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No alla guerra, no alla globalizzazione imperialista

Da che cosa dipende l'ostinazione di Bush nel voler fare una guerra invisa a
tutto il mondo, che ha già avuto prezzi politici, e non solo, molto alti per
gli stessi Stati Uniti? Perché altre grandi potenze si oppongono tanto
strenuamente alla guerra anche a costo di uno strappo che non sarà certo
indolore? La risposta dovrebbe soddisfare due condizioni: 1) collocare la
guerra all'Iraq nel contesto di cui fa parte e interpretarla come parte del
tutto; 2) spiegare contemporaneamente l'ostinazione di entrambi i
contendenti, USA e Gran Bretagna da un lato e resto d’Europa (Italia e
Spagna sono solo dei servi sciocchi) e Cina dall’altro. E cominciamo dagli
USA, che percepiscono chiaramente il pericolo creato dall’irrimediabile
instabilità dell'iniquo assetto internazionale esasperato dalla
globalizzazione, condotta sotto il segno di un estremismo neoliberista
spesso a senso unico, e si illudono di poter "stabilizzare" tale assetto e i
vantaggi che ne traggono estendendo con la violenza il loro controllo su
ogni angolo del pianeta, ma innanzi tutto sulle aree strategicamente più
significative. Questa politica non è certo una novità, ma ha preso un nuovo
aspetto dopo che il crollo dell’URSS ha eliminato il principale antagonista
e fatto degli Stati Uniti l’unica superpotenza. Per risalire alle origini
senza inzeppare il testo di citazioni, ricordiamo solo due documenti: un’
intervista rilasciata da Zbigniew Brzezinski nel gennaio 1998 (ma meglio
sarebbe leggere The Great Chessboard: American primacy and its Geostrategic
Imperatives) e gli estratti del Defense Policy Guidance pubblicati nel 1992
da The New York Times  (o, in italiano,
http://www.equilibri.net/americhe/usa6-dottrina-bush.htm) da cui discende la
recente definizione della National Security Strategy of the United States of
America (traduzione italiana a http://www.assopace.org/bush1.htm oppure
http://www.arci.it/bin/up1945.doc). Queste direttrici hanno ispirato le
radicali modificazioni - un vero e proprio stravolgimento - degli scopi
della Nato sancite, nel 1999, dall’aggiornamento del "nuovo concetto
strategico" (traduzione italiana a
http://web.tiscali.it:80/outis-wolit/nuovoconcettonato.htm), formalizzato
dalla Washington Declaration, sciaguratamente accettata dal governo D'Alema
prima di aver ottenuto l’approvazione del parlamento, e i documenti che
hanno condotto alla 2002 Istanbul Declaration on NATO Transformation che
consentirà di applicare finalmente La dottrina Bush, alla quale è affidato
il compito di aprire l’alba radiosa del New American Century(*), la cui
descrizione ben illustra, necessarie ipocrisie a parte,. l'opzione
fondamentalmente militare mediante la quale gli Stati Uniti intendono
sventare la minaccia dell’instabilità e difendere uno stile di vita
stupidamente privilegiato mediante una politica che non sanno e non vogliono
immaginare se non come dominio, poiché ogni altra via esigerebbe mutamenti
profondi che contraddirebbero gli interessi di coloro che esercitano
realmente il potere in quella nazione.

            La concreta realizzazione di un simile progetto ? iniziata con
la campagna irachena del 1991, e proseguita con l’aggressione contro la
Jugoslavia e l’Afghanistan, e ora nuovamente contro l’Iraq, avvenimenti di
cui, insieme con l’irriducibile specificità di ciascuno, occorre saper
cogliere il nesso ? prepara un futuro di ininterrotte guerre, che
“ottimisticamente” l’amministrazione statunitense prevede di durata
trentennale, ma al quale non si può assegnare alcun termine, tenuto conto
del fatto che ogni guerra, per le inevitabili reazioni che essa susciterà,
aprirà la via a molte altre. Non ha torto chi dice che la guerra illegale, e
perciò criminale agli occhi del diritto internazionale, che gli USA hanno
mosso all'Iraq, nonostante l’ostilità dei popoli e di molti governi, è una
guerra per il petrolio. Ma sarebbe ingenuo pensare che tanta ostinazione
dipenda da pura e incontrollata avidità: si tratta di assicurasi, e prima
ancora di sottrarre agli altri stati,  il controllo di un’area geopolitica
che condiziona all’accesso alle fonti energetiche necessarie per sostenere
una struttura economica fondata sul devastante consumismo dei privilegiati,
perseverando nella strategia di lunga durata già praticata fin dalla guerra
del Golfo, strumentalizzando "crisi umanitarie" e "attentati terroristici".

            Una simile strategia geopolitica esige che le leve di comando
dell’apparato di controllo che dovrebbe porre rimedio all’instabilità di un
mondo disuguale siano saldamente tenute da una sola mano, pena la perdita
del controllo. Sennonché si tratta di un’esigenza astrattamente
intellettualistica, e, in sostanza, non solo megalomane e utopica, ma, ciò
che è peggio, catastrofica, catastrofica per tutti, cioè per gli stessi
Stati Uniti, per i loro satelliti e per i paesi che si illudono di sfuggire
al disastro evitando di condividere la politica imperiale, affidata
unicamente alla sua indubbia supremazia militare, con cui l’unica
superpotenza intende stabilire un’indiscussa supremazia sull’Europa,
accentuare la subordinazione della Russia e gettare le basi di un completo
accerchiamento della Cina. Ed è, probabilmente, la percezione o il
presentimento della catastrofe verso cui inevitabilmente conduce una
politica che produrrà effetti opposti a quelli che si prefigge, mutando in
indifferenza la simpatia verso gli States, e l’indifferenza in odio, un odio
duraturo che avrà conseguenze multiformi e incalcolabili ? è, probabilmente,
questo, più ancora che il rifiuto di diventare un socio di minoranza dell’
impresa statunitense, che ha indotto Francia, Germania, Russia e Cina a
operare una frattura le cui conseguenze si estenderanno nel tempo.

La necessità di sottrarsi al mortale abbraccio di una potenza accecata dall’
enorme potere di cui dispone richiederebbe tuttavia la capacità di svolgere
una politica degna di questo nome. Si può dubitare che gli uomini che hanno
respinto il diktat americano siano in grado di farlo e, dunque, si può
temere che scelgano piuttosto il tentativo di ricucire in qualche modo lo
strappo. Magari sotto il pretesto di rivitalizzare l’ONU. Intenzione nobile,
senza dubbio, ma vana, che avrebbe la sola conseguenza di rilegittimare uno
stato pronto a sottrarsi al diritto internazionale in nome del “manifesto
destino” che si attribuisce. Qualcosa di nuovo e di grave è ormai avvenuto.
Nell'ultimo decennio gli USA avevano esercitato una sorta di potere dolce,
un soft-power, tendente ad ottenere il consenso internazionale per le loro
imprese. A questo scopo, avevano mobilitato la diplomazia e i grandi mezzi
di comunicazione di massa, del resto pronti ad accettare tutte le
distorsioni dell'informazione suggerite direttamente dal potere centrale in
nome del supremo interesse della patria. Certo, questo soft-power aveva un
nocciolo hard, come hanno imparato a loro spese i popoli della Jugoslavia e
dell'Afghanistan. Un nocciolo che ne costituiva la verità profonda, ma era
occultato dalla sollecita approvazione del "mondo libero" e dei paesi
considerati "democratici" o "moderati"  in quanto alleati degli Stati Uniti.
Questa volta le cose sono andate diversamente. In occasione della nuova
guerra contro l'Iraq, nonostante il decuplicato sforzo di manipolare
l'opinione pubblica mondiale compiuto dall'amministrazione Bush, il 15
febbraio i popoli di tutto il mondo hanno detto forte e chiaro: "No alla
guerra!". e la Nato, l'Europa e l'ONU si sono mostrati irrimediabilmente
divise. Di fronte a una situazione che avrebbe richiesto estrema prudenza,
l'amministrazione statunitense ha  risfoderato the big stick, esibito un
illimitato disprezzo per gli alleati, trattato l'ONU come un dipendente
insubordinato e dichiarato che non le rimaneva che sbrigarsi a ratificare le
decisioni già prese a Washington. Ciò non ostante i governi ostili a quelle
decisioni non si sono piegati, e appena gli USA le hanno poste in atto i
popoli di tutto il mondo hanno espresso una condanna senza appello. Può
apparire paradossale, ma, sebbene non sia riuscito a evitare il massacro, il
movimento pacifista ha conseguito una straordinaria vittoria, di cui sarebbe
delittuoso disperdere i frutti nella miope ricerca di un qualsiasi
compromesso che consentisse di celare la frattura, davvero epocale,
finalmente emersa. Non si vuol dire, con ciò, che occorra interrompere il
dialogo, rinunciare a trattare con gli Stati Uniti e i loro vassalli sulle
mille questioni aperte con la necessaria pazienza e la massima disponibilità
alla mediazione, in primo luogo per risolvere il problema della tragedia
palestinese. Ma anche a questo proposito sarà necessario che le potenze
europee sappiano prendere autonome iniziative e pretendano di discutere in
posizione di parità. Più in generale, se è vero che la nuova strategia
americana non lascia intravedere altro esito che la comune rovina, è
necessario isolare politicamente e ostacolare concretamente ogni iniziativa
attraverso cui quella strategia sarà messa in atto. Uscire dalla Nato e
rifiutare ospitalità alle basi americane è un’alternativa da prendere in
seria considerazione, ma sarebbe sterile se la coalizione che si è venuta
formando tra le maggiori potenze dell’Europa continentale e la Cina si
mostrasse incapace di stringere con i popoli del terzo mondo relazioni atte
ridurre progressivamente le stridenti disuguaglianze odierne, in maniera da
rimuovere le cause profonde dell'instabilità prodotta dalla globalizzazione
neoliberista e offrire un modello di stabilità non fondata sul dominio. Ciò
implica una revisione profonda dell’orientamento del sistema economico e
della struttura dei consumi che gli assicurano un rovinoso sviluppo, oggi
per altro entrato in una crisi di cui nulla lascia intravedere il
superamento. È un cammino aspro e insidioso. Ma è un cammino che i popoli
hanno da tempo indicato e, in qualche modo, già cominciato a percorrere,
verso una globalizzazione dal volto umano e uno sviluppo compatibile. L’
oscena fretta di “ricucire lo strappo” che si è prodotto con gli Stati Uniti
e all’interno della stessa Europa mediante qualche compromesso di basso
livello non lo aiuta. Va anzi in senso opposto.

 GIORGIO CADONI

(*) Utile la consultazione di The Changing Face of Strategy.