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Chi pagherà il costo di un conflitto



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(dal Corriere della Sera del 17-1-03) l'analisi del premio Nobel per
l'economia, Prof. Stiglitz
Chi pagherà il costo di un conflitto

di JOSEPH STIGLITZ *
L'ANALISI DEL PREMIO NOBEL



Si è sempre considerata la guerra particolarmente legata a momenti
economici positivi. Si è spesso sostenuto che la seconda guerra mondiale
sia riuscita a sollevare il mondo dalla Grande Depressione e da allora si è
rafforzata la reputazione della guerra come stimolo alla crescita
economica. Alcuni suggeriscono persino che il capitalismo abbia bisogno di
guerre e che, senza di esse, la recessione sarebbe sempre in agguato.
Oggi sappiamo che queste affermazioni sono un nonsenso. Il boom degli anni
Novanta ha dimostrato che la pace è di gran lunga meglio. La guerra del
Golfo del 1991 ha evidenziato che i conflitti possono essere realmente
negativi per un'economia: proprio quello ha contribuito in modo particolare
all'inizio della recessione (che, va ricordato, è stato l'elemento
fondamentale per la mancata rielezione del primo presidente Bush nel 1992).
La situazione attuale è molto simile. Solo che gli effetti economici di una
seconda guerra contro l'Iraq saranno probabilmente molto più negativi. I
costi diretti di un attacco militare al regime di Saddam Hussein saranno
minimi in termini di spesa complessiva del governo statunitense. La maggior
parte degli analisti ritiene che saranno meno dello 0,1% del Pil, al
massimo dello 0,2%. In grande misura, inoltre, è incluso l'uso di munizioni
già disponibili, con la conseguenza che lo stimolo all'economia odierna
sarà scarso o nullo.
L'impegno dell'amministrazione Bush (dichiaratamente titubante) alla
prudenza fiscale significa che molti dei costi della guerra, se non la gran
parte, saranno controbilanciati da tagli di spesa in qualche altra parte.
Gli investimenti nell'istruzione, salute, ricerca e ambiente saranno
inevitabilmente eliminati. Di conseguenza, la guerra inciderà
inequivocabilmente in modo negativo su quello che realmente conta: lo
standard di vita della gente comune.
L'America sarà quindi più povera, ora e in futuro. Ovviamente se questa
avventura militare è in realtà necessaria per mantenere la sicurezza o
preservare la libertà, come proclamano i suoi fautori e i suoi promotori -
e se avrà successo come sperano i suoi sostenitori - allora potrebbe valere
il suo costo. Ma questa è un'altra questione. Io voglio sfatare la voce che
sia possibile ottenere sia la fine della guerra sia un beneficio economico.
Perderanno la vita innocenti - probabilmente molti di più di quelli morti
l'11 settembre 2001. Ma l'attesa della guerra si aggiunge a incertezze che
già pesano sull'economia americana e quella globale: incertezze derivanti
dal deficit fiscale incombente sull'America, conseguente alla cattiva
amministrazione macroeconomica e al taglio fiscale che il Paese non può
permettersi; incertezze derivanti dall'interminabile «guerra al
terrorismo»; incertezze associate ai grandi scandali bancari e societari e
agli incerti sforzi di riforma dell'amministrazione Bush, con la
conseguenza che nessuno sa quale sia il valore delle società americane;
incertezze connesse all'imponente deficit commerciale americano, che ha
raggiunto primati assoluti (dall'estero continueranno a essere concessi
prestiti agli Usa, con tutti i suoi problemi, a un interesse in eccesso di
un miliardo di dollari al giorno?); incertezze associate al patto di
stabilità europea (sopravviverà? E questo costituirà un bene per
l'Europa?); infine, le incertezze legate al Giappone: durerà a lungo la
difficile situazione del suo sistema bancario? E, in caso questo avvenisse,
quanto negativo sarà l'impatto a breve termine?
Alcuni ipotizzano che gli Usa possono fare la guerra per mantenere stabili
i rifornimenti di petrolio o per incrementare i loro interessi riguardo il
petrolio. Sono pochi a dubitare dell'influsso che ha l'interesse per il
petrolio sul Presidente Bush - ne è testimone la politica energetica
dell'amministrazione, con il suo accento sull'espansione della produzione
di petrolio invece che sulla conservazione. Ma, anche sotto la prospettiva
degli interessi per il petrolio, la guerra contro l'Iraq rappresenta
un'avventura rischiosa: non soltanto è estremamente incerto l'impatto sui
prezzi e, quindi, sui prezzi delle compagnie petrolifere, ma non sarà
facile ignorare gli interessi di altri produttori di petrolio, incluse
Russia ed Europa.
Certamente, in caso di guerra da parte degli Usa, nessuno può prevedere
l'effetto sui rifornimenti di greggio. Potrebbe essere stabilito un regime
iracheno democratico e pacifico. Disperatamente bisognoso di fondi per la
ricostruzione, il regime potrebbe vendere a questo punto grandi quantità di
petrolio, abbassando i prezzi globali. I produttori americani, così come
quelli nei Paesi alleati, per esempio Messico e Russia, ne uscirebbero
distrutti, anche se gli utilizzatori mondiali di petrolio ne trarrebbero
benefici economici. Ancora, il risultato del tumulto nel mondo musulmano
potrebbe essere lo sconvolgimento dei rifornimenti di petrolio con
conseguenti prezzi elevati. Questo potrebbe piacere a produttori di
petrolio in altre parti del mondo, ma avrebbe conseguenze estremamente
negative per l'economia globale, simili a quelle dovute agli aumenti del
prezzo del petrolio nel 1973.
Sotto qualsiasi prospettiva, gli effetti economici della guerra con l'Iraq
non saranno positivi. I mercati detestano l'incertezza e l'instabilità. La
guerra e le sue previsioni portano entrambe. Dovremo prepararci per
affrontarle.

Joseph Stiglitz