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Un esercito di propaganda



da: http://www.nuovimondimedia.it

Non è una coincidenza che gli americani, e altri attorno al mondo, stiano
ripetendo all’unisono le stesse identiche frasi. È il risultato di una
campagna di pubbliche relazioni (PR) orchestrata astutamente da parte dell’
esercito e del governo USA, che prende in prestito i metodi migliori dal
mondo delle PR aziendali.

Cronisti integrati. Armi di distruzione di massa. Attacchi chirurgici.
Non è una coincidenza che gli americani, e altri attorno al mondo, stiano
ripetendo all’unisono le stesse identiche frasi e nuovi attacchi con
precisione quasi militare. È il risultato di una campagna di pubbliche
relazioni (PR) orchestrata astutamente da parte dell’esercito e del governo
USA, che prende in prestito i metodi migliori dal mondo delle PR aziendali.
In uno sforzo coordinato dall’ “Office of Global Communication” della Casa
Bianca (che coordinò tra l’altro la copertura stampa durante la guerra in
Afghanistan), tutte le persone connesse al governo durante la guerra in Iraq
stanno ripetendo il ‘messaggio del giorno’ prefabbricato.
Secondo PR Week, organo dell’industria delle pubbliche relazioni, “L’OCG, un
ufficio nato dagli sforzi successivi all’11 settembre per combattere l’
anti-americanismo emergente dai Paesi arabi, sarà fondamentale nel mantenere
tutti i portavoce all’unisono. Ogni notte le ambasciate USA del mondo,
insieme a tutti i dipartimenti federali a Washington, riceveranno via email
un ‘Global Messenger’ contenente argomenti per i discorsi e citazioni pronte
per l’uso.”
L’industria delle PR, come molti sapranno, fu fondata dai militari durante
la 1ª guerra mondiale, quando furono sviluppate delle tecniche di
persuasione per assumere soldati.
“Dopo la guerra molte di queste persone cominciarono a lavorare per il
settore privato e vengono visti come i nonni delle PR”, dice Laura Miller,
direttore aggiunto di PR Watch (www.prwatch.org), attento scrutinatore delle
aziende e dei media. “Essi erano in prima linea nel sostenere che [a loro
avviso] in una democrazia l’opinione pubblica ha bisogno di essere
controllata da un piccolo numero di persone che sanno cosa è bene per il
pubblico”.
In caso di guerra contro l’Iraq, ciò significa che non ci dovrebbe essere
confusione nè dissenso circa gli scopi o il procedere della guerra. In
quello che sembrava un complimento alla rete dell’OCG, PR Week notava che:
“La rete non serve solo a disseminare, ma anche a dominare le notizie del
conflitto intorno al mondo.”
Purificare il conflitto
Un aspetto di questo tipo di dominazione delle notizie è il controllo e la
manipolazione dei punti di vista e l’informazione proveniente direttamente
dal governo.
L’amministrazione Bush ha lavorato duro anche nel limitare e mettere
idealmente a tacere i punti di vista dissenzienti o polemici e il racconto
dei fatti proveniente da altre fonti. L’amministrazione ha attaccato
Al-Jazeera, l’emittente basata in Qatar e di proprietà dello Stato, che è la
fonte primaria di informazione per buona parte del mondo arabo.
Il 25 marzo la borsa di New York ha revocato l’autorizzazione ad Al-Jazeera.
Nello stesso momento alcuni hackers hanno reso i suoi siti in inglese ed
arabo inaccessibili dagli USA. Inoltre l’amministrazione ha fatto pressione
sull’emiro del Qatar, Hamad bin Califa al Thani, per forzare Al-Jazeera a
dare più enfasi alla versione USA dei fatti.
I critici dei media, certamente non anti-USA o pro-Saddam, notano che
Al-Jazeera è vista dai più come un’emittente moderata e obiettiva che dà
molto spazio agli ufficiali USA. Infatti quest’ultima suscitò l’ira del
governo iracheno per aver fatto la cronaca del sontuoso banchetto di
compleanno di Hussein.
Essa è stata bersagliata dagli USA per aver trasmesso i video degli
interrogatori dei prigionieri americani, cosa che violerebbe la Convenzione
di Ginevra.
“Sebbene il filmato dei prigionieri sia stato messo in onda da numerose
emittenti attorno al mondo, il governo USA ha isolato e demonizzato
Al-Jazeera”, dice Lamis Andoni, un giornalista e analista indipendente che
si è occupato per due decenni del Medio Oriente. “Essi [l’amministrazione
USA] vogliono che lì fuori ci sia una sola versione, ma non possono
mantenere questa versione sotto controllo se ci sono in giro altre storie
come quelle di Al-Jazeera”.
Una versione purificata del conflitto gioca un importante ruolo politico per
l’amministrazione USA, sia nel minimizzare la vulnerabilità delle truppe USA
che nel disumanizzare e mettere in secondo piano le vittime irachene,
soprattutto civili. Per mantenere questa strategia non solo è inaccettabile
mostrare video di prigionieri americani, ma anche scene di morte in
generale.
Erich Marquardt, direttore ed editore di YellowTimes.org, se ne accorse
quando il suo sito venne chiuso dal suo Internet provider per aver
pubblicato foto di prigionieri USA e di vittime civili irachene. Professori
di giornalismo e esperti di media notano che mentre non si è ancora
verificata una censura sfacciata su larga scala, i media USA d’accordo col
governo hanno comunque praticato l’autocensura usando il metodo del bastone
e della carota.
Stelle e striscie forever
Alcuni giornalisti di alto profilo con sentimenti contro la guerra o contro
l’amministrazione sono stati puniti per le loro opinioni. Il talk show del
conduttore Phil Donahue è stato cancellato dalla MSNBC perchè, secondo una
fuga di notizie, le sue opinioni contro la guerra e di sinistra erano
contrarie alla febbre patriottica degli ultimi tempi. Nello stesso tempo, la
MSNBC ha assegnato un programma allo scioccante Michael Savage, che tra l’
altro ha definito le giovani vittime del fuoco urbano come “melma del
 ghetto”.
Mentre rimozioni e licenziamenti come nel caso di Donahue sono relativamente
rari, Robert Jensen, professore di giornalismo presso l’università del
Texas, nota che i giornalisti ambiziosi sono stati bene informati su come i
loro reportage di guerra possano influenzare le loro future carriere.
“Il sistema premia chi vi si adatta più che punire chi non lo fa”, afferma
Jensen, autore del libro “Writing Dissent”. “Ci sono solo un paio di casi
drammatici di persone punite, ma non c’è bisogno di molti esempi per
spaventare le altre persone. Le ricompense offerte dal sistema sono
tangibili - se stai al gioco avrai questo; altrimenti potresti avere
soltanto quello”.
Secondo Jensen le ostentazioni di patriottismo da parte dei giornalisti
andrebbero considerate un tabù alla stregua dei sentimenti platealmente
ostili alla guerra: “I giornalisti sostengono di essere neutrali, ma alcuni
dicono siamo neutrali ma anche patriottici” – afferma – “Eppure il
patriottismo è una posizione politica, non neutra. Non si può essere
entrambi.”
Clear Channel, proprietario della maggior parte delle stazioni radio del
paese, ha gettato alle ortiche qualsiasi pretesa di obiettività patrocinando
manifestazioni a favore della guerra in alcune città importanti degli USA.
Integrati nella guerra
Un motivo per cui il patriottismo sembra così di moda tra gli inviati in
Iraq è il sistema del “cronista integrato”. Questa nuova strategia ha fatto
sì che circa 500 giornalisti di vari media siano praticamente integrati con
la truppa, viaggino e vivano con loro. Se da un lato ciò offre un numero
decente di notizie di prima mano, i critici sostengono che gli svantaggi
sono molto peggio dei vantaggi.
“È inusuale che ci siano così tanti giornalisti con tanto accesso al campo
di battaglia, ma questo accesso non è stato indolore,” dice Rachel Coen,
analista della FAIR (Fairness & Accuracy In Reporting).
Il lavoro del cronista integrato viene deciso dagli ufficiali del governo.
Non possono intervistare iracheni senza permesso né soldati americani se non
in via ufficiale, riducendo così la probabilità che la truppa dica qualcosa
di negativo sullo sforzo militare USA. Ed è naturale che i cronisti, vivendo
così a stretto contatto con i soldati, sviluppino cameratismo e forti legami
con la truppa.
Così come nel caso di un giornalista che diventa troppo amico di una sua
fonte, ci si trova davanti ad un dilemma etico.
“Integrare è un modo per eliminare la stampa con gentilezza,” dice Mark
Crispin Millar, professore di studi mediatici presso la NYU, “assorbi i
cronisti nelle unità militari in avanzata, ed essi saranno psicologicamente
inclini a sentirsi parte integrante delle operazioni militari. Vestiranno
persino come dei soldati.”
Durante la guerra del Vietnam, il crescente scetticismo dei media e la
copertura del conflitto giocarono un ruolo fondamentale nell’orientare l’
opinione pubblica contro la guerra. Ma Robert Jensen vede due tipi
principali di racconto provenienti dai cronisti integrati, e nessuno di essi
soddisfa il bisogno di una copertura accurata con una visione globale dei
fatti.
“Prima vengono le storie di interesse umano: cosa mangiano, come si
divertono ?”, dice. “Queste sono storie valide, ma non aiutano molto il
pubblico a capire la natura del conflitto. L’altro tipo racconta
semplicemente il movimento delle truppe: stiamo avanzando in questa strada,
abbiamo avanzato ancora, ci stanno sparando addosso. Questi sono dei
resoconti molto drammatici, ma cosa ci dicono sulla guerra, sulle politiche
di guerra, sulle bugie raccontateci dall’amministrazione Bush?”
Vittima la verità
I rapporti del FAIR documentano come la verità sia stata una delle maggiori
vittime della fiducia cieca dei media nelle fonti governative. Il 20 marzo
giornalisti di NBC, NPR, ABC ed altre emittenti, comunicavano come un dato
di fatto l’asserzione dei militari, secondo cui gli iracheni avevano fatto
uso di missili Scud proibiti. Invece due giorni dopo il Comando Unificato
affermava che in effetti nessun missile Scud era stato lanciato. Allo stesso
modo, il 23 marzo vari media strombazzavano l’affermazione del governo
secondo cui una fabbrica di armi chimiche era stata trovata vicino alla
città di Najaf, mentre un giorno dopo quell’affermazione si rivelava
totalmente infondata. Con l’aumentare delle vittime civili irachene e dei
riposizionamenti militari, tuttavia, la stampa è stata man mano costretta ad
ammettere che non tutto andava bene.
“Le recenti retromarce USA hanno reso alcuni servizi meglio di come sarebber
o stati altrimenti”, nota Mark Crispin Millar, “negli ultimi giorni hanno
dovuto ammettere che i racconti di alcuni come Rumsfeld sono semplicemente
falsi.”
Idealmente, dicono molti, lo scetticismo dei giornalisti e la disponibilità
dei media a criticare l’amministrazione cresce se la guerra va per le lunghe
e se le vittime da entrambi i lati aumentano.
“È una scommessa molto interessante questa del cronista integrato” dice
Laura Miller. “Sperano che i giornalisti facciano il lavoro di PR per loro,
e finora così è stato. Ma lì ci sono così tanti giornalisti, e i giornalisti
hanno sempre una vena idealistica. Quindi se le cose mettono male, e i
giornalisti sono nel posto giusto al momento buono, o nel posto sbagliato al
momento sbagliato, a seconda dei punti di vista, potrebbero circolare
notizie impazzite.”

Kari Lindersen scrive per il Washington Post ed è istruttore presso lo Urban
Youth International Journalism Program di Chicago.

Tradotto liberamente da Marco Fiocco (m.fiocco@planet.nl)
Fonte: http://www.alternet.org/story.html?StoryID=15507