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I blindati angloamericani avanzano nelle nostre connessioni neuronali?



I blindati angloamericani avanzano nelle nostre connessioni neuronali?


"Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno 
Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d'oro per le compagnie petrolifere 
americane a lungo bandite dall'Iraq, facendo naufragare gli accordi 
petroliferi conclusi con Baghdad da Russia, Francia e altri paesi, e 
provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali".
Questo scriveva il Washington Post il 15 settembre 2002 a conclusione di 
una serie di interviste a dirigenti dell'industria petrolifera e a leader 
dell'opposizione irachena.
Come ha scritto Manlio Dinucci "l'Iraq possiede riserve petrolifere 
accertate, economicamente sfruttabili, ammontanti a 112 miliardi di barili, 
le seconde al mondo dopo quelle dell'Arabia Saudita. La loro durata, agli 
attuali ritmi di consumo, è stimata in oltre un secolo, più di quelle 
saudite (83 anni). La durata delle riserve statunitensi è invece stimata in 
appena 10 anni. Anche se gli Usa hanno continuato ad importare petrolio 
dall'Iraq (un milione di barili al giorno nella prima metà del 2002), le 
compagnie statunitensi, sin dalla fine degli anni '80, sono state tagliate 
fuori dallo sfruttamento delle riserve irachene".
E' difficile nascondere questa verità. Dopo la non trionfale avanzata dei 
carri armati angloamericani a Bassora e a Baghdad ora si pone il problema 
di coprire le rughe coloniali di questa moderna guerra. Era una guerra 
ufficialmente nata per le armi di distruzione di massa. Poi è diventata una 
"guerra di liberazione" del popolo irakeno dalla dittatura di Saddam Hussein.

Poiché questa guerra non aveva convinto il mondo, ora le vittorie militari 
divengono un'offensiva di persuasione. Diventa cruciale trovare (e magari 
ricompensare) una popolazione festante, nascondere le vittime civili 
coperte dalle mosche e ovviamente non far vedere le oltre cento bare degli 
alleati, destinate ad aumentare giorno dopo giorno. Un'abile propaganda di 
guerra presenta la vittoria ad ogni apertura di telegiornale per poi 
rinviarla al giorno dopo al fine di focalizzare l'attenzione sulla 
"vittoria", presentata come sinonimo di "pace" ("la vittoria è la pace", 
era lo slogan dei manifesti italiani durante la prima guerra mondiale) . Ma 
intanto crescono le vittime fra i militari americani e inglesi: poveri 
diavoli nati nei sobborghi e caduti come i plebei romani assoldati per la 
gloria dei loro imperatori.
Aumentano le vittime con il crescere della velocità della guerra, con i 
frenetici ordini calati dall'alto e del resto gli "errori" del "fuoco 
amico" e i "danni collaterali" ne sono la tragica dimostrazione. 
L'imperativo del "vincere subito" - che è l'imperativo delle borse e dei 
governi - si sta traducendo in ricorrenti stragi che la focalizzazione 
sull'avanzata tende a far passare sullo sfondo.

I media temono che il pubblico assista ad una vittoria sfregiata dal 
dolore. Ma sui teleschermi devono apparire soldati sereni, che non gridano 
in infermeria, che non vanno su sedie a rotelle, che viceversa si 
rilassano, che giocano a pallone, magari con ragazzi irakeni. Non si vede 
una goccia di sangue sulle tute degli angloamericani. Sono questi gli 
"spot" che passano in Tv e che modellano l'immaginario di questa lenta ma 
vittoriosa avanzata.
Scrive il giornalista Ennio Remondino: "Il problema vero, oggi, è che le 
guerre non si fanno più soltanto per vincere, ma soprattutto per 
convincere. I generali dunque fanno il loro mestiere nel prenderci 
sistematicamente in giro (…) La chiamano 'infowar', ma resta la vecchia 
storia dell'inganno".

Ma l'inganno dove sta? Sta in tante cose, ma in particolare nel presentare 
come "liberazione" una guerra neocoloniale.
Vi saranno libere elezioni dopo la liberazione del popolo irakeno? Potrà il 
popolo irakeno decidere delle sorti del suo petrolio? O avremo un 
protettorato Usa con il contorno di sottosegretari irakeni graditi?
Nei prossimi giorni vi sarà la costruzione di coreografie con la folla 
festante, non è escluso che si pagheranno un po' di comparse, essenziale 
sarà presentare il viso felice dei bambini irakeni "finalmente liberi".
I capi dei gruppi di opposizione finanziati dagli Usa hanno annunciato che, 
con un nuovo governo in Iraq tutti gli accordi petroliferi con Russia, 
Francia, ecc. andrebbero rivisti e lo sfruttamento dell'oro nero sarà 
affidato a un consorzio a guida statunitense. I contratti di Saddam Hussein 
saranno carta straccia e le compagnie Usa acquisteranno un peso ancora 
maggiore nel mercato energetico mondiale. Del resto questo è già avvenuto 
con l'instaurazione di un governo filoamericano in Afghanistan, che ha 
riavviato il progetto del gasdotto Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan 
(con una capacità annua di 15 milioni di metri cubi) che sarà controllato 
da un consorzio a guida statunitense.
Cosa è tutto questo se non la globalizzazione a mano armata?
Il retroscena di questa guerra sta in questo ingombrante strascico di 
colonialismo e i giornalisti oggi impegnati a cogliere i dettagli militari 
deviano l'attenzione dell'opinione pubblica dal cuore dell'operazione militare.

Spiega la Rivista Italiana Difesa a proposito della prima guerra del Golfo: 
"Il modulo comunicativo predominante è stato quello di presentare il 
conflitto come un'operazione chirurgica, realizzata con costi umani 
bassissimi. E qui l'intervento degli strateghi mediatici ha toccato il suo 
culmine. Una scelta deliberata di rappresentare la guerra evitando di 
mostrare il volto più crudo e tragico. Il capolavoro è stato quello di 
calarsi nell'immaginario della cultura di massa, soddisfacendone da un lato 
l'esigenza di una guerra asettica e dall'altro presentando uno spettacolo 
d'intrattenimento, riducendo la guerra in una dimensione di quotidiana 
ordinarietà". Per la guerra del Kossovo si è svolto, spiega la rivista 
militare, "un conflitto dell'informazione, la cui importanza si è rivelata 
nettamente superiore e più decisiva degli scontri armati".

La conclusione che possiamo trarre per l'attuale guerra è consequenziale. 
La battaglia di Bassora e di Badghdad si sta svolgendo nella mente di 
milioni di persone. Il campo di battaglia dove gli angloamericani si 
giocano la vittoria è il nostro cervello.

A che punto è l'avanzata dei blindati angloamericani dentro nostre 
connessioni neuronali?
Sta incontrando una imprevista resistenza. Un sondaggio pubblicato dal 
Corriere della Sera del 7 aprile (risalente al 4-5 aprile 2003, la cui 
documentazione completa è su http://www.agcom.it) ci informa che solo l'8% 
degli italiani è favorevole ad affidare il governo dell'Iraq "agli Usa e ai 
loro alleati"; il 61% è per l'Onu, il 16% lo affiderebbe alla Lega Araba 
mentre il 15% non sa. I contrari all'attacco militare contro l'Iraq 
rimangono il 69%, in leggera diminuzione rispetto al 72% del 21 marzo ma 
comunque sufficienti a dare un chiaro orientamento. Solo il 18% crede che 
questa guerra sia "opportuna" in quanto "libereranno un popolo oppresso e 
contribuiranno a fermare il terrorismo"; solo il 17% ha in questi giorni 
sperato in una guerra breve e vittoriosa degli Usa (il 49% si augura lo 
stop definitivo della guerra e un altro 16% uno stop umanitario per portare 
aiuti); il 37% ritiene questa guerra "illegale" e un altro 37% la definisce 
"una guerra per il petrolio" e quindi ben il 74% ha compreso l'essenza 
della guerra e non crede alla propaganda. Ma il bello arriva alla domanda: 
"Se dovesse scegliere una bandiera da esporre sul suo balcone, cosa 
sceglierebbe?" La bandiera più amata dagli italiani è quella della pace 
(55%), seguita dal tricolore (18%), dalla bandiera azzurra dell'Onu (7%), 
dalla bandiera blu dell'Europa (6%) e infine dalla bandiera a stelle e 
strisce degli Stati Uniti (solo il 3%).

Vi è un limite di pudore oltre il quale il neocolonialismo diviene 
indigesto - se non altro per i riflessi antieuropei - anche per chi ha 
sostenuto l'America. La guerra che la Casa Bianca ritiene di avere ormai 
vinto fra le strade di Baghdad rischia di fallire fra i circuiti neuronali 
dell'opinione pubblica.
Joseph Pulitzer, un grande giornalista statunitense scomparso nel 1911, 
scriveva: "Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non 
vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, 
descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la 
pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione non è forse 
sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri".
In questa guerra rimane pertanto cruciale il ruolo che riusciremo a 
svolgere in termini di controinformazione, indagando sui troppi e malcelati 
retroscena di questa impresa neocoloniale, documentandone le imbarazzanti 
verità e denunciando l'ipocrisia di chi la sostiene.

Alessandro Marescotti
7 aprile 2002