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Missioni militari italiane all'estero- E. Deiana
Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 95 di lunedì 11 febbraio 2002
Discussione del disegno di legge: S. 1001 - Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451, recante
disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana ad
operazioni militari internazionali (approvato dal Senato) (2254) (ore
19,50).
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, preannunzio il giudizio negativo ed il
voto contrario del gruppo di Rifondazione comunista al disegno di legge di
proroga delle missioni militari italiane all'estero. In modo particolare,
vorrei attirare l'attenzione dei colleghi, delle colleghe e del
rappresentante del Governo sul comma 3 dell'articolo 1, che include nel
novero delle operazioni militari internazionali quella denominata Enduring
freedom, vera e propria operazione di guerra, dichiaratamente di guerra.
Vorrei svolgere una prima osservazione: perché deve essere prorogata? La
guerra in Afghanistan non è finita? Con quali fini deve essere prorogata? In
quale contesto e quadro internazionale e agli ordini di chi?
La seconda osservazione: la missione Enduring freedom, in questo disegno di
legge, viene abbinata ad altre missioni che, in passato, sono state
presentate e tuttora viene fatto - basta ascoltare gli interventi degli
onorevoli Ranieri e Tonino Loddo prima di me - con connotati e finalità
diverse rispetto ad Enduring freedom; a tal punto diverse che, per Enduring
freedom, il Governo non ha trovato di meglio che risuscitare l'applicazione
del codice penale militare di guerra laddove per le altre missioni - d'altra
parte lo afferma lo stesso disegno di legge in questione - il riferimento è
al codice penale militare di pace.
Non è piccola la differenza! Come Rifondazione comunista la nostra analisi è
che si tratti di una incongruità in realtà più apparente che sostanziale.
Più apparente che sostanziale perché il contesto che determina e che ha
determinato le missioni di ieri e la guerra di oggi è lo stesso: è la
violazione dell'articolo 11 della Costituzione e l'accettazione di un
modello di difesa sganciato dall'obbligo costituzionale allo strumento della
pace come strumento principe della polizia internazionale.
La copresenza dell'operazione Enduring freedom in un medesimo disegno di
legge rivela meglio di molti discorsi la caratteristica fondamentale e
fondativa di questa strategia che presiede alle operazioni militari
internazionali, che è appunto la guerra. La guerra come contesto in atto,
come è stato per Enduring freedom, o come riferimento pregresso, da cui
traggono ragione e legittimazione le missioni. Spesso nel determinare questi
contesti pregressi vi è stata purtroppo la responsabilità diretta del nostro
paese, come nel caso di alcune missioni oggi impegnate nei Balcani.
Vorrei inoltre osservare che questo mettere insieme operazioni così diverse
fra loro, che in comune hanno tuttavia l'opzione bellica come segno
sovraordinatore, significa vanificare e marginalizzare anche operazioni che
hanno invece un segno decisamente diverso, ovvero di pace e di concorso alla
pacificazione delle parti, come è il caso del piccolo contingente di
carabinieri disarmati impegnati ad Hebron: contingente piccolo, certo non a
caso, considerate le priorità geopolitiche che il nostro paese si dà al
seguito degli Stati Uniti d'America.
Dire che il contesto è complessivamente lo stesso non significa però né
darlo per scontato una volta per tutte, né darlo per assodato. Ho presentato
alcuni emendamenti soppressivi di tutti i riferimenti ad Enduring freedom;
ciò per ragioni immediatamente politiche, ovvero perché, come ricordavo in
precedenza, su quest'operazione non vi è nessuna proroga da chiedere, bensì
vi è la discussione immediata da fare, per ragioni di metodo e di cultura,
una cultura parlamentare che obblighi a non operare in maniera banale ed
automatica rispetto ad una scelta così drammatica che ha al centro la
guerra.
Siamo contro il fatto che una missione dichiaratamente di guerra, guerra
micidiale ed inquietante per i risvolti inediti che rappresenta, senza
confini di luogo e di tempo come ama dire il presidente Bush, una tale
guerra venga assunta tranquillamente in un contesto legislativo che si
presenta, come dire, di routine: proroghiamo missioni in cui le Forze armate
italiane sono impegnate in qualche modo a fare del bene. Nessuna di queste
missioni, intendiamoci, è di routine, meno che mai può essere di routine e
pertanto sottoponibile ad una proroga in un contesto oscuro, una missione
come quella denominata Enduring freedom.
Mettere insieme le cose in questo modo non fa che facilitare il ricorso alla
guerra e non farà che allargare a dismisura l'adattamento culturale alla
guerra, cioè l'accettazione dell'idea che il nuovo modello di difesa ruoti
intorno all'azione bellica come variabile possibile in ogni momento. Gli
automatismi vanno contrastati e noi vogliamo contrastarli in tutte le sedi,
anche in questa, ad uno ad uno. Vogliamo che i problemi vengano discussi e
affrontati.
Ci troviamo di fronte ad una guerra che sfugge a tutte le regole, a tutte le
caratteristiche tradizionali e a tutti i limiti stessi di una guerra. Ma
sappiamo anche che la risposta all'attacco terroristico, da parte degli
Stati Uniti, ha accelerato drammaticamente un processo di pretesa di
direzione oligarchica del mondo già in corso negli Stati Uniti e già
attuato, da parte degli Stati Uniti, negli ultimi anni. Non lo dico io, lo
vanno dicendo con chiarezza ormai molte voci libere dell'America:
intellettuali, uomini e donne della politica, operatori della comunicazione
democratica che non si lasciano imbavagliare dalle emergenze e dalle censure
di Bush. Penso se ne debba discutere.
L'inchiesta del New York Times, pubblicata in questi giorni, parla di un
numero esorbitante di vittime civili in Afghanistan, quelli che,
eufemisticamente, si continuano a chiamare «effetti collaterali». Le voci di
un allargamento del conflitto all'Iraq si moltiplicano: sembra che anche la
«colomba» Colin Powell sia disponibile ad accettare questo allargamento.
Quindi, non più la strategia di Clinton di contenimento, ma intervento
diretto contro l'Iraq. Credo se ne debba parlare.
La risposta all'attacco terroristico ha rivelato la dismisura assunta dalla
guerra, quando essa è messa alla prova contro fenomeni come il terrorismo,
che non possono essere controllati da una guerra e che una guerra non può
assolutamente risolvere. Una guerra, nella tradizione bellica, faceva
ordine, stabiliva i rapporti di forza tra gli Stati, non faceva giustizia.
Fare giustizia significa entrare in un tunnel nero senza fine. È come
acchiappare il mercurio con le mani nude. Credo se ne debba parlare.
Dove va Enduring freedom? Dove va l'Italia al seguito di Bush? Il Presidente
degli Stati Uniti chiede continuamente il diritto di portare avanti la sua
campagna Enduring freedom senza limiti, senza controlli, senza necessità di
rendere conto a nessuno, nel mistero e nella violazione di ogni legalità
democratica, compresa quella che la Costituzione americana assicura ai suoi
cittadini e alle sue cittadine.
Mi sembra che tardivamente ci si renda conto di come vengano trattati i
prigionieri talebani che - voglio ricordare all'onorevole Tonino Loddo - non
sono prigionieri di guerra, perché gli Stati Uniti non li ritengono tali.
Infatti, se li riconoscessero come tali, essi avrebbero diritto al
trattamento dei prigionieri di guerra, come riconosce loro la convenzione di
Ginevra; il problema è proprio questo: che non vogliono riconoscerli come
prigionieri di guerra.
Di tutto questo vogliamo parlarne, prima di prorogare ad occhi chiusi anche
questa missione, oppure vogliamo andare avanti? Evidentemente il Governo ha
questa intenzione, ma poi la responsabilità sarà di tutto il Parlamento, se
ratificherà provvedimenti di cui non sappiamo assolutamente nulla e di cui,
probabilmente, ad un certo punto, perlomeno chi ha a cuore un barlume di
idea della pace, dovrà pentirsi amaramente.
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