» agli
islamici, in «l'Unità», 20 dicembre 2002.
            15  Cfr. «Statewatch News-online» Aclu Comments on Patriot II
Legislation (www.statewatch.org/news/2003/ feb ).
            16  Il testo integrale commentato della lettera di Bush (US
Letter from Bush to EU, 16.10.01) è reperibile nel sito:
www.statewatch.org/observatory2.htm.
            17  Cfr. US Letter from Bush to EU, 16.10.01, cit.; Tony Bunyan,
The War on Freedom and Democracy. An Analysis of the Effects on Civil
Liberties and Democratic Culture in the EU, A Statewatch publication,
settembre 2002.
            18  Sul tema, Jean-Claude Paye, Le ipocrisie del mandato di
cattura europeo, in «Le Monde diplomatique» (ed. it.), febbraio 2002, pp.
4-5.
            19  Cfr. «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», 22 giugno
2002, L 164/3. Per un primo esame dei provvedimenti assunti dall'Unione
europea dopo l'11 settembre nel quadro della lotta contro il terrorismo,
cfr. Didier Bigo-Elspeth Guild, De Tampere à Séville, vers une ultra
gouvernementalisation de la domination, in «Cultures & Conflits», 45; Pierre
Berthelet, L'impact des événements du 11 septembre sur la création de
l'espace de liberté, de sécurité, et de justice, in «Cultures & Conflits»,
46; Immigration and Asylum in the EU After 11 September 2001 («Statewatch
Analysis» No 14: www.statewatch.org/news/2002/sep); Statewatch
«Observatory»: In Defence of Freedom & Democracy
(www.statewatch.org/observatory2b.htm).
            20  EU Definition of «Terrorism» Could Still Embrace Protests
(www.statewatch.org/news/2001/dec ); cfr. al riguardo le considerazioni di
John Brown, I pericolosi tentativi di definire il terrorismo, in «Le Monde
diplomatique» (ed. it.), febbraio 2002, pp. 4-5.
            21  Una sintetica rassegna della legislazione anti-terrorismo
varata dai diversi paesi dopo l'11 settembre è in appendice al volume
Jamm/Senzaconfine, Vecchia repressione e nuova legalità. Il mondo dopo l'11
settembre visto dalla parte delle vittime, s.l., s.d. [ma 2002], pp. 54-65.
            22  Amnesty International, Rights Denied: the UK's Response to
11 September 2001, 5 settembre 2002, pp. 4-5; per il testo della legge:
www.epolitix.com/data/ Legislation.
            23  Cfr. Audrey Gillian, La situazione difficile dei terroristi
internati in Gran Bretagna («The Guardian», 9 settembre 2002), in Vecchia
repressione e nuova legalità, cit., p. 42.
            24  Irr News Service, UK: Terror Policing Brings Many Arrests
but Few Charges: www.statewatch.org/news/2003/mar.
            25  Rights Denied: the UK's Response to 11 September 2001, pp.
14-8; per altri casi, cfr. Gillian, La situazione difficile dei terroristi,
cit., pp. 40 ss.
            26  Cfr. Vecchia repressione e nuova legalità, cit., pp. 47-9.
            27  Cfr. Orsola Casagrande, Londra dei carri armati, in «il
manifesto», 14 febbraio 2003; Lee Bridges, New Labour and New
Authoritarianism in Criminal Justice, in Irr News, 14 gennaio 2003
(www.irr.org.uk/2003/ january). Per un'analisi più ampia della situazione
carceraria inglese (in particolare riguardo ai minori), Roger Matthews, The
Changing Nature of Youth Custody in Europe (dattiloscritto distribuito in
occasione del Social Forum Europeo di Firenze); sulla condizione dei
migranti detenuti, Loïc Wacquant, «Nemici convenienti». Stranieri e migranti
nelle prigioni d'Europa, in Id., Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica
penale, ombre corte, Verona 2002.
            28  Bunyan, The War on Freedom and Democracy, cit.
            29  Amnesty International, Rights Denied: the UK's Response to
11 September 2001, cit., pp. 3-4; Bunyan, The War on Freedom and Democracy,
cit.
            30  Cfr. Commissioni riunite I (Affari costituzionali, della
Presidenza del Consiglio e Interni) e IV (Difesa), Resoconto stenografico
dell'audizione del 27 gennaio 2003 (bozza non corretta).
            31  Cfr. Vecchia repressione e nuova legalità, cit., pp. 33-4.
            32  Cfr. Desi Bruno, La risposta legislativa all'11 settembre,
in Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 50.
            33  Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 34.
            34  Per un'analisi della Legge Bossi-Fini (Legge 30 luglio 2002,
n. 189) attenta a questi aspetti, si veda Angelo Caputo, La condizione
giuridica dei migranti dopo la legge Bossi-Fini, in «Questione Giustizia»,
5/2002, pp. 964-81; col permesso delle autrici, che ringrazio, mi sono qui
avvalso anche delle osservazioni contenute in Desi Bruno - Silvia
Allegrezza, Legislazione in materia di immigrazione ed asilo. Le fattispecie
penali e le disposizioni transitorie (in corso di pubblicazione).
            35  Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 7.
            36  Massimo Solani, Immigrati, espulsioni selvagge e
senz'appello, in «l'Unità», 11 marzo 2003.
            37  Vecchia repressione e nuova legalità, cit., p. 8.
            38  Ivi, pp. 20, 26.
            39  Suona così il sommario dell'apertura della prima pagina
della «Repubblica» del 1° febbraio 2003. Il titolo non è meno apodittico:
Napoli, la Nato nel mirino.
            40  Cfr. Consiglio dell'Unione Europea, Doc. n. 14280/2/02 rev 2
(10 dicembre 2002): http://register.consilium.eu. int/, pp. 23-25.
            41  Rifugiati. Italia inospitale, in «l'Unità», 20 gennaio 2003.
            42  Cfr. Salvatore Palidda, La gestion néo-libérale des
migrations en Italie, in «Hommes & Migrations», gennaio-febbraio 2003, pp.
43 ss.
            43  Cfr. Associazione Giuristi Democratici, Guerra globale al
terrorismo. «Bufale» e diritti umani, in: Vecchia repressione e nuova
legalità, cit., p. 28.
            44  Questo vale per tutta Europa. L'11 dicembre scorso, il
«Guardian» dava notizia di «discussioni segrete» in sede europea sul
problema della ridefinizione dello status di rifugiato e di profugo; da tali
discussioni starebbe emergendo l'orientamento di restringere la rosa delle
motivazioni per l'ottenimento dell'asilo e di precarizzare d'ora in avanti
tutte le situazioni, sottoponendole a verifica periodica (EU: All Refugee
Status to Be Temporary and Terminated as Soon as Possibile,
www.statewatch.org/ news/2002/dec). Sul tema cfr. Elspeth Guild, The
Inexpected Victims of September Eleven. Immigration and Asylum, in: Walker
Rob-Gokaï Bulent (a cura di), 11 September 2001: World, Terror, and
Judgement, Ashgate, 2002.
            45  Un aggiornato quadro d'insieme della situazione del sistema
carcerario in Italia è offerto dalla recente Inchiesta sulle carceri
italiane, a cura di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella (Carocci, Roma
2002), promossa dall'associazione Antigone.
            46  D. Bruno, La risposta legislativa all'11 settembre, cit., p.
51.
            47  Mentre sul «Secolo XIX» compariva l'inserzione a pagamento
con le foto dei sindacalisti, «Panorama» pubblicava, con una significativa
sincronia, un'intervista al ministro Pisanu nella quale si sosteneva che
alcuni terroristi «si muovono nell'area antagonista delle manifestazioni
pubbliche» (affermazioni del resto puntualmente ribadite da diversi
esponenti del governo, a cominciare dal ministro Buttiglione, in occasione
della recente cattura dei brigatisti rossi Galesi e Lioce, il 6 marzo
scorso).
            48  Cfr. al riguardo Liz Fekete, Peoples' Security versus
National Security, in Irr «News», 9 settembre 2002 (www.irr.org.uk/2002/
september).
            49  Non è un caso che già nel 1995 Adrian Guelke (The Age of
Terrorism, Tauris, London) osservasse come, a forza di «essere applicato a
tipi assai diversi di violenza, alcuni dei quali, in particolare sul piano
interno, non hanno un obiettivo politico», il concetto di terrorismo tenda a
«disintegrarsi» (e quindi - si potrebbe aggiungere - a trasformarsi in una
metafora della generalità dei soggetti e dei comportamenti che si intende
reprimere). Tra il 1999 e il 2000 il Comitato dei capi di Stato maggiore
elabora il rapporto Joint Vision 2020, nel quale la Cina è individuata senza
mezzi termini come l'eventuale avversario di un prossimo conflitto globale
(cfr. Paul-Marie de la Gorce, La nuova dottrina militare americana, in «Le
Monde diplomatique» [ed. it.], marzo 2002, p. 5). Poco dopo (settembre 2000)
prende forma, ad opera del think tank di Cheney e Rumsfeld (il Project for
the New American Century), un dossier intitolato Rebuilding America's
Defences: Forces and Resources for a New Century (reso noto il 15 settembre
2002 dal quotidiano scozzese «Sunday Herald»), nel quale si puntano i
riflettori sulla Cina e si ventila la possibilità che «le forze americane e
alleate forniscano la spinta al processo di democratizzazione» di quel
paese. Da ultimo, nell'ormai celebre The National Security Strategy of the
United States of America (divulgato lo scorso settembre e pubblicato in
Italia da «Liberazione» il 10 ottobre 2002), Bush sceglie la strada della
minaccia esplicita: dichiara che, pur accogliendo «con gioia l'emergere di
una Cina solida, pacifica e prosperosa», gli Stati Uniti non possono non
rilevare che «nel perseguire avanzate capacità militari in grado di
minacciare i vicini Stati della regione Asia/Pacifico, la Cina sta seguendo
un percorso sorpassato che, alla fine, intralcerà la sua stessa ricerca
della grandezza nazionale». Per ulteriori informazioni, è utile la lettura
di Claude Serfati, L'imperialismo Usa dopo l'11 settembre, in «Guerre &
Pace», n. 93, ottobre 2002; Michel Chossudovsky, Guerra e globalizzazione.
Le verità dietro l'11 settembre e la nuova politica americana, Ega, Torino
2002.




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