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Gino Strada
Il nostro diritto
GINO STRADA
Due mesi fa avevamo chiesto ai cittadini di dare un segno di pace per il 10
dicembre, nell'anniversario della Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo. Avevamo chiesto di portare stracci bianchi, candele e bandiere
di pace nelle piazze delle nostre città, dei nostri comuni, per dire che
non vogliamo guerre nel futuro dei nostri figli. Per tenere l'Italia fuori
dalla guerra. E la guerra fuori dall'Italia. Oggi, in Italia, sta
succedendo qualche cosa di nuovo. L'iniziativa «Fuori l'Italia dalla
guerra», lanciata da Emergency, Libera, Rete Lilliput e Tavola della Pace,
è stata rigorosamente, scientificamente ignorata dai grandi mezzi di
comunicazione televisivi e della carta stampata. A volte, quando
frettolosamente ne è stata data notizia, se ne è travisato il significato
presentandola come una «manifestazione di protesta».
Eppure la censura, in questo caso, non ha funzionato. Né hanno funzionato
le stupidaggini dei vari «opinionisti» guerrafondai, pagati per trasformare
l'informazione in spot pubblicitario della guerra. E' successo che le
persone, i cittadini, hanno ripreso a parlarsi, a interrogarsi sulla guerra
e sulla pace, a comunicare gli uni agli altri il disagio, l'angoscia - o
più semplicemente la perplessità - per un mondo che anziché progredire si
ritrova, un'altra volta, sull'orlo di un conflitto che sarà devastante per
tutti.Un mondo sul quale si proietta come un'ombra lo spettro di un
conflitto - l'attacco all'Iraq - che potrebbe allargarsi, e nel quale
potrebbero essere usati anche ordigni nucleari. Così, nonostante la
censura, o forse proprio a causa della censura, è scattato il passaparola:
oggi in centinaia di città si svolgeranno iniziative contro la guerra.
Milioni di cittadini saranno coinvolti, in questa gigantesca dimostrazione
nonviolenta, esprimeranno la loro voglia pace. Regioni, Province, Comuni,
centinaia di scuole, centinaia di associazioni di volontariato cattoliche e
laiche, sindacali, centinaia di migliaia di famiglie diranno oggi con noi
no alla guerra.Negli ultimi decenni, decine di conflitti hanno anguinato il
pianeta producendo milioni di vittime e un enorme carico di disperazione e
di povertà. Nel terzo millennio ancora non riusciamo a mettere al bando la
guerra come mezzo di risoluzione dei nostri problemi. Perché? Perché non
siamo capaci di trovare strategie alternative? Il mondo in cui viviamo non
è un quel «villaggio globale» che molti si ostinano a farci credere. Di
villaggi, infatti, ce ne sono almeno due: il primo, di medie dimensioni -
conta solo un miliardo e duecentomila persone - consuma l'83% delle risorse
del pianeta. Di fronte a questo dato statistico si passa oltre
frettolosamente, si prosegue nella lettura. Invece occorrerebbe rileggere
la frase fino ad impararla a memoria, e a capirne il senso, perché lì
dentro c'è tutta la cattiva coscienza - e soprattutto il crimine - del
mondo sviluppato, civilizzato, democratico, libero. Noi di Emergency, da
cittadini di quel villaggio, crediamo sia un dovere morale riconoscere che
ai quattro aggettivi di cui sopra dovremmo mettere le virgolette, per
toglierle solo quando avremo risarcito e restituito il maltolto. Perché noi
consumiamo l'83% delle risorse di tutti, e siamo solo il 20 percento della
popolazione mondiale. E allora la nostra libertà e i nostri lussi, il
potere e il danaro che ostentiamo ogni momento, tutto quello che abbiamo,
insomma, è nostro, in buona parte, perché lo abbiamo sottratto ad altri.
Certo non siamo andati noi personalmente a rubare di notte, ma è un fatto
che nei Paesi dai quali importiamo frutti esotici per i nostri party gli
esseri umani muoiono a milioni. Loro, abitanti del secondo villaggio - di
dimensioni enormi, in cui vivono quattro miliardi e settecento milioni di
persone - sono nella situazione di doversi spartire quel 17% delle risorse
rimasto disponibile. Lì, in quel villaggio, gli esseri umani nel terzo
millennio muoiono di fame e di malattie, di povertà e di guerre.Riusciamo
ancora, noi democratici, donne e uomini liberi, a capire che cosa voglia
dire morire di fame? Riusciamo a immaginare i mesi, i giorni, le ore che
precedono la morte di un uomo, quando la sua vita si spegne semplicemente
perché non ha nulla da mangiare? In quello sterminato villaggio si muore di
povertà, perché chi deve tirare avanti con un dollaro al giorno spesso
mangia poco e male, e vive in immondezzai, dove abitano anche malaria e
tubercolosi, e alla fine, per una ragione o per l'altra o per tutte
insieme, muore.
E si muore per le guerre. Conflitti tribali, sentenziano in molti, con il
disprezzo tipico degli ignoranti, «si ammazzano da sempre, sono dei
selvaggi».
Non ci meraviglia che ci sia tanta violenza dove la vita è misera,
squallida e umiliante per tutti. Stupisce, piuttosto, che i grandi media
liberi e indipendenti non facciano sapere ai cittadini che l'85% delle armi
che massacrano donne e bambini in quei conflitti provengono dai
rispettabilissimi paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza
dell'Onu, che le vendono ai dittatori e ai macellai di turno.
La maggior parte dei conflitti oggi in corso, e di quelli cui abbiamo
assistito negli ultimi quarant'anni, sono stati incoraggiati, finanziati,
armati, e in qualche caso pianificati dall'uno o dall'altro di quei paesi
che insieme dovrebbero garantire «la sicurezza del pianeta».
Perché lo hanno fatto, e lo stanno facendo: libertà e democrazia, giustizia
e diritti umani? Non prendiamoci in giro, sappiamo tutti benissimo che lo
fanno per interessi economici, cioè perché in quei paesi c'è chi sulle
guerre guadagna enormi quantità di danaro.
Loro, le grandi lobby che decidono le scelte politiche, sono una
piccolissima parte del nostro villaggio, una specie di quartiere
residenziale molto esclusivo: famiglie potenti, padroni del petrolio e
delle armi, della finanza e dell'informazione, tanto per incominciare.
Hanno preso il potere in moltissimi paesi, a volte, dove sono riusciti,
perfino in modo «democratico», imbottendo i cittadini di false informazioni
per carpirne il consenso e il voto.
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti»
afferma l'articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani del
1948. E' stata sottoscritta anche dall'Italia. E' davvero così, per gli
esseri umani che nascono nel 2003 sul pianeta Terra?
C'è giustizia nel mondo in cui viviamo, c'è solidarietà tra gli esseri
umani? Agiscono, come dovrebbero in base all'articolo 1 della Dichiarazione
universale, «gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza?»
Il 10 dicembre del 1948, poco dopo la fine di una guerra devastante, è
stata scritta la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel preambolo,
l'assemblea generale dell'Onu considera il riconoscimento dei diritti
umani, uguali e inalienabili per tutti gli uomini, come «il fondamento
della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
La Dichiarazione universale è stato il tentativo di definire le regole del
nostro stare insieme, i diritti di ciascuno di noi, i valori da promuovere
perché l'orrendo massacro non avesse a ripetersi, mai più. Per cancellare
l'incubo dell'olocausto e di Hiroshima.
A 54 anni da quella Dichiarazione, non uno dei paesi firmatari può
affermare di averla rispettata.
Siamo convinti che le vittime civili siano la prima e forse l'unica verità
della guerra, e che l'alternarsi di governi e dittatori ne siano soltanto,
questi sì, effetti collaterali.
A cinquantaquattro anni da quella solenne Dichiarazione firmata e poi
calpestata, siamo arrivati a un punto critico. Dobbiamo ricostruire i
rapporti tra gli uomini sulla giustizia e sulla solidarietà. Altrimenti
saremo condannati alla autodistruzione, non ci saranno vincitori né vinti,
l'«esperimento umano» sarà fallito.
Praticare la Dichiarazione universale dei diritti umani è l'unico antidoto
per vincere il cancro della guerra che sta divorando il pianeta. E' il
primo dei compiti da scrivere nella nostra agenda, riuscirci è davvero
nelle nostre mani. Per questo stasera si riempiranno le piazze italiane.
Basta guerre, basta morti, basta vittime.
Gino Strada
Viviana Vivarelli
E-mail : viviana_v@libero.it