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Palestina Israele-due popoli, due Stati



Palestina - Israele
Due popoli, due Stati

Un documento del Forum delle donne di Rifondazione comunista

L'indecente esposizione mediatica di Arafat come prigioniero liberato
unilateralmente da Sharon e insieme ostaggio permanentemente sotto tiro
della rappresaglia israeliana, in una Palestina annientata e assediata, dà
la misura della tragedia che si è consumata e continua a consumarsi in
quella terra. L'umiliante trattamento pubblico inflitto al leader
palestinese, le continue minacce d'esilio fatte contro di lui durante e dopo
l'assedio di Ramallah, la delegittimazione quotidiana del suo ruolo indicano
in modo rappresentativo dove Israele voglia arrivare. Mentre la minaccia
dell'occupazione militare continua a incombere sui villaggi palestinesi,
nella complicità o indifferenza o silenzio delle grandi potenze del mondo, è
stato legittimato il principio che in qualsiasi momento Israele può
intervenire militarmente, operare massacri (Jenin), sottrarsi  alle
risoluzioni, ai controlli dell'ONU, nonché alle regole del diritto
internazionale. Ma soprattutto è stato compiuto un passo nella direzione
strategica voluta da Sharon: cancellare ogni possibilità di riconoscimento
dello Stato palestinese, delegittimare l'Autorità Nazionale, umiliare e
cancellare la cultura e l'identità di quel popolo.
Sharon ha applicato in pieno e rivendica con feroce determinazione il
modello USA della guerra al terrorismo. Gli attentati terroristici sono
stati strumentalmente utilizzati per portare avanti il progetto essenziale a
cui s'ispira la politica di Sharon: la costituzione di un grande Israele,
che comprenda al suo interno la presenza di mini insediamenti palestinesi
separati tra loro e ridotti a veri e propri bantustan. "Enduring freedom" e
l'idea di una guerra infinita, agita con qualsiasi mezzo e dovunque gli Usa
e i suoi alleati lo ritengano necessario, fornisce il contesto di
legittimazione internazionale della politica israeliana.
Gli attentati terroristici e la strategia dei kamikaze, che hanno avuto
nell'ultimo anno una drammatica escalation di insensata follia omicida, sono
stati certamente anche il frutto velenoso di questa situazione, la trappola
mortale in cui giovani uomini e donne hanno cercato risposta alla mancanza
sempre più drammatica di prospettive e futuro per il loro Paese e per la
loro vita. Ma sono anche l'espressione di una ricorrente e perdurante
concezione politica fondata sull'autonomia del politico, di un meccanismo
antropologico-culturale che attiva fino alle conseguenze estreme
un'allucinata reciprocità del rapporto amico-nemico e insidia alle radici
qualsiasi possibilità di costruire punti di vista, azioni, strategie
realmente alternative. E' una concezione della politica dominata dalla
cultura maschile, che separa mezzi e fini, vita e politica, centralizzando
nelle mani di pochi uomini le strategie di potere e annullando le
responsabilità soggettive. L'influenza crescente che  gli attentati
terroristici hanno tra la popolazione e soprattutto tra i giovanissimi -
ormai impossibilitati a esprimere altrimenti la loro opposizione
all'occupazione israeliana - dimostra ormai quanto l'integralismo di stampo
islamista, che di questa cultura si alimenta, abbia presa anche tra donne e
uomini ricchi di una grande e antica cultura laica e democratica come quella
palestinese. Come sempre accade, la religione offre copertura ideologica,
argomenti popolari, riferimenti identitari al fondamentalismo politico. Non
a caso in Occidente si parla ormai di scontro di civiltà e i riferimenti
alla civiltà cristiana contro quella islamica alimentano la politica delle
varie destre, più o meno estreme.
Per questo ci sembra che un danno gravissimo alla causa palestinese sia
operato da quelle ideologie di sinistra che, nell'icona del martire suicida,
schiacciano e intrappolano il destino del popolo palestinese, caricando
donne e uomini di quella terra del ruolo di avanguardia rivoluzionaria di
un'ipotetica strategia antimperialista, esaltando l'eroismo dei giovani
kamikaze additati come esempio positivo della lotta.
Ma la confusione ideologica è un tratto distintivo delle vicende che si
succedono tra Israele e Palestina.
Quella di Israele è in tutto e per tutto una guerra coloniale, che produce
crimini, massacri, devastazioni, vere e proprie deportazioni, che si serve
degli stereotipi del più bieco razzismo per creare consenso al suo interno,
per guadagnare l'appoggio della popolazione sia rispetto alle operazioni
militari contro i villaggi palestinesi sia per allentare la tensione causata
dalle crescenti contraddizioni socio-economiche nella stessa Israele. Forte
dell'appoggio incondizionato dell'alleato americano e della colpevole
subalternità dell'Europa, Israele agisce nell'arena internazionale con i
poteri assoluti di una superpotenza e Sharon - anche questo va detto con
chiarezza - sta spingendo verso forme estreme la politica attuata da tutti i
governi precedenti, laburisti o likud per quanto riguarda tutte le questioni
di fondo dei rapporti con la Palestina: dagli insediamenti al diritto al
ritorno dei profughi, fino al riconoscimento di due Stati e di Gerusalemme
capitale di entrambi.
Tuttavia avere chiare le enormi responsabilità di quel Paese e denunciarne
crimini, misfatti, massacri, non può autorizzare, anche solo per parziali
accostamenti, ad operare processi di assimilazione ed identificazione della
drammatica vicenda palestinese alla Shoà, alla tragedia dei lager, alla
soluzione finale pensata e organizzata da Hitler. La riduzione
indifferenziata delle tragedie storiche a un unico schema interpretativo non
rafforza affatto ma indebolisce la capacità critica di giudizio, soprattutto
quando si tratta di una vicenda così estrema come l'olocausto, che deve
restare ben radicata nella memoria e nelle coscienze come bussola di
orientamento e misura etica del male.
Identificando l'aggressione alla Palestina con la Shoà e anche confondendo
in un unico calderone le responsabilità storiche dello Stato di Israele, e
le specifiche politiche dell'attuale governo, con la cultura ebraica, le
comunità della diaspora, le scelte dei singoli, si offrono alibi a tutti
quelli che, anche a sinistra, non vogliono fare i conti con le micidiali
politiche di Sharon e trovano buoni argomenti nelle semplificazioni
ideologiche non di rado aberranti che spesso accompagnano il sostegno alla
causa palestinese.
Rompere il set mediatico costruito in questi giorni per dimostrare che il
governo israeliano ha colpito soltanto per sconfiggere il terrorismo e che è
disposto oggi a trovare una soluzione di pace: è questo il primo passo da
compiere per continuare l'impegno e la mobilitazione a favore della causa
palestinese.
L'equidistanza tra le due parti in causa, l'oscuramento continuamente
operato circa l'enorme disparità di forza e responsabilità tra Israele e
Palestina, l'indifferenza totale e il silenzio sistematico sulle risoluzioni
dell'ONU ostinatamente violate da Israele hanno offerto il migliore viatico
alla strategia di guerra di Sharon.
Rilanciare la battaglia politica per una soluzione di pace in Medio oriente
significa parlare innanzitutto con chiarezza della guerra che Israele
conduce contro la Palestina e delle gravissime intenzioni di Sharon, che, se
realizzate fino in fondo, comporterebbero la fine di qualsiasi speranza di
futuro non solo per la Palestina ma anche per la stessa Israele. Significa
chiedere l'applicazione immediata e rigorosa delle risoluzioni dell'ONU e
non permettere che cali il silenzio dopo i massacri effettuati
dall'occupazione militare nei campi e nei villaggi. La missione dell'ONU per
appurare la verità su quanto avvenuto a Jenin deve essere svolta, non può
essere tollerato il diniego israeliano, non può essere lasciata senza
risposta la violenta ingiustizia perpetrata legalmente dall'esercito ai
danni di una popolazione inerme e indifesa. Significa sostenere il movimento
pacifista israeliano, quante e quanti in tutte le forme si oppongono in quel
Paese alla guerra, riconoscere il ruolo di ponte di civiltà che quelle donne
e quegli uomini svolgono in un momento così drammatico, mobilitare intorno a
loro la comunità internazionale, moltiplicare le occasioni di incontro tra
le voci libere di una parte e dell'altra.
Nell'esperienza dura di questi giorni matura in quei Paesi anche una
sinistra nuova che vede uniti ebrei e arabi nell'idea che nessuna soluzione
potrà esserci se non si imbocca una via del tutto diversa.
L'Europa - su questo deve essere fatto il massimo sforzo in tutte le sedi -
si deve convertire nell'agente attivo, spingere l'ONU a mettere in campo una
forza internazionale che imponga il "cessate il fuoco", la fine
dell'accerchiamento militare voluto da Sharon, l'avvio - in un contesto
qualitativamente diverso - di negoziati per una pace vera, per la fine
dell'occupazione e la nascita di due stati indipendenti, Palestina e
Israele.





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