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BUSH DICHIARA GUERRA AL MONDO



IL DISCORSO SULLO STATO DELL'UNIONE: BUSH DICHIARA
GUERRA AL MONDO
http://www.wsws.org
http://www.wsws.org/articles/2002/jan2002/bush-j31.shtml


Il Discorso sullo stato dell'unione pronunciato da
George W. Bush 
giovedì sera è tra i più minacciosi e bellicosi della
storia 
americana. Il presidente statunitense traccia un
programma di guerra 
perpetua e illimitata in ogni continente e contro ogni
regime che si 
trova fra i piedi dell'avida classe dominante
americana.

Bush ha minacciato di attaccare l'Iran, l'Iraq e la
Corea del Nord – 
menzionando le tre nazioni per nome. A dispetto dei
suoi apocalittici 
ammonimenti riguardo alle «migliaia di pericolosi
assassini, 
addestrati all'assassinio, spesso supportati da regimi
fuorilegge», 
queste nazioni non hanno nulla a che fare che gli
attacchi 
terroristici dell'11 settembre, un fatto riconosciuto
dal governo 
statunitense stesso.

Invece Bush traccia una nuova giustificazione per
l'azione militare, 
sostenendo che Iran, Iraq e Corea del Nord stiano
cercando di 
sviluppare armi nucleari, biologiche e chimiche. Egli
ha dichiarato 
che «attraverso la ricerca di armi di distruzione di
massa, questi 
regimi pongono un grave e crescente pericolo».
«Stati come questi», egli dice, «e i loro alleati
terroristi, 
costituiscono un asse del male che si arma per
minacciare la pace nel 
mondo».

A dispetto del tentativo di Bush di resuscitare la
retorica della II 
Guerra Mondiale, nel suo riferimento all'«asse del
male», è il 
governo statunitense e Bush stesso che sta seguendo le
orme dei 
Nazisti. Bisogna tornare indietro alle tirate di Adolf
Hitler per 
trovare una equivalente bellicosità nelle
dichiarazioni pubbliche di 
una delle maggiori potenze mondiali, e un equivalente
cinismo nelle 
menzogne e provocazioni impiegate per giustificare
l'aggressione 
miliatare.


Un programma di conquista mondiale


Il paragone è adatto perché, come Hitler e i nazisti,
il militarismo 
americano si è avventurato in una campagna di
conquista e dominazione 
mondiale. Il Discorso sullo stato dell'unione è una
dichiarazione 
degli appetiti senza freno dei militari e della più
spietata, 
corrotta e criminale sezione dell'élite dominante
americana, che ha 
trovato il suo diretto rappresentante in George W.
Bush.

Come Hitler, Bush presenta una visione del mondo
capovolta in cui 
piccoli e deboli stati costituiscono delle minacce
mortali per il più 
potente e pesantemente armato. Nel 1938-39 Hitler
demonizzò prima la 
Cecoslovacchia e poi la Polonia come minacce per la
sicurezza 
nazionale della Germania, prima di muoversi a
devastare entrambe. Nel 
2002 Bush prende di mira la Corea del Nord, l'Iran e
l'Iraq, 
dichiarando: «Gli Stati Uniti d'America non
permetteranno ai più 
pericolosi regimi del mondo di minacciarci con le armi
più 
distruttive del mondo».

In realtà, queste nazioni hanno solo due cose in
comune: una 
disperata povertà e una vittimizzazione di vecchia
data da parte 
dell'imperialismo americano. Così come dovrebbe essere
ovvia 
l'identità del «più pericoloso regime del mondo»: è il
governo degli 
Stati Uniti stesso, una nazione il cui budget militare
supera quello 
delle nove potenze successive agli Stati Uniti
combinate, una nazione 
che ha, nel corso dei passati 12 anni, invaso,
occupato o attaccato 
una sequela di nazioni più piccole: Panama, Haiti,
Yugoslavia, Iraq, 
Somalia, Sudan e adesso l'Afghanistan.

Ci sono delle ragioni precise alla base della scelta
dei tre regimi 
che Bush ha nominato giovedì notte. La Corea del Nord
è stata per 
lungo tempo oggetto dell'ossessiva ostilità da parte
degli elementi 
di estrema destra che costituiscono la base politica
di Bush, in 
quanto uno degli ultimi residui della Guerra Fredda
con il blocco 
sovietico. L'Iraq, probabilmente il più bersagliato
tra paesi arabi 
produttori di petrolio, rappresenta il lavoro
incompiuto del regime 
di Bush padre, il cui fallimento nella conquista di
Baghdad e 
nell'installazione di un regime fantoccio appoggiato
dagli Stati 
Uniti ha irritato a lungo Washington. L'Iran è entrato
in conflitto 
con gli Stati Uniti dalla rivoluzione del 1978-79 che
ha rovesciato 
la dittatura dello Shah appoggiata dagli Stati Uniti.

Ma ci sono due maggiori preoccupazioni strategiche che
contribuiscono 
alla presa di mira di queste tre nazioni da parte
dell'azione 
militare americana: il petrolio e la preparazione di
una guerra 
statunitense contro la Cina, la potenza che Washington
vede come il 
suo principale concorrente per l'influenza nelle
regioni a nord e a 
est dell'Asia.

Il Medioriente e l'Asia Centrale posseggono, tra
queste, oltre due 
terzi delle riserve mondiali di petrolio e di gas
naturale. Gli Usa 
hanno attaccato l'Afghanistan come primo passo di una
campagna per 
stabilire delle posizioni militari nell'Asia Centrale.
L'Iran è 
entrato in diretto conflitto con questa offensiva
perseguendo i 
propri interessi nelle regioni di lingua persiana
dell'Afghanistan 
occidentale. Iran e Iraq sono di per se stessi il
secondo e il terzo 
produttore di petrolio della regione e vengono dopo
soltanto l'Arabia 
Saudita. 
Da un punto di vista militare, la rete di basi e
transiti che gli Usa 
hanno stabilito proprio dopo l'11 settembre
rassomiglia sempre di più 
ad un cappio stretto attorno alla Cina: Uzbekistan,
Tajikistan, 
Kyrgyzstan, Pakistan, India, e Filippine, e adesso la
minaccia di 
guerra verso la penisola coreana.

Come notava giovedì il quotidiano britannico Guardian:
«Ogni svolta 
nella guerra al terrorismo sembra assegnare un nuovo
avamposto al 
Pentagono nella regione del Pacifico asiatico, dall'ex
Unione 
Sovietica alle Filippine. Una delle più durevoli
conseguenze della 
guerra potrebbe essere il livello di accerchiamento
militare della 
Cina». Il giornale citava la Pentagon's Quadrennial
Defense Review 
che, senza nominare la Cina, avvertiva del pericolo
che «un 
concorrente militare con risorse formidabili potrebbe
emergere nella 
regione», e domandava una politica che «mettesse al
primo posto 
l'assicurarsi di accessi addizionali e accordi sulle
infrastrutture».


Il livello delle ambizioni militari degli Usa è
dimostrato dal 
gigantesco incremento nel bilancio del Pentagono che
Bush ha 
proposto, degli sbalorditivi 48mila miliardi di
dollari, un 
incremento più grande del bilancio militare totale di
ogni altra 
nazione. E il suo appello ad ogni americano a
sacrificare due anni 
nel servizio pubblico fa capire chiaramente la logica
di questo 
programma di militarismo senza freno: la restaurazione
del servizio 
militare obbligatorio per la nuova generazione dei
giovani americani.


La crisi interna e la spinta alla guerra

La politica di brigantaggio internazionale nella quale
gli Usa si 
sono avventurati è l'espressione, in ultima analisi,
dei conflitti 
sociali insolubili all'interno dei propri confini.
Come giustificare 
altrimenti la frenetica impellenza della spinta alla
guerra: come 
Bush ha detto al Congresso giovedì sera, «il tempo non
è dalla nostra 
parte. Non sarò in attesa degli eventi mentre i
pericoli si 
accumulano. Non starò con le mani in mano mentre i
pericoli si fanno 
sempre più vicini». 
Ci sono dei pericoli reali a cui si trova di fronte il
capitalismo 
americano, ma questi non provengono da una piccola
banda di 
terroristi o dai governi di deboli e impoverite
nazioni dall'altra 
parte del mondo. Questi pericoli provengono dalla
sempre più profonda 
crisi del capitalismo mondiale, dalle sempre più
intese 
contraddizioni all'interno degli Stati Uniti tra
l'élite straricca e 
la vasta maggioranza dei lavoratori.

Bush ammette che l'economia statunitense è entrata in
recessione, ma 
non ha rimedi per la crescita di disoccupazione,
povertà e 
deprivazione sociale e propone soltanto un'estensione
del suo 
programma di taglio delle tasse per i ricchi e la
grande impresa. 
Egli fa soltanto un riferimento di passaggio nel
Discorso sullo stato 
dell'unione a bisogni sociali come l'educazione e la
cura della 
salute e il suo Bilancio di previsione che sarà
rilasciato la 
prossima settimana incanalerà quasi tutte le nuove
spese alle forze 
armate e alla «sicurezza nazionale». 

Il Discorso sullo stato dell'unione giunge all'ombra
del collasso di 
Enron, la settima società statunitense e fra quella
che avevano i più 
stretti legami con Bush e il partito repubblicano,
così come una 
serie di altre bancarotte aziendali: Kmart, Global
Crossing, Sunbeam, 
l'intera industria dell'acciaio. Ma Bush non può
proporre nulla sulla 
questione del lavoro e del livello di vita eccetto
maggiori 
largizioni statali alle imprese.

La politica interna di Bush è centrata sulla
repressione interna, 
basata sulla polizia e sulle forze armate. Mentre la
«guerra al 
terrorismo» è il pretesto, il proposito reale è di
preparsi ad 
affrontare massicce rivolte sociali attraverso l'uso
della forza. Un 
governo installato non dal voto popolare, ma da una
maggioranza 5 a 4 
della Suprema Corte statunitense, l'amministrazione
Bush confida 
sempre di più sull'esercito e sulla polizia e si
libera dei fronzoli 
della democrazia. 

A dispetto della glorificazione di Bush da parte di
media cinici e 
imtimiditi, e della prostrazione del partito
democratico, questa 
amministrazione è isolata e profondamente impaurita di
qualsiasi 
autentica opposizione. Così come i sondaggi e le
pretese degli 
esperti che Bush sia senza eccezione popolare tra il
popolo americano 
sono soltanto degli strumenti per l'intimidazione
politica. Nelle 
fabbriche e negli uffici, o nei quartieri operai, la
reazione 
generale a Bush è di indifferenza , sospetto o
disprezzo. La guerra 
in Afghanistan è difficilmente oggetto di
conversazione e scarsamente 
sentita tra le larghe masse del popolo americano.

Non c'è spazio per la compiacenza. L'oppozione
all'amministrazione 
Bush e al capitalismo americano emergerà
inevitabilmente, ma per 
essere efficace dovrà essere basata sullo sviluppo
della coscienza 
politica tra le masse dei lavoratori.





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