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Berretti Bianchi in Palestina: Quarta parte
18 agosto domenica
Annick mi chiama alle 7 e mezza e mi dice che partiremo alle 8, ma per
andare ad Hebron. Così insieme a Donato ed Elisabetta lasciamo il Faisal in
tempo per incontrarci con gli altri alla Jaffa Gate. Percorriamo con un
pulmino una strada detta by-pass, perché riservata agli israeliani, fino
alla sua intersezione con quella "normale" per i Palestinesi che debbono
entrare ad Hebron: è una strada sterrata, che incrocia perpendicolarmente
quella degli israeliani, asfaltata; le persone, numerose, attraversano a
piedi la strada asfaltata con i loro fardelli sulle spalle. Noi scendiamo e
ci avviciniamo ai soliti taxi per Palestinesi. La pista, sale e scende per
i soliti avvallamenti provocati dalle ruspe, e si avvicina alla città con
un percorso da rally. Quando arriviamo nel centro cittadino invece si apre
la solita dimensione surreale: il mercato, le auto e le varie attività
commerciali; ogni città è come una grande prigione, la vita al suo interno
sembra quella di una città qualunque. Ci presentiamo alla sede di una
Organizzazione per la Gioventù Palestinese, e parliamo con il suo
presidente, Adli Dahana; una persona molto aperta e decisa che ci espone il
quadro della situazione: il 25% dei giovani palestinesi soffre di
malnutrizione; Hebron è una città divisa in due, anche nel suo centro
storico; gli ebrei sono il 20%, ma ovviamente il loro "peso" non è
proporzionale al numero; ci sono stati più di 200 giorni di coprifuoco nel
2001; i 400 abitanti ebrei del centro sono "protetti" da più di 1000
soldati. Adli dice però che questa situazione rende gli stessi israeliani
vittime insieme ai palestinesi. L'associazione che ci ospita è stata
fondata nel 1997 e promuove scambi tra giovani europei e palestinesi. Le
pareti sono addobbate con manifesti, alcuni dei quali italiani. Nel corso
della conversazione poi Adli si sfoga anche sui difetti dell'ANP: l'attuale
ministro degli affari civili è un impresario edile, e stranamente vince
tutti gli appalti di costruzione degli insediamenti israeliani e delle
strade di collegamento tra gli insediamenti. Il distretto di Hebron ha
450.000 abitanti; un terzo di tutta la popolazione povera palestinese vive
in questo distretto; ci sono in media 7,1 persone per famiglia; gli
abitanti dei villaggi vedono il medico da una a tre volte la settimana, ma
tutto dipende dalle decisioni dell'esercito che possono cambiare in ogni
momento. Nel sottosuolo palestinese ci sono circa 800 milioni di metri cubi
di acqua, ma sono tutti sotto il controllo israeliano, e ai palestinesi si
lascia solo l'acqua non potabile. Quando lasciamo l'ufficio ci affidiamo a
Satomi, una ragazza giapponese che vive da sei mesi ad Hebron, e così
visitiamo anche il centro storico. Ogni pochi metri si incontrano militari
che impediscono il passaggio ai soli palestinesi; le strette vie del centro
con le reti che proteggono i passanti dal lancio di oggetti vari dalle
finestre degli abitanti israeliani; ad uno dei tanti blocchi troviamo una
ragazza, palestinese, che tenta di passare con noi: dice di essere venuta
con la madre e che si è perduta; tentiamo una trattativa con i militari, ma
non c'è nulla da fare; si avvicina anche un israeliano, e comincio una
conversazione con lui; parla di diritto al ritorno, perché dice che nel
1929 gli ebrei vennero cacciati dagli arabi; gli chiedo se il diritto al
ritorno deve essere riservato agli ebrei, o se può valere per tutti; lui
allora passa al pericolo degli arabi che sparano dalle finestre, e quindi
gli arabi vanno allontanati; io replico che semmai vanno allontanati coloro
che sparano, senza preoccuparsi se siano arabi o italiani; gli ricordo che
nel 1929 anche in Europa si sparava agli ebrei, ma oggi noi europei abbiamo
il permesso di passare mentre i palestinesi no. Alla fine ci rendiamo conto
che la discussione non porta alcun cambiamento, soprattutto per la ragazza
palestinese, e ci allontaniamo. Tornando verso il punto di partenza della
nostra escursione passiamo davanti alla Grande Moschea di Hebron, quella
che ospita le tombe di Sarah e Abramo, luogo in cui l'esaltato israeliano,
per alcuni eroe, ha compiuto una strage di persone riunite per la preghiera
del venerdì (era il 1994); anche qui però il controllo di chi entra viene
eseguito ovviamente dall'esercito israeliano. Mentre mangiamo in uno dei
soliti locali sulla strada assistiamo ai perenni controlli dei documenti
dei palestinesi.Dal diario di Elisabetta:
>----------------------------------------, poi ci dirigiamo verso il centro
>della città, ci fermiamo nuovamente ad un posto di blocco dove un
>giornalista britannico attende che i soldati gli restituiscano il
>pass di giornalista, dopo avergli distrutto la telecamera.
> Attendiamo con lui ed altri giornalisti, siamo una decina,
>improvvisamente una forte esplosione, è una bomba, ci dirigiamo
>rapidamente in direzione dello scoppio e vediamo residui di fumo
>nero e gente che scappa, pochi attimi e una jeep di soldati a
>fortissima velocità arriva sgommando, non è successo nulla, è
>evidente che si fà terrorismo psicologico. Chissà forse i soldati
>hanno voluto distogliere la nostra attenzione dal ceck point. Nel
>centro della cittadina ci fermiamo in un localino a mangiare Kebab,
>fuori arrivano i soldati e vediamo che fermano a caso gli uomini,
>per strada o li fanno scendere dalle auto e li portano dietro a una
>traversa laterale. Decidiamo di seguirli e li troviamo seduti a
>terra sotto il tiro dei soldati, sono circa 15 giovani tra i 25 e i
>35 anni, un fotografo di origine araba sta intanto discutendo
>animatamente con un soldato che gli ha sequestrato il pass e pare
>non volerglielo restituire, perchè fotografa gli arresti, arrivano
>tre dell' FLPH un associazione di osservatori internazionali, con
>telecamera, decidiamo dopo aver discusso con loro che a questo punto
>la nostra presenza è superflua e ci allontaniamo.------------------------
Chiamo al telefono Nabil, l'ingegnere che è venuto a Siena lo scorso
maggio e che cura i rapporti tra il Comune di Dura, nel distretto di
Hebron, e il Comune di Siena. Abbiamo deciso di incontrarci e così lui
viene a prenderci per farci visitare la sua città. Ci mostra il palazzo
comunale, dove ci incontriamo con la Giunta, le aree destinate al verde
pubblico e ci parla dei progetti dell'amministrazione per il futuro. Ci
offre poi un tè seduti per terra nella parte più alta della città, dove si
trovano alcuni edifici scolastici e, si dice, uno dei possibili luoghi
della tomba di Mosè; c'è una tranquillità quasi irreale, ma Nabil ci
assicura che nessuno oserebbe rimanere là oltre il tramonto, per le sempre
possibili scorribande dell'esercito israeliano. Ci racconta alcuni episodi
dei momenti più crudi dell'occupazione, ma prevale la voglia di andare
avanti. Ceniamo insieme e poi andiamo a dormire presso l'I.P.Y.L.
19 agosto lunedì
Il mattino seguente, dopo aver parlato con Hassib, partiamo per Gerusalemme
per poi dirigerci verso Nablus. Tra Gerusalemme e Nablus vi sono due posti
di blocco: il primo è praticamente solo per i palestinesi, a noi basta
inventare un pretesto a cui i soldati fanno finta di credere; il secondo,
Hawara, invece è un po' più complicato. Mentre attendiamo il nostro turno
ci viene incontro un "internazionale" tra i 50 e i 60 con un viso
sconvolto: chiede al nostro autista se lo può portare indietro e così
l'autista lo invita a salire; noi chiediamo subito che notizie ci può dare
e lui inizia a dire che sono tutti matti, che questa mattina hanno fatto
esplodere una casa nel centro di Nablus e che è un inferno; lui è un
sanitario e aveva il compito di coadiuvare un medico dentista; quando si
accorge che l'autista cerca di portarci più vicino al posto di blocco
intima di fermare il mezzo perché lui non vuole fare neppure un centimetro
verso Nablus; ha una faccia sconvolta e così lo lasciamo scendere. Al posto
di blocco raccontiamo ancora che siamo una delegazione universitaria e non
fatichiamo troppo a convincere i militari. Dopo il check point proseguiamo
a piedi verso Nablus; impieghiamo circa un'ora a percorrere la strada fino
al Medical Relief Center e lungo tutto il percorso riceviamo saluti di
benvenuto (welcome, welcome!), sorrisi e strette di mano da parte dei
bambini che instancabilmente ci chiedono: "what's your name?". A metà
percorso incontriamo tre altri internazionali, un italiano (Angelo) e due
"americani"; ci scambiamo saluti e notizie. Angelo, nato a Siena, non manca
di chiedere chi abbia vinto il Palio di agosto! Arriviamo al MRC e ci
accoglie il dottor Allan, che Annick ha già conosciuto nel suo precedente
viaggio. Mentre conversiamo con lui arriva Heidi, dell'International
Solidarity Movement, e con lei facciamo il programma per il resto della
giornata e ci organizziamo per la notte: Elisabetta Annick e Thomas
andranno nel centro di Nablus, in un appartamento messo a disposizione da
una famiglia (casa Hussein), io e Donato andremo al campo profughi di
Balata (Titi house), in una delle case "a rischio" di demolizione, mentre
Tom preferisce andare in un albergo non lontano dal centro. Gli altri
partono subito per le loro destinazioni, mentre io e Donato aspettiamo
Aisa, una ragazza giapponese, che ci accompagnerà al Balata Camp. Aisa
giunge poco dopo con Connor, un giovane "americano" (uso le virgolette
perché quando gli internazionali sono molti capita spesso che gli americani
non USA contestino questa semplificazione). Quando entriamo nel Campo di
Balata notiamo la solita sensazione degli altri campi profughi: qui il
coprifuoco non è molto rispettato, né dai bambini, che spesso non lo
rispettano neppure in città, né dagli adulti che passeggiano e fanno i loro
commerci per la via centrale del campo. Ci fermiamo a mangiare qualcosa e
io vado a comperare una bottiglia d'acqua in un negozio vicino; subito si
avvicina un giovane che vende felafel e me ne regala uno appena tolto dalla
friggitrice.
L'ingresso per la casa che ci ospita è situato in un vicolo tanto stretto
che il piccolo zaino che ho sulle spalle mi rende difficile la leggera
rotazione necessaria a percorrere il vicolo senza strofinare le due pareti;
la porta d'ingresso è messa in modo tale che siamo costretti ad entrare uno
alla volta, perché quando la porta è aperta non si può accedere alle scale
che portano all'interno. Credo di aver capito che questa è una precisa
strategia per impedire ai militari di entrare in massa nelle case. I
militari hanno trovato però il modo di entrare in gruppo: sfondano
semplicemente le pareti! La famigli che ci ospita ha le solite foto dei
martiri appese alle pareti; ci offrono frutta e bibiteŠ Noi alloggiamo al
piano superiore, dove ha subito inizio una riunione per una nuova
situazione venutasi a creare in una casa vicina ad un altro Campo di
Nablus, quello di Askar: c'è una situazione di tensione in una casa che i
militari stanno cercando di occupare con il loro metodo preferito: chiudono
gli abitanti della casa all'interno lasciandoli senza viveri e senza acqua
fino a che non cedono "spontaneamente" la casa; gli internazionali cercano
di portare cibo e acqua ai legittimi proprietari tentando di scoraggiare i
militari da questa azione. Partono subito tre volontari, anche se è già
buio e con il coprifuoco in corso muoversi non è prudente. Io e Donato
restiamo con Peter e Ky. La notte passa tranquilla.
20 agosto martedì
L'assemblea del mattino che doveva iniziare alle nove comincia alle 10 e 30
presso la casa Hussein, perché aspettiamo tutti gli altri che sono sparsi
nel distretto di Nablus. I punti all'o.d.g. sono:
1. come distribuire gli "scudi umani", cioè tutti noi
2. come e quando fare una iniziativa per gli abitanti del campo di
Askar, che soffrono particolarmente le restrizioni di movimento per la
vicinanza di coloni; tra poco riaprono le scuole e i bambini rischiano di
trovarsi in situazioni di serio pericolo perché no c'è scuola dentro il
campo
3. come "disturbare" l'azione dei militari che occupano in
continuazione case per usarle come caserme temporanee cacciando i legittimi
inquilini
4. organizzazione e preparazione della manifestazione di sabato
prossimo insieme ai palestinesi e agli israeliani di Ta'ayush
5. come intervenire nei villaggi che sotto coprifuoco da quasi
sessanta giorni non hanno la possibilità di fare provviste
La discussione è sempre molto ordinata e con interventi brevi; unico
handicap la lingua: gli italiani hanno qualche difficoltà a seguire gli
interventi, soprattutto quando parlano alcuni "americani" che considerano
la loro lingua come lingua madre per tutti! Alle 11 e 30 ci rechiamo al
M.R.C. per l'appuntamento che il dr. Allan aveva preso con noi; ci sono
delle incomprensioni tra gli ISM e il MR: il dr.Allan ritiene che a volte
gli ISM agiscano indipendentemente dalla popolazione palestinese e questo
crea qualche malumore. Poi Allan ci porta in un locale del centro di
Nablus, dove di solito si tengono riunioni "importanti" socialmente
(matrimoni, funerali,Š) e di lì a poco arriva il Prefetto di Nablus che
tiene una conferenza stampa sulla situazione di Nablus; parla in arabo e
l'interprete è una ragazza che Elisabetta aveva conosciuto a Gerusalemme.
"L'obiettivo delle distruzioni effettuate dall'esercito non può essere
altro che l'espulsione dei Palestinesi dalla loro terra; Sharon è il vero
colpevole di questa situazione; 280 case sono state distrutte totalmente in
città; altre centinaia sono fortemente danneggiate; da aprile ad oggi si
contano 130 morti; ogni giorni si cercano scuse per continuare con queste
azioni; noi aspettiamo ancora prove concrete delle loro affermazioni; qui
la vita è diventata impossibile; non c'è lavoro, non si può procurare il
cibo, tutte le attività sono sospese; la situazione sanitaria è molto
precaria; l'istruzione è a rischio e molti ragazzi possono perdere l'intero
anno scolastico". Finita questa esposizione un giornalista chiede come si
può ridurre il peso di Jihad e Hamas; Il Prefetto risponde che per farlo
occorre creare un clima politico che permetta un reale cambiamento; altra
domanda: e per fermare gli attentati terroristici? Risposta: i palestinesi
si stanno difendendo; l'unico terrorista è il Primo Ministro Ariel Sharon!
Al pomeriggio andiamo al villaggio di Betibe, uno dei villaggi rimasti
isolati sin dall'inizio del coprifuoco. Ci porta un taxi che rischia
licenza e auto non essendo autorizzato a muoversi; visitiamo varie
famiglie, a cui portiamo alcune cose comperate al mercato di Nablus; presso
la seconda famiglia viene a trovarci un medico, che poi ci guida in altre
case che si trovano in particolari difficoltà: una famiglia composta dai
genitori e sette figlie, tutte femmine; una di loro si chiama Palestina
Libera! Il fratello del dottore è uno dei "fortunati" che ha avuto la casa
occupata dai militari e ci porta visitarla mostrandoci i danni compiuti dai
"soldatini". Mentre siamo con loro passano un carro armato e una autoblinda
che con l'altoparlante ci intima di stare dentro le case. Si sta facendo
tardi e così richiamiamo il nostro tassista temerario che questa volta
rischia il doppio, perché con il buio le auto si vedono meglio. A metà
percorso il motore si ferma (rottura della coppa dell'olio) e tutti
scendiamo per spingere l'auto in una zona dove non può essere schiacciata
con i tank. Il tassista ci vuole invitare a cena a casa sua e a dormire, ma
non possiamo accettare perché le case dove dormiamo sono "a rischio"
distruzione e la nostra presenza potrebbe salvarle. Allora ferma un collega
per farci portare a destinazione; anche il collega si presta a correre il
rischio e oltre a portarci a destinazione, a Balata, non vuole neppure uno
shekel. Quando arriviamo al campo è notte e ci fermiamo a prendere un
"panino" arabo: anche questo ci viene offerto dal gestore e devo dire che
per me è stato difficile non cedere alla commozione. Tornando verso la
"nostra casa" (è difficile non sentirsi a casa con questa gente) un anziano
signore mi chiede con quali soldi siamo venuti, se qualcuno ci paga, e cosa
racconteremo quando torneremo a casa; io ho risposto guardandolo negli
occhi che ci paghiamo da soli, e che racconteremo quello che abbiamo visto.
Lui mi ha stretto la mano e se ne è andato. Mi era successa la stessa cosa
nel 1991, ma non lo ricordavo più.
Francesco Andreini
Berretti Bianchi