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Lettera di un refusenik da una galera israeliana



ricevuta da Elaine Scarry del Boston Globe

Lettera da una galera israeliana

Cari Amici,
Vorrei spartire con voi alcuni dei pensieri che mi colgono mentre passo
lunghe ore sbucciando cipolle, lavando enormi pentoloni unti, e mentre la
gente intorno mi chiede di spiegare, gente che trova difficile capire cosa
mi ha spinto a farlo. Si chiedono come mai un uomo della mia età, sposato
con due bimbi, è arrivato a tutto ciò. Perché ho ritenuto che tutto questo
valesse la pena, pur di rifiutare di prendere parte all’occupazione dei
territori.
Queste domande mi hanno forzato a esaminare i motivi del mio agire dal punto
di vista degli altri carcerati. Loro vedono un uomo di 36 anni imprigionato
con ragazzi che hanno la metà dei suoi anni. Separato dalla sua famiglia,
con il divieto di togliersi il cappello (anche quando si trova nella sua
cella o mentre mangia), con la proibizione di usare un cuscino, tenere carta
per scrivere, portare l’orologio, mangiare nel locale destinato (obbligato a
mangiare in piedi, nel corridoio, vicino alla cella, restando sempre dietro
le sbarre), parlare a qualcuno mentre lavora o mangia. Costretto a lavorare
quattordici ore al giorno (in cucina o pulendo bagni), a scattare sull’
attenti ogni volta che un ufficiale passa e a obbedire a una lunga lista di
altri ordini e proibizioni il cui il solo scopo è umiliarlo. Perchè
qualcuno, volontariamente, può sottoporsi a questo?
Per rispondere davvero a una simile domanda, occorre ricordare
l'alternativa, che cosa ho rifiutato di fare. Lo sforzo qui dentro è
effettivamente umiliarmi con tutte le forzature possibili. Ma sono convinto
che ciò che umilia di più un uomo è l’umiliazione che impone. Osservare, ad
esempio, gli occhi di un Palestinese fermo a un checkpoint mentre gli
impedisci di raggiungere l’ospedale, la scuola, o il lavoro. Guardare negli
occhi residenti ai quale ho imposto appena un altro giorno di coprifuoco
inutile -- un coprifuoco che sembra non avere un chiaro inizio né una chiara
fine. Vedere gli occhi lucidi del coltivatore dei frutteti che mi è stato
ordinato di sradicare, o quelli di una famiglia la cui casa sto per
demolire. E vedermi riflesso negli occhi di queste persone: un soldato
odioso dinnanzi a gente tremolante che elemosina la sua misericordia. Ciò,
per me, è molto ma molto più umiliante.
Ci sono, ovviamente, coloro che sostengono che la presenza di gente come me
nei territori occupati può rendere l'occupazione più umana. Effettivamente,
non posso negare che si può sradicare un frutteto con gentilezza, demolire
una casa in modo cortese, espellere un’intera popolazione dal proprio
villaggio -- come è stato fatto in Hebron del sud -- in modo civile, con
buona organizzazione e meno violenza. È possibile, pare, opprimere un intero
popolo in modo tranquillo. La domanda, tuttavia, ancora mi si pone: Può una
persona che desidera mantenere la propria umanità effettuare tali azioni?
Per me, la risposta è chiara: No.
Così quando noi, i refuseniks, dichiariamo che ci sono determinate cose che
ti annullano come essere umano, non intendiamo i lavori più umili in una
cucina, poiché tale lavori sono umiliazioni insignificanti. Intendiamo
azioni che umiliano e negano l'umanità ad altri. Non c’è dubbio che per me
sia meglio starsene tutto il giorno in cella, isolato, con un cappello sulla
testa, in silenzio, lavando piatti e sbucciando cipolle.
Preferisco, di gran lunga, quelle lacrime che mi scendono quando taglio
sacchi su sacchi di cipolle piuttosto che quelle che verso ogni volta che
evoco le immagini dell’occupazione. Cordialmente
Yigal
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