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Reportage dal Campo profughi di Jenin
Reportage dal Campo profughi di Jenin
Patrizia Viglino
Un bambino di 3 anni nel mezzo del Campo profughi di Jenin raccoglie una
pietra tra le macerie e la stringe nel pugno della mano, spaventato dalla
mia macchina fotografica. Sua mamma cerca di rassicurarlo mentre lui affonda
il viso sulla sua gonna e non vuole più guardarmi. Ecco che cosa è rimasto
del Mohaian Jenin: il terrore negli occhi di un bambino e la spinta atavica
a conservare la vita. Almeno per chi è sopravvissuto. Oggi venerdì 19 aprile
è il primo giorno in cui i carri armati israeliani hanno abbandonato l'area
del Campo. Il coprifuoco è sospeso per poche ore e una fiumana di uomini si
incamminano per fare ritorno alle loro case sulla strada che dal villaggio
di Burqeen porta a Jenin. Un carro armato israeliano ostruisce il passaggio,
i soldati sono al lavoro con un bulldozer e scavano una grossa buca al
centro della strada principale. I pochi taxi palestinesi sono costretti a
fermarsi. Gli uomini risalgono a piedi la collina d'ulivi per due km prima
di poter raggiungere il Campo.
Ci sono giovani ma anche anziani, uomini che erano stati arrestati e
deportati per gli interrogatori, rilasciati poi al check point di Salem, al
confine con la linea verde. Fanno ritorno al Campo ma non alle loro case.
Quel che resta dei quartieri centrali è una montagna di macerie spianate dai
bulldozer intervallate da qualche scheletro di casa ancora in piedi, senza
più le pareti esterne, dove siedono all'interno alcuni gruppi di donne e
bambini. Tutto è stato completamente distrutto, case, scuole, ospedali,
moschee. Ricostruire questi terribili 19 giorni, da quando i carri armati
israeliani hanno iniziato a circondare l'area del villaggio di Jenin,
imponendo il coprifuoco totale, non sarà semplice.
La popolazione civile è in stato di shock e non è in grado di ricostruire
questa che chiamano la nuova Nakba, una nuova catastrofe. Fin dal 1° di
aprile le notizie delle operazioni militari israeliane procedevano senza che
ci fossero obiettivi apparentemente chiari, a parte una volontà di punizione
collettiva per gli attentati di Nethanya e Gerusalemme compiuti dagli
attentatori suicidi palestinesi. All'alba del 2 aprile è iniziato l'attacco
al Campo profughi con spari di granate e l'ingresso dei soldati che, come
già successo al campo profughi di Balata a Nablus, si preparavano a compiere
i rastrellamenti, casa per casa, di tutti gli uomini dai 14 ai 50 anni. Il
timore che si ripetessero le devastazioni di Nablus erano forti. La
popolazione civile chiedeva già da subito l'intervento internazionale per
l'invio di una forza di protezione dei civili. Con i primi bombardamenti e i
primi morti, i combattenti palestinesi hanno organizzato una difesa in un
quartiere centrale del Campo che ha fatto sperare nella possibilità del
ritiro delle truppe israeliane che evitasse appunto il bagno di sangue. I
bombardamenti con i carri armati si sono susseguiti con regolarità giorno e
notte, colpendo le abitazioni civili nella cinta esterna del Campo e aprendo
un varco per l'ingresso dei carri armati Merkava e degli APC, i blindati per
il trasporto delle truppe militari. Le stradine strettissime, dove non
potevano circolare due auto contemporaneamente, hanno iniziato a tramutarsi
in strade larghissime con l'abbattimento di edifici, distruzione di tutte le
infrastrutture: l'elettricità, le fognature, le condutture dell'acqua, la
distruzione di un antico pozzo, i mezzi di trasporto, l'imposizione del
coprifuoco continuo durato due settimane. La popolazione civile lanciava i
suoi SOS per telefono lamentando il razionamento di acqua e cibo e i pesanti
bombardamenti che non accennavano a placarsi dopo giorni. Così, mentre anche
Betlemme e Nablus si trovavano sotto assedio, giungevano le notizie dal
Mohaian Jenin di una resistenza all'invasione dei soldati israeliani.
Scontri a fuoco con Kalashnikov contro i più sofisticati M16 che hanno
provocato decine di morti tra i palestinesi e l'uccisione di 22 soldati
secondo fonti palestinesi, mentre fonti israeliane ammettevano soltanto
quattro perdite. I combattenti palestinesi allestiscono in un edificio
bombardato una trappola mortale, minandolo con l'esplosivo, dove 13 soldati
israeliani cadono nell'imboscata. Ora è rimasto un cumulo di macerie dalla
quale l'IDF, le forze di occupazione israeliane, ha rimosso i corpi. Tutto
intorno tracce delle lotta. Abiti e scarpe abbandonati al suolo, muri ancora
sporchi di sangue, segno che l'esercito israeliano, una volta vinta la
resistenza in quella zona del Campo, ha fatto delle esecuzioni sommarie. In
un edificio di fronte, ormai semi crollato, c'è una stanza dove si vedono i
resti di un pasto frugale, qualche tazza per il the e sulle pareti tutto
intorno pezzi di carne umana stampati sui muri, tracce di uno o due corpi
che sono stati fatti esplodere. I palestinesi non sono in grado di
ricostruire cosa sia successo ma sulla parete laterale c'è un grosso buco
provocato da un missile, sparato probabilmente da un carro armato. Anche per
la strada ci sono brandelli di carne umana e tutto intorno un fetore acre.
Il 4 aprile l'esercito israeliano non riesce ancora a espugnare due
quartieri al centro del Campo e inizia a bombardare in modo massiccio con
gli elicotteri Apache e i bombardieri F16.
L'isolamento si fa totale. Le notizie giungono sempre più sporadiche,
l'ospedale del Campo viene messo fuori uso, i soldati vietano tassativamente
ogni soccorso medico, sparano a vista sulle ambulanze, completando
l'isolamento del Campo dal resto del villaggio. Alcuni gruppi di donne e
bambini cercano di uscire dal Campo sotto i bombardamenti. Non è chiaro se
abbiano mai raggiunto un posto sicuro. Due gruppi di circa 200 persone sono
arrivati nell'ospedale ma dopo tre giorni sono usciti alla ricerca di cibo.
Nei villaggi intorno a Jenin, di Rummenieh, Taibeh, Qabatye, Burqueen, Kafr
Than, Zababa giungono centinaia e centinaia di uomini tra gli 11 e i 70 anni
provenienti dal Campo profughi. La moschea di Taibeh si trasforma in un
centro di accoglienza, l'altoparlante chiama i nomi delle persone per
permettere ai parenti di ricongiungersi. Le famiglie ospitano gli scampati.
Nella scuola di Taibeh vengono allestiti dei dormitori, in una stanza è
stata fatta una raccolta di abiti per rivestire gli uomini che venivano
rilasciati nudi dopo gli interrogatori e una lavagna raccoglie i nomi per i
parenti che giungono dagli altri villaggi. Le prime testimonianze sono
agghiaccianti. Intorno a mezzogiorno del 9 aprile la resistenza palestinese
ha dichiarato il cessate il fuoco e si è arresa per aver finito le
munizioni. “Eravamo pronti a resistere, a sacrificarci per la nostra
terra” - racconta un giovane combattente appena rilasciato dopo due
giorni di interrogatori - “dopo tre giorni abbiamo finito le munizioni
e ci siamo arresi ma i soldati non hanno accettato il cessate il fuoco e
hanno iniziato a bombardarci con gli elicotteri Apache e i bombardieri F16.
Poi hanno fatto entrare i bulldozer e completato le demolizioni senza fare
uscire la gente dalle case. Molti sono rimasti intrappolati dentro per
sfuggire al fuoco randomico dei cecchini e dei carri armati”. I
soldati invadono tutte le aree del Campo e iniziano a compiere le prime
esecuzioni sommarie. Alcuni testimoni hanno visto 5 ragazzi messi al muro
davanti agli occhi dei loro familiari. Tutti gli uomini vengono fatti uscire
dalle case. Khaled, 30 anni, racconta come i soldati siano entrati in casa
sua sfondando la porta di ingresso. Sul suo viso sono ancora evidenti le
tumefazioni dalle percosse con i calci degli M16.
Dopo 4 giorni non può ancora muoversi a causa delle torture subite, la
schiena è tumefatta e i suoi polsi sono segnati dalle cicatrici delle
manette di plastica. Dopo un interrogatorio sommario davanti ai suoi
familiari è stato usato come scudo umano per permettere ai soldati di
entrare nella casa dei vicini. Come tutti gli uomini è stato costretto a
spogliarsi, bendato e messo in fila indiana davanti ai carri armati che
sfilavano per le strade, abbattendo al passaggio i muri delle case. La gente
osservava dalle finestre senza poter fare nulla. I primi feriti sanguinavano
per le strade. Un volontario medico della Red Crescent Society, il
corrispondente palestinese della Croce Rossa, racconta come sia stato
arrestato mentre si recava al Campo per tentare un soccorso. Anche i medici
e le ambulanze sono state usate come scudo per l'avanzata dei soldati, casa
per casa. Ha visto diversi feriti abbandonati per la strada e alcuni
cadaveri colpiti dal fuoco dei numerosi cecchini senza che potesse fare
nulla. Un anziano di 70 anni racconta di aver visto un corpo davanti alla
sua porta di casa, abbandonato per 4 giorni, prima che anche lui venisse
arrestato e portato via per l'interrogatorio. I primi giorni gli
interrogatori sono stati condotti duramente. Molti uomini presentano segni
di torture, bruciature, fratture e maltrattamenti. I polsi e il volto pieni
di cicatrici come un segno di riconoscimento. Non è stato risparmiato
nessuno da queste brutalita' e umiliazioni. Gli anziani ricordano
l'espulsione dai loro villaggi del 1948 tuttavia le umiliazioni a cui sono
stati sottoposti non hanno precedenti. Trasportati fuori dal Campo verso la
foresta di Saed sono stati tenuti legati e bendati, senza abiti, solo con le
mutande, e interrogati due per volta, prima dall'esercito e poi dai servizi
speciali, Shin Bet e Mossad. Umiliati e percossi, come racconta Walid, un
impiegato delle Nazioni Unite, a cui è stato dato da bere acqua e piscio,
dopo tre giorni senza acqua. A tutti è stata scattata una polaroid. Sul
retro i soldati hanno scritto il numero della carta di identità, l'ID
palestinese, e la parola “terrorista”, prima del rilascio sotto
l'intimidazione di non tornare mai piu' a Jenin. I giovani dei villaggi
vicini si sono recati per giorni al check point di Salem per soccorrerli.
Molti di loro non potevano camminare. Gli uomini non sanno nulla di quello
che succede all'interno del Campo, non hanno notizia dei loro familiari,
delle donne e dei bambini. Nessuno riesce ad entrare. I bombardamenti
continuano massicci. I palestinesi dicono di aver visto l'esercito
israeliano portare via i corpi dalle strade per caricarli negli APC. Secondo
alcuni testimoni i corpi sono stati messi in fosse comuni prima di essere
trasportati verso la Valle del Giordano. Il 14 aprile la Corte suprema
israeliana ha approvato la richiesta di una immediata cessazione delle
sepolture in fosse comuni dei palestinesi uccisi, effettuate da parte
dell'esercito. La Croce Rossa Internazionale ha infatti chiesto che si
procedesse alla numerazione e all'identificazione dei corpi, riconoscendo la
necessità per la Mezzaluna Rossa palestinese di prendere parte
all'operazione di identificazione. Tuttavia i soldati hanno continuato le
rimozioni, impedendo qualsiasi intervento esterno. L'opinione pubblica
mondiale, compresa una parte di quella israeliana, è fortemente preoccupata
del fatto che ci possano essere state esecuzioni di massa e un massacro di
civili sotto i bombardamenti. Numerosi testimoni hanno visto diversi corpi
gettati nei canali. I combattenti sono stati giustiziati sommariamente dopo
essere stati circondati. I soldati non hanno permesso a nessuno di lasciare
il campo. Chi è riuscito a scappare racconta di molti corpi rimasti tra le
case distrutte.
Oltre il 30% delle case sono state ridotte a cumuli di macerie che si levano
per diversi metri di altezza e qualche centinaio di chilometri quadrati. Il
15 aprile riesco a entrare nel Campo profughi di Jenin passando attraverso
la collina. La Croce Rossa Internazionale ha potuto rimuovere sette corpi
dalle strade ma non tutti i cadaveri che decompongono da giorni. La
popolazione civile, donne e bambini, convive da due settimane con l'orrore
della morte. In un edificio c'è un corpo carbonizzato, colpito da un missile
mentre si trovava in casa. Un altro cadavere spunta dalle macerie di
un'altra casa, semi sepolto dal crollo. L'odore della morte mi guida verso
una casa dove al piano terra giacciono 4 cadaveri. Morti orribili, tracce di
tentativi di fuga. Le mosche divorano le carni in decomposizione, i bambini
assistono a questo spettacolo, molti dei quali sono parenti delle vittime.
C'è un forte pericolo di epidemie. Manca l'acqua e il cibo. I tantissimi
neonati non mangiano da giorni. La popolazione ha perso tutto e si aggira
per le macerie senza accennare nessuna reazione. Non ci sono medici, a parte
Mohammed, medico palestinese rimasto nel Campo per tutta la durate
dell'assedio e una volontaria francese giunta da qualche giorno. I convogli
umanitari delle Nazioni Unite vengono fermati all'ingresso del Campo con
acqua, viveri e medicinali. Il coprifuoco continua. Alcuni bambini si
spostano con le bandiere bianche in cerca di acqua tra gli allagamenti delle
fognature. La popolazione vive nel terrore dei cecchini israeliani che
continuano a sparare. È difficile raggiungere alcuni edifici dove fino a due
giorni prima si sentivano ancora le voci di sopravvissuti. Quello che
colpisce è la grande quantità di macerie. Nel Campo vivevano 15.000 profughi
in un'area delimitata di 1kmq. In ogni abitazione c'erano almeno una media
di 20 persone. Circa 600 case sono state rase al suolo. Per diversi giorni
ancora i soldati israeliani non permettono i soccorsi medici e sanitari. La
popolazione è stremata. Intanto continua la caccia ai giornalisti che
riescono a entrare nel Campo. I soldati procedono con gli arresti e il
sequestro del materiale. Anche i veterani delle guerre, AP, Reuters, CNN,
BBC, al Jazeera sono costretti alla fuga come la popolazione civile del
resto, che convive sotto il fuoco dei cecchini. Il 16 di aprile cerco di
rientrare nel Campo con un gruppo di pacifisti italiani, membri di diverse
municipalità italiane: Napoli, Salerno, alcuni comuni campani e laziali. Ci
sono anche dei giornalisti stranieri. Veniamo fermati dai carri armati, i
passaporti sequestrati. Dopo lunghe trattative ci accompagnano con i carri
armati oltre la linea verde dicendo che i Territori Palestinesi Occupati
sono vietati agli stranieri e che sono pieni di terroristi. Intanto un
soldato spara a un cane sulla collina e lo fa secco. Protestiamo pretendendo
la restituzione dei passaporti e il rilascio dei palestinesi che si
trovavano con noi. Venerdì 19 ritorno nel Campo per la momentanea
sospensione del coprifuoco. I palestinesi parlano di 200-400 morti, quasi
tutti civili. Le organizzazioni umanitarie azzardano stime molto più alte,
si accenna a qualche migliaio. Le due ruspe al lavoro nel Campo tra le
macerie scavano alla ricerca dei cadaveri. Dopo un ora da alcuni scavi si
leva l'odore dei corpi in decomposizione. Intanto un camion ha finalmente
portato via gli otto corpi che giacevano nelle case, avvolti in drappi di
seta bianchi. Una bandiera palestinese sventola sulla cima più alta delle
macerie, poco più in là una bandiera verde dell'Islam e un'altra di Fatah.
All'uscita del Campo gli israeliani hanno disegnato le stelle di Davide
sulle pareti esterne e interne delle case e dei negozi. Su un muro colpito
dal fuoco di un carro armato c'è anche una scritta in israeliano: Con
Israele la Vita, mentre in una casa a pochi metri ci sono 2 missili
inesplosi. Nonostante la fine del coprifuoco all'uscita da Campo cadiamo
sotto il fuoco dei soldati israeliani. Siamo un gruppo di giornalisti,
alcuni attivisti per la pace italiani e americani, civili palestinesi tra
cui anziani e bambini. I soldati israeliani ci prendono di mira mentre
speditamente ci avviamo ai taxi collettivi. Un proiettile sfiora un
palestinese di 65 anni che cammina davanti a me. Probabilmente ci vogliono
intimidire. Mi lascio alle spalle una tragedia di proporzioni
indescrivibili, difficile da quantificare che ha suscitato orrore nei
numerosi testimoni stranieri e uno stato di totale prostrazione nel popolo
palestinese. Un massacro voluto e annunciato con il tacito consenso della
comunita' internazionale, un punto di non ritorno per il popolo palestinese
ma anche per il futuro di Israele.
http://www.carta.org/agenzia/palestina/020506jenin.htm