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La nonviolenza e' in cammino. 369
- To: pace@peacelink.it
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 369
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac@tin.it>
- Date: Mon, 30 Sep 2002 09:53:20 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 369 del 29 settembre 2002
Sommario di questo numero:
1. Presentato un esposto sulle dichiarazioni del presidente del consiglio
in parlamento sulla guerra
2. Un'intervista a Gino Strada
3. Irene Khan, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu
4. Jean Marie Muller, significato della nonviolenza (parte prima)
5. Enrico Peyretti, un film su tanti undici settembre
6. Brunetto Salvarani, per il dialogo cristianoislamico
7. Luce Irigaray, la rivoluzione copernicana
8. Julia Kristeva, lo straniero
9. Riletture: AA. VV., Etiche della mondialita'
10. Riletture: Jacqueline Russ, L'etica contemporanea
11 La "Carta" del Movimento Nonviolento
12. Per saperne di piu'
1. INIZIATIVE. PRESENTATO UN ESPOSTO SULLE DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE DEL
CONSIGLIO IN PARLAMENTO SULLA GUERRA
Il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo ha presentato un esposto alla
magistratura sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri
contenute nel discorso tenuto alla Camera dei deputati il 25 settembre.
Nell'esposto si evidenzia che "le tesi sostenute dal Presidente del
Consiglio dei Ministri in Parlamento confliggono flagrantemente con il
giuramento di fedelta' alla Costituzione. Poiche' fedelta' alla
Costituzione avrebbe voluto che il capo dell'esecutivo esponesse l'unica
posizione legittima per lo stato italiano: l'opposizione assoluta alla
guerra che si va preparando. (...) E' quindi impossibile non prendere atto
della assoluta gravita' delle dichiarazioni rese dal capo del governo, e
prima che lo stesso abbia la possibilita' di porre in atto le intenzioni
manifestate (di avallare la guerra, di violare trattati internazionali e
legalita' costituzionale, di rendere il nostro paese corresponsabile di
nuove stragi) occorre impedire che possa commettere un atto
incostituzionale e trascinare l'Italia in una nuova guerra di aggressione
illegale e criminale". Il testo integrale dell'esposto riporteremo nel
notiziario di domani.
2. NO ALLA GUERRA. UN'INTERVISTA A GINO STRADA
[La seguente intervista a cura di Paolo Mozzo e' apparsa sul quotidiano
"L'Arena" del 22 settembre 2002. Gino Strada e' il fondatore di "Emergency"
(per contatti: sito: www.emergency.it). Ringraziamo Paolo Veronese (per
contatti: paolover@iol.it) per averci segnalato questo intervento]
La musica, un anno dopo, e' la stessa. Tamburi di guerra. Settembre 2001 di
lutto, da New York a Kabul. Settembre 2002 di lutti annunciati su Baghdad.
"Lutti gia' presenti: un milione e mezzo di morti in 12 anni di embargo mi
sembrano abbastanza. O no?", corregge Gino Strada, 54 anni, chirurgo e
fondatore di Emergency, l'associazione attiva nel mondo per l'assistenza
medica ai civili vittime di conflitti. Vede addensarsi "un attacco all'Iraq
annunciato con fragore e che verra', poco ma sicuro. Salvo mobilitazione
immediata delle coscienze". Il contatore sul sito Web (www.emergency.it)
segna oltre 100 mila adesioni a un appello di cinque righe e un solo
concetto: "L'Italia dica "no", non partecipi. Nel rispetto della
Costituzione". Lui, il coordinatore della squadra che in otto anni ha
ricucito le ferite aperte dall'odio in Cambogia e Sierra Leone, in
Afghanistan e Cecenia, e' ancora una volta in partenza: destinazione
Baghdad. "Trattero' col governo iracheno l'allestimento di un centro
chirurgico nella capitale e anche altrove, se necessario".
"Se scoppiera' la bufera - aggiunge Gino Strada - dovremo essere la', con
l'equipe pronta a operare". Lo dice con amarezza. Perche' tutto sembra il
replay di una scena gia' vista un anno fa: la lunga cavalcata attraverso le
linee del fronte verso una Kabul ancora (per poco) talebana, l'ospedale da
riaprire e i letti che subito si saturano di dolore. Lo dice con rabbia
"perche' quelli che, a destra come a sinistra, si riempiono la bocca di
paroloni, di analisi strategiche, di armi intelligenti, non hanno mai i
loro figli li', a morire sotto le bombe senza cure e medicine".
- Paolo Mozzo: Settembre 2001, settembre 2002. Cos'e' cambiato?
- Gino Strada: Si e' aggravata l'insicurezza per i cittadini del pianeta.
Entro tre mesi potremmo trovarci coinvolti in un conflitto dall'esito
potenzialmente mondiale, in cui si ipotizza senza imbarazzi l'uso di armi
nucleari. I governi manovrano la disinformazione. Il rischio e' pratico e
concreto. Ma, al di la' dell'irrilevanza delle opinioni politiche
individuali, non c'e' alcuna volonta' di renderlo visibile.
- P. M.: Perche'?
- G. S.: Perche' la politica e' stata usurpata, a livello mondiale, da
bande criminali sorrette da potentati economici e dal controllo dei mezzi
di comunicazione. E questo gioco di squadra riesce a spostare l'attenzione
del pubblico dalla realta': l'attacco all'Iraq e' una guerra per il
petrolio. Tutti lo sospettano, lo mormorano. Ma dirlo chiaro equivale a
urlare: "Il re e' nudo".
- P. M.: Chi vince in questo gioco?
- G. S.: Vince il piu' forte. Oggi tocca a Baghdad. Domani a chi? Alla
Corea, al Sudan, allo Yemen? Il piu' forte decide, gli altri lo seguono.
- P. M.: Guerra inevitabile, dunque?
- G. S.: Un dato e' certo e gli ultimi anni lo dimostrano, dal Medioriente
all'Afghanistan: la politica non sa, ne' vuole, prevenire ed evitare i
conflitti. L'ingiustizia planetaria ne e' la causa profonda. Ma e'
soprattutto l'incapacita' culturale di bandire la guerra come opzione,
estrema o primaria che sia, ad alimentare la spirale.
- P. M.: Che resta all'uomo della strada? Guardare, aspettare e sperare?
- G. S.: Il nostro appello ha sommato oltre 90 mila adesioni. E' un record
per una raccolta di firme sulla rete Internet. Significa, a mio avviso,
qualcosa: che molti italiani, per i motivi piu' vari e personali, non
vogliono una guerra. Per religione, coscienza o semplice desiderio di
tranquillita' sanno che l'uso delle armi servira' solo a qualche lobby
economica per strappare contratti migliori. E dicono no. Anche per non
diventare bersagli di una spirale di ritorsioni. Israele e palestinesi
stanno pagando gli errori proprio a questo prezzo.
- P. M.: E questa e' politica...
- G. S.: Politica certo, ma senza targa per quanto riguarda Emergency .
Nell'ottobre 2001 siamo andati a combattere con un governo di centrodestra.
Prima l'avevamo fatto con uno di centrosinistra. Abbiamo una Costituzione,
un articolo 11: "L'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle
controversie...". Voglio essere provocatorio: aboliamolo se non lo vogliamo
onorare. Decidiamo, una buona volta, se quella Carta vale qualcosa o la si
puo' spiegazzare al bisogno.
- P. M.: Guerra no, comunque e sempre?
- G. S.: La guerra e' un macello orrendo, anche se poco filtra e si riesce
a fare conoscere. Chi si oppone viene tacciato di catastrofismo, di
vigliaccheria, di antipatriottismo: possibile che non si possa, non si
voglia affrontare un tema di questa portata in modo sereno?
- P. M.: Eravate in piazza con il "girotondo per la giustizia". Equivale a
una scelta?
- G. S.: C'e' un legame tra la giustizia, o la sua assenza, e la guerra.
Nulla piu'. Ripeto: sinistra e destra non hanno fatto per la pace una piu'
dell'altra. E' una realta'.
- P. M.: Emergency che fara'?
- G. S.: Chiameremo i cittadini a esprimersi.
- P. M.: Come?
- G. S.: Ci stiamo pensando. Venerdi' 27 a Roma ci sara' una manifestazione
per dire "fuori dalla guerra, no a un intervento diretto o indiretto". E
terremo alte le voci anche per i mesi a seguire. Il come si vedra'.
- P. M.: E il perche'?
- G. S.: Per la giustizia, per l'orizzonte dei nostri figli. Io ho 54 anni.
Quand'ero bambino Hiroshima e Nagasaki mi sembravano un incubo e uno
spettro. Oggi altrettanto.
- P. M.: Siete gia' in Iraq con tre centri di riabilitazione e 20
chirurgici. Com'e' la situazione dopo 12 anni di embargo?
- G. S.: Drammatica. I numeri dicono poco al mondo: un milione o un milione
e 100 mila morti sembrano la stessa cosa. Chi riesce a vedere la vera
"differenza" di 100 mila vite? In realta' un milione e mezzo di persone
hanno pagato questo embargo assurdo. Il popolo iracheno ha sofferto
l'inimmaginabile. Lo sappiano i teorizzatori delle sanzioni: paga la gente.
I politici, del resto, non hanno mai i figli loro a crepare in ospedali
senza medicine...
- P. M.: Nell'immediato?
- G. S.: Parto tra due settimane per Baghdad. Spero di ottenere
l'autorizzazione ad aprire una clinica chirurgica nella capitale. Anche
altrove, se servira'.
- P. M.: Lei aveva criticato il "disimpegno" delle agenzie umanitarie
nell'imminenza dell'attacco all'Afghanistan. Ha cambiato idea?
- G. S.: No. Da quando qualche sciagurato ha inventato una bestialita' come
la "guerra umanitaria" la filosofia delle grandi organizzazioni e' rimasta
la stessa: via tutti quando piovono le bombe, rientro poi con le "briciole
per i poveracci" quando la polvere si e' posata. Alle critiche rispondono
di aver "lasciato sul posto il personale locale". Bella forza: come se
infermieri e impiegati afghani o iracheni potessero scegliere, senza
problemi, di andare o stare. Cosi' e'. Resta, ma e' tutto loro, il problema
dell'"identita' etica".
- P. M.: Che per Emergency non si pone?
- G. S.: Noi andiamo dove c'e' qualcuno da curare. Dovunque riusciamo ad
arrivare. Stiamo ampliando l'attivita' in Afghanistan, apriremo un centro
di riabilitazione in Algeria e stiamo valutando un intervento nella citta'
di Jenin.
- P. M.: Che bilancio per Emergency dopo otto anni?
- G. S.: Abbiamo assistito 320 mila persone. Non mi sembra poco. Abbiamo un
sostegno fortissimo dalla base, migliaia di persone. E questa e' una molla
ancora piu' forte.
3. APPELLI. IRENE KHAN: AL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL'ONU
[Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International, ha inviato la
seguente lettera ai membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Per ulteriori informazioni, approfondimenti ed interviste: ufficio stampa
di Amnesty International, tel. 064490224, cell. 3486974361, e-mail:
press@amnesty.it]
A tutti i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
Mentre il Consiglio di Sicurezza e' impegnato nella discussione su una
nuova risoluzione riguardante l'Iraq, vi scrivo per sollecitarvi a porre al
centro delle vostre deliberazioni la protezione dei diritti umani e le
preoccupazioni umanitarie per la vita e la sicurezza della popolazione
irachena.
Tra le misure che alcuni membri del Consiglio di Sicurezza stanno
esaminando vi e' il ricorso alla forza armata. Il Capitolo VII della Carta
delle Nazioni Unite fornisce il quadro di riferimento per le misure che il
Consiglio di Sicurezza e' chiamato a intraprendere per dare effetto alle
sue decisioni: esse comprendono il ricorso alla forza armata, definito come
ultima risorsa dopo che tutte le misure per risolvere una situazione
attraverso mezzi pacifici sono state prese in considerazione e ritenute
inadeguate.
Il ricorso alla forza militare e' destinato con ogni probabilita' a
produrre ulteriori devastanti conseguenze su ampie parti della popolazione
irachena, gia' colpita dalle gravi violazioni dei diritti umani commesse
dal proprio governo e dall'effetto delle sanzioni economiche.
Sollecito il Consiglio di Sicurezza a considerare attentamente tali
conseguenze nelle sue deliberazioni su un eventuale ricorso alla forza,
onde assicurare che verra' compiuto ogni sforzo per risolvere la situazione
attraverso mezzi pacifici.
Voglio aggiungere che, nell'esperienza di Amnesty International, il ricorso
alla forza militare e' invariabilmente accompagnato da violazioni dei
diritti umani e del diritto umanitario. La Carta delle Nazioni Unite
attribuisce un posto centrale alla promozione e al rispetto dei diritti
umani e delle liberta' fondamentali, considerati obiettivi
dell'Organizzazione. Non deve essere mai dimenticato che le Nazioni Unite
sono state create per mantenere la pace e promuovere i diritti umani.
Sinceramente,
Irene Khan
segretaria generale di Amnesty International
4. JEAN MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Riproponiamo questo vecchio testo di uno dei massimi studiosi e amici
della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in italiano
nel 1980 per le cure di Matteo Soccio (in Jean Marie Muller, Significato
della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980: da
questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio mulleriano - ivi
alle pp. 7-27 - ma consigliamo ai nostri interlocutori di acquistare
l'opuscolo che reca anche altri utili materiali ed e' richiedibile alla
sede del Movimento Nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org).
Jean Marie Muller e' nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente,
ricercatore, e' tra i piu' importanti studiosi della nonviolenza, oltre che
attivo militante nonviolento e fondatore del MAN (Mouvement pour une
Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della
nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza,
Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento
Nonviolento, Torino 1980; Metodi e momenti dellâazione nonviolenta,
Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha,
Torino 1992; Simone Weil. Lâesigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1994; Le principe de non-violence. Parcours philosophique,
Desclee de Brouwer, Paris 1995; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1999. Ovviamente, ed i nostri lettori abituali lo sanno, essendo la
nonviolenza un campo di ricerche, di riflessioni ed esperienze di
straordinaria ampiezza ed apertura, le tesi di Muller costituiscono uno
degli approcci possibili, altri autori propongono definizioni e percezioni
della nonviolenza anche assai differenziate e su taluni punti fin
confliggenti rispetto alle formulazioni proposte da Muller]
Cio' che caratterizza, in gran parte, ogni dibattito sulla nonviolenza e'
il fatto che questa non ha un posto rilevante nel nostro passato. Cio'
giustifica la nostra prima reazione che non puo' che essere di diffidenza,
di scetticismo, nonche' d'ironia, ora bonaria ora cattiva. Percio' si
tratta di rendere chiaro questo dibattito, al di la' di ogni equivoco, di
ogni malinteso e di ogni confusione.
* Partire dai fatti
Bisogna partire dai fatti ed e' sin troppo evidente che, se ci mettiamo
davanti ai fatti, ci troviamo davanti alla violenza. Del resto non saremmo
seri nella nostra riflessione sulla nonviolenza se, prima di tutto, non
prendessimo sul serio la violenza. Questa violenza, che sembra presente
dappertutto attorno a noi, si tratta di comprenderla. Sarebbe troppo facile
metterla sul piano della cattiveria o della cattiva volonta'. Infatti, la
violenza nella nostra societa' assolve delle funzioni necessarie. Essa e'
molto spesso la ricerca di soluzioni concrete a dei problemi concreti, che
si tratti della difesa delle liberta' o della lotta contro l'ingiustizia.
Non potremmo accontentarci di una pura e semplice condanna di tutte le
violenze quali che siano, da qualsiasi direzione provengano, ponendoci al
di sopra della mischia e richiamandoci ad una innocenza che non puo' essere
di questo mondo.
* La violenza e' una distruzione
Bisogna riconoscere che, in un primo tempo, questa espressione
"nonviolenza" e' equivoca nella misura in cui appare puramente negativa.
Tanto piu' quando noi siamo abituati a pensare alla violenza riferendola a
quantita' di valori e di virtu': il coraggio, la virilita', la nobilta',
l'attaccamento alla giustizia e alla liberta'... In modo tale che nella
nostra coscienza e piu' ancora nel nostro subconscio, la violenza appare
essa stessa come un valore e una virtu' di cui la nonviolenza sarebbe la
negazione e il rinnegamento. E' cosi' che a destra, quelli che si
richiamano alla nonviolenza sono accusati di essere traditori della patria
e, a sinistra, di essere traditori della rivoluzione.
Infatti, se noi prendiamo coscienza della violenza per cio' che essa e',
dobbiamo definirla negativamente, come un attentato fatto alla liberta' ed
alla dignita' di colui che la subisce, come un'alienazione, come una
distruzione. "Non bisogna lasciarsi ingannare - scrive Ricoeur -. Il volto
della violenza, il fine che essa persegue implicitamente o esplicitamente,
direttamente o indirettamente, e' la morte dell'altro". Percio' il rifiuto
della violenza, la nonviolenza, diviene la condizione preliminare di ogni
azione rispettosa di "tutto l'uomo e di tutti gli uomini".
* La violenza di oppressione
Bisogna sforzarsi di comprendere non soltanto la violenza ma le violenze,
perche' la violenza presenta molti aspetti, molte facce, e conviene dunque
introdurre delle distinzioni fondamentali.
Ne introdurro' tre:
1) la prima violenza, che Helder Camara definisce la violenza madre di
tutte le violenze, e' la violenza delle situazioni di ingiustizia. Potremo
chiamare questa violenza: la violenza degli oppressori, la violenza dei
ricchi e dei potenti per mezzo della quale i poveri sono mantenuti in
condizioni di oppressione.
Questo e' importante da sottolineare nella misura in cui siamo portati a
pensare che la nonviolenza denunci le azioni armate, terroristiche o
militari, e metta tra parentesi le situazioni di violenza.
E' importante sottolineare quanto pesi sulla nonviolenza l'equivoco del
pacifismo. Il pacifismo si attiene ad una pura e semplice condanna della
violenza armata, ma questa dottrina non e' in grado di farci assumere fino
in fondo le nostre responsabilita' di fronte agli avvenimenti. Se il
pacifismo si e' sviluppato dopo la prima guerra mondiale, bisogna pero'
riconoscere che ha fallito al momento dell'aggressione nazista.
Non si puo' eludere il problema della difesa delle comunita', e in
particolare delle comunita' nazionali visto che le nazioni ci sono ancora.
E' necessario garantire la sicurezza delle comunita'. E' un problema reale
che i pacifisti non hanno saputo risolvere.
Una comunita' non potrebbe garantire la sua unita', la sua coerenza, se non
ci fosse nei suoi membri il sentimento di vivere in sicurezza. Ora, e' un
fatto che, fine ad oggi, salvo qualche eccezione, le comunita' non hanno
saputo trovare altri mezzi per garantire la loro sicurezza che la violenza
o la minaccia della violenza, la guerra o la sua preparazione. Il problema,
dunque, non e' soltanto di trovare un'alternativa alle virtu' militari,
bisogna trovare anche un'alternativa ai metodi militari. Non e' giusto
lasciare intendere che basterebbe sopprimere gli eserciti e gli armamenti
per avere la pace.
Simone Weil, che era vicinissima agli ambienti pacifisti fra le due guerre
mondiali, ha dovuto riconoscere cio' che ha definito "l'errore criminale"
del pacifismo. In quel momento e' andata a raggiungere anche lei le file
della resistenza violenta.
Non si tratta, dunque, di privilegiare la violenza militare e la violenza
delle armi. Se e' vero che sono le situazioni di ingiustizia che provocano
e spiegano le azioni violente, e' dunque innanzitutto l'ingiustizia che la
nonviolenza denuncia e combatte.
* La violenza degli oppressi
2) La seconda violenza e' la violenza che nasce dalla rivolta degli
oppressi quando essi tentano di liberarsi dal giogo della oppressione che
li schiaccia.
Quando gli oppressi, per disperazione, ricorrono alla violenza, noi non
possiamo, in nome della nonviolenza, voltare loro sdegnosamente le spalle,
sotto il pretesto di un ideale astratto e formale di nonviolenza. La
nonviolenza ci deve mantenere sempre legati agli oppressi quand'anche
questi adoperino la violenza: non spetta a noi rimettere in discussione
questa solidarieta' fondamentale. Possiamo avere le nostre opzioni
personali, ma non spetta a noi decidere, al posto degli oppressi, dei mezzi
che essi devono adoperare per la loro liberazione.
Se la nonviolenza condanna e combatte innanzitutto la violenza degli
oppressori, essa pero' viene a rimettere in questione anche la violenza
degli oppressi. Liberare i poveri, vuoi dire anche liberarli dalla loro
violenza. Anche questo e' un compito dell'amicizia e della solidarieta';
non e' certo il compito piu' facile e cio' ci obbliga ancor piu' a non
sottrarcene. Del resto, e' troppo facile dimostrare una solidarieta'
formale con la violenza dei poveri e giustificarla se non prendiamo su di
noi i rischi di questa violenza.
* La violenza della repressione
3) La terza violenza e' la violenza della repressione, essenzialmente
legata alla violenza d'oppressione per mezzo della quale i ricchi ed i
potenti spezzano i movimenti di liberazione dei poveri.
Ancora una volta, in nome della nonviolenza, dobbiamo dichiararci solidali
con quelli che sono vittime di questa violenza di repressione quando la
loro lotta e' veramente quella della giustizia.
E' chiaro che questo schema non puo' essere puramente e semplicemente
applicato ad ogni situazione concreta; sara' opportuno, partendo volta per
volta dall'analisi piu' rigorosa, correggerlo e adattarlo.
* La necessita' del conflitto
Nella comprensione della violenza bisogna andare piu' lontano cercando di
situarla al livello in cui sorge, nelle relazioni fra gli uomini.
Il primo rapporto che abbiamo col nostro prossimo e' il piu' delle volte un
rapporto di avversione, di opposizione, di scontro. Dobbiamo guardarci da
un certo idealismo, di cui si vorrebbe che la nonviolenza resti
prigioniera, da un idealismo che lascerebbe troppo facilmente intendere che
"tutti gli uomini sono fratelli". In realta' e' vero che il mio vicino, il
mio prossimo, prima ancora di essere potenzialmente il mio amico, e'
potenzialmente mio nemico.
Sartre ha trovato una formulazione felice quando scrisse: "il peccato
originale e' il mio sorgere in un mondo dove c'e' l'altro". L'altro,
infatti, e' innanzitutto per me quello la cui liberta' minaccia la mia
liberta', quello i cui diritti vengono a usurpare i miei diritti, quello i
cui progetti vengono a compromettere i miei progetti. Dovro' riconoscere,
accettare questo momento di conflitto con l'altro, questo momento di
opposizione, di lotta, questa prova di forza, al fine di poter far
riconoscere i miei diritti e di farli rispettate.
In altre parole la nonviolenza non presuppone un mondo senza conflitti;
anzi, ha senso parlare di nonviolenza solo in situazioni di conflitto.
Peguy, proprio contro i pacifisti del suo tempo, diceva che "era una follia
voler legare alla dichiarazione dei diritti dell'uomo una dichiarazione di
pace perche' ogni dichiarazione dei diritti dell'uomo e' istantaneamente un
inizio di guerra". Se prendiamo questa parola "guerra" nel suo significato
piu' ampio, e se intendiamo per essa: un conflitto, una lotta, un
combattimento, una prova di forza, Peguy aveva ragione di andare contro i
pacifisti.
Lo stesso Peguy diceva che era da maleducati volere la vittoria e non aver
voglia di battersi. In effetti, saremmo maleducati se ci contentassimo di
formulare dei voti per un mondo piu' giusto e non avessimo voglia di
batterci contro l'ingiustizia.
* Nonviolenza e aggressivita'
In questa battaglia, non si tratta di reprimere l'aggressivita' dell'uomo,
ma di metterla in opera.
La storia e' cosi' piena di violenza che siamo talvolta tentati di credere
che quest'ultima sia innata nel cuore umano: parlare di nonviolenza sarebbe
allora andate contro la legge stessa della natura.
Tuttavia se ascoltiamo gli psicologi, questi ci dicono che non e' la
violenza che e' inscritta nella natura umana, ma piu' precisamente
l'aggressivita', e che non e' fatale che l'aggressivita' si manifesti con
la violenza.
L'aggressivita' e' una capacita' di combattere, una capacita' di affermare
se stessi per mezzo della quale io sono portato a rivendicare i miei
diritti di fronte all'altro. Senza aggressivita' io non potrei ne'
costruire la mia personalita', ne' salvaguardarla. Senza aggressivita' non
ci potrebbe essere ne' rispetto per se stessi, ne' amore per gli altri.
Questa aggressivita' bisogna invece disciplinarla, controllarla in modo che
si manifesti attraverso altri mezzi, piu' costruttivi della violenza.
Come disse il padre Cottier, con un'espressione che mi sembra molto
suggestiva, la nonviolenza non attecchisce nella speranza di vivere un
giorno in "un paradiso devitalizzato dove anziane zitelle tengono al
guinzaglio leoni erbivori". Cio' sarebbe molto noioso e, per fortuna, e'
del tutto inconcepibile.
Bisogna, dunque, accettare questa realta' del conflitto, anzi, in un primo
momento, la strategia della nonviolenza si sforzera' di create il conflitto
e di risvegliare l'aggressivita'.
Abusiamo spesso di parole come rivolta, rivoluzione e violenza. In realta',
se consideriamo bene la storia dell'uomo - sia nella nostra vita quotidiana
che nella storia dei popoli - ci accorgiamo che il piu' delle volte, di
fronte all'ingiustizia, la sua capacita' di rassegnazione e' superiore alla
sua capacita' di rivolta. Quando lo schiavo e' sottomesso al suo padrone,
non esiste conflitto; al contrario, e' proprio allora che "l'ordine e'
stabilito" e che niente sembra venire a metterlo in causa. Il conflitto
incomincia ad esistere dal momento in cui lo schiavo prende coscienza dei
suoi diritti e si erge per rivendicarli.
Prendiamo l'esempio di Martin Luther King: per cio' che riguarda il popolo
nero degli Stati Uniti, il suo primo e piu' grande lavoro e' stato quello
di risvegliare l'aggressivita' dei neri che si erano rassegnati al loro
destino di schiavi. Gli stessi leaders neri che in seguito hanno
preconizzato la violenza gli hanno riconosciuto questo merito.
La spiritualita' degli spirituals neri e' una spiritualita' di evasione per
mezzo della quale i neri riponevano nell'Aldila' la loro speranza in un
mondo libero da ingiustizie. Aspettavano il regno di Dio in cui Gesu' li
avrebbe accolti riconoscendo la loro dignita' di uomini. C'era in quel caso
come una rassegnazione di quel popolo davanti alla propria storia. Martin
Luther King risveglio', dunque, l'aggressivita' di questo popolo e creo' il
conflitto tra i bianchi e i neri - e, come sempre in casi analoghi, ci sono
stati naturalmente rischi di scontri violenti.
La rassegnazione, la passivita' sono dunque piu' contrarie alla nonviolenza
della violenza stessa. Gandhi ha sempre affermato che se la scelta fosse
unicamente tra vilta' e violenza, tra passivita' e violenza, allora
bisognerebbe scegliere la violenza.
* L'importanza dei mezzi
Se, dunque, riconosciamo la necessita' della lotta, la necessita' dello
scontro, allora, e' il problema dei mezzi che si pone.
Questo problema dei mezzi e' stato troppo trascurato a solo vantaggio della
ricerca dei fini. E' per questa ragione che molto sbrigativamente si arriva
a dire, specialmente nel campo politico, che il fine giustifica i mezzi,
vale a dire che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Si scivola subito dalla
giustificazione del fine alla giustificazione dei mezzi. Ora, questo non e'
soltanto un problema morale, e' anche un problema di efficacia.
Una delle caratteristiche della nonviolenza e' precisamente di affermare
che, se la scelta dei mezzi vien dopo (e' seconda) rispetto al fine da
conseguire, non e' tuttavia secondaria, e' anzi essenziale alla effettiva
realizzazione di quel fine. Gandhi diceva: "il fine e' nei mezzi come
l'albero nel seme". Il compito della nonviolenza sara' giustamente quello
di ricercare dei mezzi omogenei al fine che si persegue. Non e' un semplice
principio teorico: si puo' benissimo, a livello di critica degli
avvenimenti, constatare che l'impiego di mezzi violenti rischia di produrre
altre situazioni di violenza, altre situazioni di sfruttamento, anche se
assumono forme diverse.
Proviamo ora a mettere in luce il significato della nonviolenza ponendoci
successivamente a tre livelli diversi:
- il livello personale;
- il livello delle relazioni interpersonali;
- il livello delle relazioni sociali e politiche.
Non si tratta di separare l'uno dall'altro questi tre livelli; e'
precisamente una caratteristica della nonviolenza non considerarli
staccati, mentre le diverse morali hanno sempre avuto la tendenza a
separare, ad esempio, cio' che era della vita privata e cio' che era della
vita pubblica; cio' che la morale richiedeva nel campo della vita
personale, non lo richiedeva piu' nel campo della vita sociale e politica.
Passero' molto rapidamente a considerare i primi due punti per arrivare al
piu' presto al problema delle relazioni sociali e politiche che costituisce
forse il piu' grosso problema e al quale siamo piu' sensibili.
* Un dinamismo della speranza
Sul piano personale, la nonviolenza puo' definirsi come la ricerca di una
corrispondenza perfetta tra i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le
nostre azioni; come la ricerca di una saggezza di vita, come la ricerca del
controllo di quella aggressivita' di cui parlavamo prima.
Sarebbe interessante sviluppare il significato della nonviolenza in quanto
rivendicazione di un senso da dare alla vita in un mondo reso assurdo
dall'ingiustizia e dalla violenza. E' la dimensione filosofica e anche
(credo che non si debba aver paura delle parole) la dimensione metafisica
della nonviolenza.
La violenza e' il segno di una certa assurdita' del destino umano. La
filosofia comincia con la presa di coscienza della violenza come ostacolo
alla riconciliazione dell'uomo con se stesso e con l'altro. Potremo
riprendere per esempio tutte le affermazioni di Camus che vanno in tal
senso.
Se la violenza e' fatale, se l'uomo deve necessariamente farsi complice
della violenza, allora la speranza non e' possibile.
In questo senso la nonviolenza ci permette di affermare che la speranza e'
possibile. Essa ci colloca in un dinamismo della speranza che ci libera
dalla fatalita' della violenza. Cio' non e' legato, infine, ad alcuna
filosofia particolare, ma ad ogni filosofare. Non ci puo' essere altra
filosofia che quella della nonviolenza.
Ogni filosofia, e cosi' pure ogni morale, non puo' non riconoscere la
violenza come una contraddizione, per cui non e' piu' possibile avanzare
alcuna giustificazione della violenza. La violenza e' giustificata nella
misura in cui noi non abbiamo piu' il sentimento che essa e' una
contraddizione in rapporto alle aspirazioni profonde dell'uomo, allorquando
ci stabiliamo nella violenza. Il fallimento delle ideologie consiste nel
fatto che esse hanno creduto di dovere, sotto un falso pretesto di
realismo, venire a giustificare la violenza e integrarla nell'ideale umano.
I grandi maestri della nonviolenza, che si tratti di Tolstoi, di Gandhi, di
Martin Luther King, e anche piu' vicino a noi, di Cesar Chavez, hanno
legato, nel loro cammino personale, la scelta della nonviolenza ad una fede
religiosa. Ma non e' necessariamente cosi'; degli uomini come Danilo Dolci
hanno provato che la nonviolenza poteva trovare la sua radice in una
visione dell'uomo che non era religiosa, ma che afferma ugualmente questa
speranza: di fronte all'esistenza quotidiana e di fronte alla storia, e'
possibile superare questa fatalita' della violenza.
* Chiamare crimine un crimine
Detto questo, e' logico che ci troveremo sempre nel compromesso con la
violenza; non si tratta di pretendere una "nonviolenza assoluta". Gandhi ha
insistito su questo punto: "fino a che non saremo degli spiriti puri la
nonviolenza perfetta sara' altrettanto teorica quando la linea retta di
Euclide".
Ma le filosofie e le morali devono sempre chiamare compromesso un
compromesso. Ricoeur dice: "Colui che chiama crimine un crimine, e' gia'
sulla via del senso e della salvezza". Le violenze delle quali abbiamo
coscienza di essere complici esigono non una giustificazione ma una
riparazione. Se la violenza e' un diritto per l'uomo, questo si adatta, si
adegua all'uso della violenza e non ci sara' piu' nessuna ricerca per
superare questo atteggiamento; l'immaginazione, la creazione sono esse
stesse bloccate e non possono piu' proporre altre vie. Ora e' essenziale,
qualunque sia il riferimento culturale in rapporto al quale ci situiamo, di
ritrovare il senso della contraddizione di ogni violenza.
La nonviolenza appare qui come una dimensione essenziale della rivoluzione
culturale che deve essere realizzata perche' possa compiersi, senza tradire
se stessa, la rivoluzione delle strutture.
* Le relazioni interpersonali
Sul piano delle relazioni interpersonali, diro' semplicemente due parole,
perche' qui ci siamo spesso trovati nella stessa situazione del signor
Jourdain che faceva della prosa senza saperlo; abbiamo soddisfatto le
esigenze della nonviolenza senza saperlo.
Nel campo delle relazioni interpersonali, le morali e le filosofie hanno
sempre insistito sulla ricerca del dialogo piuttosto che sulla
giustificazione della violenza, su questa necessita' che c'e' da fare
richiamo alla ragione per convincere, alla coscienza per convertire.
A questo livello si e' sempre privilegiato il perdono rispetto alla
vendetta. Il perdono e' certamente un atteggiamento piu' virile della
vendetta. E si potrebbe parlare, in questa prospettiva, del sacrificio,
dell'accettazione, senza compiacimento, della sofferenza come condizione di
un amore autentico del prossimo. Al di fuori di tutte le deviazioni nel
senso del masochismo, c'e' posto, in ogni lotta nonviolenta, per
l'accettazione dei piu' grandi rischi e delle piu' grandi sofferenze.
D'altronde, tutte le societa' hanno saputo darsi dei tribunali capaci di
condannare come criminali - con (notiamolo) un raddoppiamento della
violenza - quelli che hanno fatto uso della violenza sul piano delle
relazioni interpersonali.
* La specificita' del politico
Arrivo subito al problema delle relazioni sociali e politiche.
Queste non devono, come un certo spiritualismo ha preteso, essere poste nel
quadro allargato delle relazioni interpersonali, perche' a questo livello
le relazioni umane sono notevolmente condizionate - io non direi
determinate, come certuni forse penseranno - dalle strutture della
societa'. La nonviolenza non intende porre soltanto dei problemi che
troverebbero la loro origine e la loro soluzione in un rapporto fra persona
e persona, ma dei problemi sociali e politici che non possono porsi e
risolversi che in termini di strutture. Cosi' c'e' sicuramente una
consistenza propria del politico, tuttavia non penso che ci sia
un'autonomia del politico. Certo, nel campo politico, non e' sufficiente
attenersi alle esigenze morali. Le buone intenzioni non bastano a far della
buona politica. La legge dell'azione deve sottostare alle esigenze della
efficacia. Non basta, come diceva Bernanos, "aver ragione contro l'errore,
bisogna averne ragione".
* Morale e politica
E' vero che il politico deve basarsi su un'analisi razionale e obiettiva
delle situazioni e deve ricorrere ai mezzi tecnici che gli permetteranno di
far riuscire i suoi progetti. Ma e' anche vero che il politico, essendo al
servizio dell'uomo e avendo per preciso fine quello di creare le migliori
condizioni possibili all'uomo per condurre la sua esistenza, non puo'
sottrarsi alle esigenze della morale. Se il politico e' veramente al
servizio dell'uomo e se la morale e' cio' che stabilisce il rispetto di
tutto l'uomo e di tutti gli uomini, allora appartiene effettivamente alla
morale giudicare ed apprezzare il politico, sia nei fini che persegue che
nei mezzi che adopera.
Cosi' non possiamo restare prigionieri dell'alternativa secondo la quale
non avremmo scelta che tra mezzi morali ma inefficaci e mezzi efficaci ma
immorali: non e' possibile basare l'efficacia dell'azione dell'uomo al di
fuori della moralita'.
Quali sono, in effetti, i criteri dell'efficacia?
L'efficacia: per fare che cosa?
L'efficacia: per quale societa'?
E qui che la moralita' di un'azione politica appare come uno dei criteri
essenziali della sua efficacia. Si puo' dire che una azione non e'
efficace, nella misura stessa in cui viene a contraddire le esigenze della
morale. Siamo allora costretti, per amore o per forza, a ricercare dei
mezzi efficaci che possano soddisfare le esigenze della morale.
* Una dimostrazione di forza
Qui e' necessario che noi parliamo in termini di strategia. Bisogna mettere
l'accento non tanto sulle disposizioni soggettive delle persone, sui buoni
o cattivi sentimenti, sulle buone o cattive intenzioni delle persone, ma
sulle obiettive situazioni in cui esse si trovano nella societa', sulle
situazioni di potenza o d'impotenza. L'azione nonviolenta e' una prova di
forza.
Riferendosi a formule utilizzate da Gandhi, la nonviolenza e' stata spesso
definita come la forza dell'amore e della verita'. In effetti al di fuori
dell'amore e della verita' non c'e' speranza possibile per una societa'
piu' giusta e piu' libera. Ma noi non possiamo accontentarci di definire la
nonviolenza come forza dell'amore e della verita', perche' nei conflitti
politici potremmo chiederci a lungo cosa significhi la forza dell'amore e
della verita'. Bisogna guardarsi dal nascondersi dietro certe formule che
vogliono dire tutto e niente allo stesso tempo.
Infatti, un'azione nonviolenta non e' una dimostrazione d'amore. Essa e'
molto piu' precisamente una dimostrazione di forza. La nonviolenza, non e'
l'amore, ma piuttosto la ricerca di tecniche e di metodi di lotta
compatibili con l'amore, compatibili con il rispetto della verita'. Ci
sembra che qui gia' gli accenti sono posti diversamente. Si tratta di
situarsi in una visione dell'uomo che non e' moralistica, anche se e'
morale. Si tratta di porsi in una visione politica.
* Il principio di non-cooperazione
Qual'e' la strategia dell'azione nonviolenta?
Il principio essenziale di questa strategia e' il principio di
non-cooperazione; io lo chiamerei meglio: principio di non-collaborazione.
Esso si fonda sulla seguente analisi: la forza dell'ingiustizia nella
societa' deriva dalla complicita' che la maggioranza dei membri di questa
societa' apporta a questa ingiustizia.
Il nostro dibattito sulla violenza e la nonviolenza sarebbe falsato se
presupponessimo che di fronte alla ingiustizia, la nostra prima tentazione
e' sempre la tentazione della violenza. Ancora una volta, noi ci
accontenteremmo di parole. Infatti, di fronte alla ingiustizia siamo
pochissimo tentati dall'uso della violenza perche', il piu' delle volte, la
violenza ci pare troppo rischiosa. Del resto la nonviolenza non intende
fare nessun processo alle intenzioni di quelli che ricorrono alla violenza
perche' spesso essi si assumono i piu' grossi rischi; e noi dobbiamo, al
contrario, rispettarli. Ma sara' sempre una piccola minoranza che fara'
ricorso alla violenza di fronte all'ingiustizia. Il piu' delle volte, siamo
tentati di cooperare con questa ingiustizia, di collaborare con essa. Cio'
si capisce facilmente nella misura in cui questo atteggiamento di
complicita' salvaguarda i nostri interessi, la nostra tranquillita', il
nostro comodo.
Il vero dibattito, percio', non e' tanto, come invece si fa con un certo
compiacimento, di opporre la resistenza violenta di una piccola minoranza a
cio' che potrebbe essere la resistenza nonviolenta, ma piuttosto di opporre
alla passivita', complicita', collaborazione della maggioranza cio' che
potrebbe essere la resistenza nonviolenta. A questo punto il dibattito si
presenta gia' in prospettive diverse.
Si tratta, dunque, di mettere in opera questa non-cooperazione, cercando di
far beneficiare dell'apporto del numero le azioni condotte.
Se soltanto alcuni si dispongono a non cooperare con l'ingiustizia, benche'
il loro atteggiamento sia del tutto giustificato e s'imponga ad essi in
ogni caso, l'azione intrapresa non puo' avere la pretesa d'incidere sul
piano politico. Quelli che hanno rifiutato di fare le guerre di Hitler
(penso ai tedeschi e agli austriaci che sono stati le prime vittime del
nazismo), quelli, proprio perche' erano un piccolo numero, non hanno potuto
cambiare il corso degli eventi. Tuttavia saremmo tutti unanimi nel
riconoscere che solo il loro atteggiamento era giustificato sia sul piano
morale che su quello politico.
Quando si organizzano queste azioni di non-cooperazione, bisogna mirare ad
esaurire le sorgenti del potere dell'avversario. Si tratta di rifiutare
ogni cooperazione con le istituzioni, le strutture, le leggi, i sistemi, i
regimi che creano o che mantengono l'ingiustizia, al fine di metterli "in
condizione di non nuocere".
Diviene chiaro qui che l'azione nonviolenta non e' soltanto una azione di
persuasione, ma anche una azione di costrizione.
Allora come arrivare a precisare meglio questa strategia nonviolenta?
Innanzitutto a partire dall'analisi.
Io insisto su questa necessita' dell'analisi, ma non faro' ulteriori
precisazioni perche' non e' il mio proposito. E' chiaro che non si tratta
di applicare delle esigenze morali a una realta' che non conosciamo. Si
tratta invece di analizzare questa situazione. E qui, la nonviolenza non ci
apporta una competenza particolare; la divergenza, a livello di analisi,
non e' certamente tra quelli che si richiamano alla nonviolenza e quelli
che si richiamano alla violenza.
A partire dall'analisi di ciascuna situazione concreta, converra' condurre
una prova di forza per stabilire un rapporto in favore di quelli che sono
vittime dell'ingiustizia.
(Continua)
5. CINEMA. ENRICO PEYRETTI: UN FILM SU TANTI UNDICI SETTEMBRE
[Enrico Peyretti (per contatti: peyretti@tiscalinet.it) e' una delle pi
prestigiose figure della cultura della pace. Tra le sue opere: (a cura di),
Al di la' del ănon uccidereä, Cens, Liscate 1989; Dallâalbero dei giorni,
Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi
1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. Eâ diffusa
attraverso la rete telematica Difesa senza guerra. Bibliografia storica
delle lotte nonarmate e nonviolente]
Un uomo striscia a terra come un serpente, mangia senza usare le mani,
morde la madre che lo nutre, mangia un topo vivo. Ha fatto la guerra da
soldato e si e' ridotto cosi'. Dell'Undici Settembre 2001 il regista
giapponese Shohei Imamura non parla affatto, ma lancia una tacita accusa a
chi ne fa motivo di guerra, mostrando gli effetti della guerra sull'uomo:
diventa un mostro ex-umano. La violenza, di setta o di stato, e' anche
violenza su di se'. Piu' che una critica, qui c'e' un serio avvertimento
agli Usa: la guerra non vi salvera'.
Il film collettivo 11 Settembre 2001 e' opera di undici registi di undici
paesi, che presentano undici episodi diversi. Ken Loach, inglese, mette in
evidenza l'"altro" 11 settembre, quello del 1973, enormemente piu' cruento:
il golpe cileno contro Allende, voluto e fomentato dagli Stati Uniti.
Il regista egiziano Youssef Chahine unisce la pieta' per le vittime patite
dagli Stati Uniti con la pieta' per le vittime fatte dagli Stati Uniti.
Solo la pieta' intera e' vera, solo la pieta' sincera, non quella utile a
scatenare vendette a scopo di conquista.
Ma il piu' fortemente critico dell'uso ufficiale del crimine delle Due
Torri e' proprio il regista statunitense, Sean Penn, che ne e' anche un
delicato dissacratore. All'ombra (letteralmente) del dramma generale, c'e'
il dolore privato di un uomo: la caduta delle torri restituisce la luce
alla sua povera finestra. Il dramma del grande sistema puo' essere un
sollievo per un misero piccolo uomo. Cioe': la tragedia sbandierata dal
potere non e' tutto. Simile a questa e' la storia raccontata da Claude
Lelouch, francese: la tragedia pubblica rida' vita ad un amore privato in
pericolo.
Da parte del messicano Alejandro Gonzalez Inarritu c'e' anche, in poche
secche immagini, le piu' tragiche, avvolte nel buio, l'avviso al fanatismo
religioso: "La luce di Dio ci guida o ci acceca?". Vale per ogni fanatismo,
anche politico e nazionale, che si vesta di assoluto, e per ogni
fondamentalismo dogmatico, come quello economico.
Nell'insieme, gli undici episodi, ambientati anche in Afghanistan tra i
bambini, in Africa tra i ragazzi, in Israele (che grida: anche noi
soffriamo attentati!), in Bosnia (dove si osa ricordare, proprio quel
giorno, un terzo undici settembre!), e tra i musulmani indiani negli Usa,
sospettati, dicono forte: non c'e' solo la lettura unica della tragedia di
New York data da Bush, ci sono anche tanti altri punti di vista e altri
modi di vedere cause e significati di quell'evento. I registi di questo
film dimostrano che il mondo puo' finalmente scuotersi dalla paralisi e
dall'ipnosi imposta dalla interpretazione sovrana di quel crimine come atto
di lesa maesta', puo' sottrarsi al pensiero unico per cui quello e' l'unico
grande male, puo' contestare il cinico utilizzo del terrorismo che il
potere Usa fa per ultraimporsi sul mondo. La liberta' del pensiero e
dell'arte attaccano la prepotenza in modo onesto e con una forza molto piu'
grande ed efficace del terrorismo, utilissimo ai prepotenti per rafforzarsi.
6. INCONTRI. BRUNETTO SALVARANI: PER IL DIALOGO CRISTIANOISLAMICO
[Questa lettera e' stata diffusa il 27 settembre 2002 da Brunetto
Salvarani, appassionato e trascinante promotore dell'appello ecumenico per
una giornata del dialogo cristianoislamico. Per contatti: e-mail:
b.salvarani@carpi.nettuno.it; il sito in cui si trovano i materiali
dell'iniziativa e': www.ildialogo.org]
Ai primi firmatari dell'appello ecumenico per una giornata del dialogo
cristianoislamico
Carissime e carissimi,
perdonatemi se, come faccio ogni tanto, torno ad irrompere fra le vostre
mille occupazioni per fare il punto insieme a voi sulla "campagna
d'autunno" per il rilancio della nostra proposta ecumenica, ma lo sento
come dovere e impegno morale. Vorrei dire, soprattutto in questi nostri
tempi delicatissimi, per nulla inclini al dialogo e al confronto sereno, ma
piuttosto alle chiusure identitarie, ai preparativi di guerra e a
preoccupanti segnali del ritorno ad un clima da "scontro di civilta'".
La "campagna d'autunno" sta dando non pochi frutti. Le adesioni aumentano,
anche molto significative (tra le altre, quella dell'intero Suam, che
raccoglie gli ordini missionari italiani). Il volume "La rivincita del
dialogo" (Emi, Bologna 2002) sta circolando, e stanno uscendo recensioni e
citazioni (fra le ultime, quella di Gabriella Caramore in una puntata
radiofonica recente di "Uomini e profeti"). Sulla pagina della rubrica
religiosa de "L'Unita'" si e' aperto un dibattito a partire dall'appello
(sono usciti sinora un paio di pezzi, due giovedi' fa del sottoscritto e
ieri di Daniele Garrone; la pagine, a cura di Roberto Monteforte, e' aperta
a eventuali vostri contributi, ovviamente). Altre riviste stanno
presentando l'iniziativa, o lo faranno tra breve. Pochi giorni fa, il
Comitato esecutivo dei battisti italiani (Ucebi) ha approvato una mozione,
dal titolo "Figli di Abramo", in cui si richiede con forza l'istituzione
della giornata cristianoislamica. Segnalo anche il "tifo" che sta facendo
con ogni mezzo per la nostra impresa la professoressa Maria Vingiani,
fondatrice del Sae e antesignana del dialogo cristiano-ebraico nel nostro
paese. E potremmo continuare... Certo, ci giungono anche messaggi di altro
tipo, relativi ai rischi insiti nella proposta, alle paure di "cedere" alle
richieste islamiche, alla necessita' di attendere il "tempo piu' propizio":
ma occorrono anche gli schiacciasassi, nelle chiese, e quelli che - come
forse siamo ora noi - aprono la strada, assumendosi consapevolmente dei
rischi...
Soprattutto, peraltro, stanno moltiplicandosi le richieste di lanciare, dal
basso, una giornata "di prova", per mandare un segnale forte alle nostre
chiese, in attesa di pronunciamenti ufficiali sul tipo di quello battista.
Informalmente, telefonicamente, e con messaggi vari, mi sembra che la
maggioranza di voi si sia espressa favorevolmente rispetto all'ipotesi di
effettuare tale "esperimento" per il 29 novembre 2002, data dell'ultimo
venerdi' del Ramadan di quest'anno musulmano, anche sulla scia della
proposta di Giovanni Paolo II lo scorso anno, in piena guerra afghana (era
allora il 14 dicembre).
Lo so che, probabilmente, tale data non sara' apprezzata da tutti, per
diversi motivi. D'altra parte, siete testimoni che i tentativi di
individuare una data giusta sono stati non pochi. Vi chiedo, con tutto il
cuore, di superare, per quanto possibile, eventuali riserve, in nome del
bene superiore del dialogo e dell'apertura all'altro. A puro titolo di
cronaca, vi informo che il dott. Dachan, presidente dell'Ucoii, si e' gia'
dichiarato disponibile a collaborare in tutto. E so, peraltro, che un
ulteriore ostacolo potra' venire proprio dalle croniche divisioni interne
al mondo musulmano in Italia. Credo pero' che valga la pena di tentare,
oggi piu' che mai: ritengo che una rete di iniziative organizzate per il 29
novembre, o negli immediati dintorni, in una quindicina di citta' italiane,
adeguatamente pubblicizzate, sarebbe, attualmente, un segnale quanto mai
consolante.
Possiamo provare? Il tempo c'e' ancora, per costruire qualcosa di semplice
ma importante. Il sito di www.ildialogo.org (piu' che mai, il "nostro"
sito) e' naturalmente disponibile ad ospitare tutte le notizie di
dibattiti, iniziative, momenti di preghiera, celebrazioni comuni di
"rottura del dgiuno" di Ramadan, e altro.
Da piu' parti giungono poi richieste a proposito di "cosa fare" il 29
novembre. Mi auguro che possiamo rifletterci insieme, producendo materiali
o offrendo spunti utili ( e sempre tenendo conto che la fantasia, almeno
qui, dovrebbe andare al potere...).
Da parte mia, per ora, vi offro un paio di spunti.
Il primo, grazie a Giovanni Sarubbi, che ha costruito per la sua realta'
irpina un volantino che potrebbe essere "copiato" da chiunque voglia, con
il testo dell'appello, la notizia del libro e la contestualizzazione del 29
novembre: chi intenda avvalersene, puo' richiederlo a me o a Giovanni, o
trovarlo sul sito sopra citato.
Il secondo: abbiamo chiesto all'amico Stefano Allievi, sociologo
dell'Universita' di Padova e probabilmente il maggior esperto di islam
italiano, di fornirci un testo-base per "leggere" tale realta' in divenire.
Stefano, che e' tra i firmatari dell'appello, ha aderito con gioia, e anche
in questo caso potete rivolgervi a me per avere il testo (che sara' pronto
in un paio di giorni).
Con l'aiuto di tutti, potremo fare molto di piu'. Penso, ad esempio, alla
disponibilita' del Sae, che sarebbe importantissima, a quella di Pax
Christi, e cosi' via.
Per ora credo davvero di aver abusato abbastanza della vostra pazienza.
Aspetto, come sempre, pareri, commenti, suggerimenti, e tutto quanto possa
aiutare la "folle impresa" che ci siamo prefissi. Tenendo presente, una
volta ancora, che la "giornata" non e' un idolo al quale attaccarsi, ma
solo un piccolo segno di condivisione fraterna che vuole rappresentare la
necessita' di investire di piu' e meglio nel dialogo.
Con questo spirito, vi abbraccio e vi chiedo perdono della mia pochezza...
Brunetto
7. MAESTRE LUCE IRIGARAY: LA RIVOLUZIONE COPERNICANA
[Da Luce Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano 1975, 1989, p. 129. Luce
Irigaray, nata in Belgio, vive e lavora a Parigi dove e' direttrice di
ricerca al CNRS, e' tra le piu' influenti pensatrici degli ultimi decenni.
Tra le sue opere: Speculum. Lâaltra donna, Feltrinelli, Milano 1975; Questo
sesso che non e' un sesso, Feltrinelli, Milano 1978; Sessi e genealogie, La
Tartaruga, Milano 1987; Parlare non e' mai neutro, Editori Riuniti, Roma
1991; Amo a te, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Essere due, Bollati
Boringhieri, Torino 1994; La democrazia comincia a due, Bollati
Boringhieri, Torino 1994; Etica della differenza sessuale, Feltrinelli,
Milano 1995]
La rivoluzione copernicana non ha ancora prodotto tutti i suoi effetti
sull'immaginario maschile.
8. MAESTRE. JULIA KRISTEVA: LO STRANIERO
[Da Julia Kristeva, Etrangers a' nous-memes, Fayard 1988, Gallimard 1998,
p. 30. Julia Kristeva, nata a Sofia in Bulgaria nel 1941, si trasferisce a
Parigi nel 1965; studi di linguistica con Benveniste; intensa
collaborazione con Sollers e la rivista ăTel Quelä; impegnata nel movimento
delle donne, psicoanalista, ha dedicato una particolare attenzione alla
pratica della scrittura ed alla figura della madre; e' docente
all'Universita' di Paris VII. Opere di Julia Kristeva: tra quelle tradotte
in italiano: Semeiotik, Feltrinelli, Milano; Donne cinesi, Feltrinelli,
Milano 1975; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia; I
samurai, Einaudi, Torino; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano. In
francese: presso Seuil: Semeiotik, 1969, 1978; La rvolution du langage
potique, 1974, 1985; (AA. VV.), La traverse des signes, 1975; Polylogue,
1977; (AA. VV.), Folle verit, 1979; Pouvoirs de l'horreur, 1980, 1983; Le
langage, cet inconnu, 1969, 1981; presso Fayard: Etrangers nous-mmes,
1988; Les samouras, 1990; Le vieil homme et les loups, 1991; Les nouvelles
maladies de l'me, 1993; Possessions, 1996; Sens et non-sens de la rvolte,
1996; La rvolte intime, 1997; presso Gallimard, Soleil noir, 1987; Le
temps sensible, 1994; presso Denol: Histoires d'amour, 1983; presso
Mouton, Le texte du roman, 1970; presso le Editions des femmes, Des
Chinoises, 1974; presso Hachette: Au commencement tait l'amour, 1985]
Lo straniero e' colui che lavora.
9. RILETTURE. AA. VV.: ETICHE DELLA MONDIALITA'
AA. VV., Etiche della mondialita', Cittadella, Assisi 1996, pp. 256, lire
25.000. La nascita di una coscienza planetaria nel pensiero di alcuni
grandi filosofi e teologi contemporanei (Jaspers, Jonas, Henrich, Hoesle,
Kueng, Moltmann, Boff, Panikkar, Rizzi, Apel, Morin, Huber e Reuter,
Balducci, Levinas) presentati da Roberto Mancini, Francesca Aimone,
Alessandra Catalani, Sara Gaetani, Elvira Mastrovincenzo.
10. RILETTURE. JACQUELINE RUSS: L'ETICA CONTEMPORANEA
Jacqueline Russ, L'etica contemporanea, Il Mulino, Bologna 1997, pp. XII +
104, lire 15.000. Un'agile presentazione della filosofia morale
contemporanea, apparsa nell'edizione originale francese nella nota collana
"Que sais-je".
11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.
12. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org
; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben@libero.it
; angelaebeppe@libero.it ; mir@peacelink.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per
contatti: info@peacelink.it
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO
Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 369 del 29 settembre 2002