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I blindati angloamericani avanzano nelle nostre connessioni neuronali?
- Subject: I blindati angloamericani avanzano nelle nostre connessioni neuronali?
- From: Alessandro Marescotti <a.marescotti@peacelink.it>
- Date: Mon, 07 Apr 2003 23:06:24 +0200
I blindati angloamericani avanzano nelle nostre connessioni neuronali?
"Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno
Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d'oro per le compagnie petrolifere
americane a lungo bandite dall'Iraq, facendo naufragare gli accordi
petroliferi conclusi con Baghdad da Russia, Francia e altri paesi, e
provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali".
Questo scriveva il Washington Post il 15 settembre 2002 a conclusione di
una serie di interviste a dirigenti dell'industria petrolifera e a leader
dell'opposizione irachena.
Come ha scritto Manlio Dinucci "l'Iraq possiede riserve petrolifere
accertate, economicamente sfruttabili, ammontanti a 112 miliardi di barili,
le seconde al mondo dopo quelle dell'Arabia Saudita. La loro durata, agli
attuali ritmi di consumo, è stimata in oltre un secolo, più di quelle
saudite (83 anni). La durata delle riserve statunitensi è invece stimata in
appena 10 anni. Anche se gli Usa hanno continuato ad importare petrolio
dall'Iraq (un milione di barili al giorno nella prima metà del 2002), le
compagnie statunitensi, sin dalla fine degli anni '80, sono state tagliate
fuori dallo sfruttamento delle riserve irachene".
E' difficile nascondere questa verità. Dopo la non trionfale avanzata dei
carri armati angloamericani a Bassora e a Baghdad ora si pone il problema
di coprire le rughe coloniali di questa moderna guerra. Era una guerra
ufficialmente nata per le armi di distruzione di massa. Poi è diventata una
"guerra di liberazione" del popolo irakeno dalla dittatura di Saddam Hussein.
Poiché questa guerra non aveva convinto il mondo, ora le vittorie militari
divengono un'offensiva di persuasione. Diventa cruciale trovare (e magari
ricompensare) una popolazione festante, nascondere le vittime civili
coperte dalle mosche e ovviamente non far vedere le oltre cento bare degli
alleati, destinate ad aumentare giorno dopo giorno. Un'abile propaganda di
guerra presenta la vittoria ad ogni apertura di telegiornale per poi
rinviarla al giorno dopo al fine di focalizzare l'attenzione sulla
"vittoria", presentata come sinonimo di "pace" ("la vittoria è la pace",
era lo slogan dei manifesti italiani durante la prima guerra mondiale) . Ma
intanto crescono le vittime fra i militari americani e inglesi: poveri
diavoli nati nei sobborghi e caduti come i plebei romani assoldati per la
gloria dei loro imperatori.
Aumentano le vittime con il crescere della velocità della guerra, con i
frenetici ordini calati dall'alto e del resto gli "errori" del "fuoco
amico" e i "danni collaterali" ne sono la tragica dimostrazione.
L'imperativo del "vincere subito" - che è l'imperativo delle borse e dei
governi - si sta traducendo in ricorrenti stragi che la focalizzazione
sull'avanzata tende a far passare sullo sfondo.
I media temono che il pubblico assista ad una vittoria sfregiata dal
dolore. Ma sui teleschermi devono apparire soldati sereni, che non gridano
in infermeria, che non vanno su sedie a rotelle, che viceversa si
rilassano, che giocano a pallone, magari con ragazzi irakeni. Non si vede
una goccia di sangue sulle tute degli angloamericani. Sono questi gli
"spot" che passano in Tv e che modellano l'immaginario di questa lenta ma
vittoriosa avanzata.
Scrive il giornalista Ennio Remondino: "Il problema vero, oggi, è che le
guerre non si fanno più soltanto per vincere, ma soprattutto per
convincere. I generali dunque fanno il loro mestiere nel prenderci
sistematicamente in giro (…) La chiamano 'infowar', ma resta la vecchia
storia dell'inganno".
Ma l'inganno dove sta? Sta in tante cose, ma in particolare nel presentare
come "liberazione" una guerra neocoloniale.
Vi saranno libere elezioni dopo la liberazione del popolo irakeno? Potrà il
popolo irakeno decidere delle sorti del suo petrolio? O avremo un
protettorato Usa con il contorno di sottosegretari irakeni graditi?
Nei prossimi giorni vi sarà la costruzione di coreografie con la folla
festante, non è escluso che si pagheranno un po' di comparse, essenziale
sarà presentare il viso felice dei bambini irakeni "finalmente liberi".
I capi dei gruppi di opposizione finanziati dagli Usa hanno annunciato che,
con un nuovo governo in Iraq tutti gli accordi petroliferi con Russia,
Francia, ecc. andrebbero rivisti e lo sfruttamento dell'oro nero sarà
affidato a un consorzio a guida statunitense. I contratti di Saddam Hussein
saranno carta straccia e le compagnie Usa acquisteranno un peso ancora
maggiore nel mercato energetico mondiale. Del resto questo è già avvenuto
con l'instaurazione di un governo filoamericano in Afghanistan, che ha
riavviato il progetto del gasdotto Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan
(con una capacità annua di 15 milioni di metri cubi) che sarà controllato
da un consorzio a guida statunitense.
Cosa è tutto questo se non la globalizzazione a mano armata?
Il retroscena di questa guerra sta in questo ingombrante strascico di
colonialismo e i giornalisti oggi impegnati a cogliere i dettagli militari
deviano l'attenzione dell'opinione pubblica dal cuore dell'operazione militare.
Spiega la Rivista Italiana Difesa a proposito della prima guerra del Golfo:
"Il modulo comunicativo predominante è stato quello di presentare il
conflitto come un'operazione chirurgica, realizzata con costi umani
bassissimi. E qui l'intervento degli strateghi mediatici ha toccato il suo
culmine. Una scelta deliberata di rappresentare la guerra evitando di
mostrare il volto più crudo e tragico. Il capolavoro è stato quello di
calarsi nell'immaginario della cultura di massa, soddisfacendone da un lato
l'esigenza di una guerra asettica e dall'altro presentando uno spettacolo
d'intrattenimento, riducendo la guerra in una dimensione di quotidiana
ordinarietà". Per la guerra del Kossovo si è svolto, spiega la rivista
militare, "un conflitto dell'informazione, la cui importanza si è rivelata
nettamente superiore e più decisiva degli scontri armati".
La conclusione che possiamo trarre per l'attuale guerra è consequenziale.
La battaglia di Bassora e di Badghdad si sta svolgendo nella mente di
milioni di persone. Il campo di battaglia dove gli angloamericani si
giocano la vittoria è il nostro cervello.
A che punto è l'avanzata dei blindati angloamericani dentro nostre
connessioni neuronali?
Sta incontrando una imprevista resistenza. Un sondaggio pubblicato dal
Corriere della Sera del 7 aprile (risalente al 4-5 aprile 2003, la cui
documentazione completa è su http://www.agcom.it) ci informa che solo l'8%
degli italiani è favorevole ad affidare il governo dell'Iraq "agli Usa e ai
loro alleati"; il 61% è per l'Onu, il 16% lo affiderebbe alla Lega Araba
mentre il 15% non sa. I contrari all'attacco militare contro l'Iraq
rimangono il 69%, in leggera diminuzione rispetto al 72% del 21 marzo ma
comunque sufficienti a dare un chiaro orientamento. Solo il 18% crede che
questa guerra sia "opportuna" in quanto "libereranno un popolo oppresso e
contribuiranno a fermare il terrorismo"; solo il 17% ha in questi giorni
sperato in una guerra breve e vittoriosa degli Usa (il 49% si augura lo
stop definitivo della guerra e un altro 16% uno stop umanitario per portare
aiuti); il 37% ritiene questa guerra "illegale" e un altro 37% la definisce
"una guerra per il petrolio" e quindi ben il 74% ha compreso l'essenza
della guerra e non crede alla propaganda. Ma il bello arriva alla domanda:
"Se dovesse scegliere una bandiera da esporre sul suo balcone, cosa
sceglierebbe?" La bandiera più amata dagli italiani è quella della pace
(55%), seguita dal tricolore (18%), dalla bandiera azzurra dell'Onu (7%),
dalla bandiera blu dell'Europa (6%) e infine dalla bandiera a stelle e
strisce degli Stati Uniti (solo il 3%).
Vi è un limite di pudore oltre il quale il neocolonialismo diviene
indigesto - se non altro per i riflessi antieuropei - anche per chi ha
sostenuto l'America. La guerra che la Casa Bianca ritiene di avere ormai
vinto fra le strade di Baghdad rischia di fallire fra i circuiti neuronali
dell'opinione pubblica.
Joseph Pulitzer, un grande giornalista statunitense scomparso nel 1911,
scriveva: "Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non
vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti,
descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la
pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione non è forse
sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri".
In questa guerra rimane pertanto cruciale il ruolo che riusciremo a
svolgere in termini di controinformazione, indagando sui troppi e malcelati
retroscena di questa impresa neocoloniale, documentandone le imbarazzanti
verità e denunciando l'ipocrisia di chi la sostiene.
Alessandro Marescotti
7 aprile 2002